IL PIANO DI RENZI: ANDARE ALLE URNE IN PRIMAVERA PER EVITARE IL REFERENDUM SUL JOBS ACT
DI PIERLUIGI PENNATI
Aveva detto che se vinceva il NO saremmo tornati indietro di 30 anni, il NO ha vinto e Matteo Renzi si è sbagliato di poco, aveva aggiunto uno zero di troppo alla sua stima, infatti stiamo forse per tornare indietro, ma di soli 3 anni, a prima del Jobs Act.
In realtà se questo potrà accadere lo sapremo solo il prossimo 11 gennaio, quando la Corte Costituzionale deciderà sull’ammissibilità dei referendum sul lavoro promossi dalla Cgil.
I quesiti in questione sono tre: abrogazione delle norme sui licenziamenti illegittimi, cancellazione dei limiti sulla responsabilità solidale in materia di appalti ed eliminazione delle norme su Voucher e lavoro accessorio.
Fin da ora i pronostici fanno tremare l’ex primo ministro che fa sapere che «Il Jobs Act non si tocca. Reintrodurre l’articolo 18 sarebbe come dire “ragazzi abbiamo scherzato”. Il giorno dopo arriverebbe un downgrading per l’Italia dalle agenzie di rating».
La legge è stata una delle bandiere dei suoi oltre mille giorni di governo e la sua revisione potrebbe disinnescare la bomba ad orologeria del referendum chiesto dalla CGIL con 3,3 milioni di firme raccolte e sul quale l’11 gennaio si pronuncerà la Corte Costituzionale. Nessuno ha però sollevato dubbi sul via libera della Consulta, dopo quello della Cassazione.
La strategia di Renzi potrebbe essere quella di andare alle urne in primavera proprio per evitare la consultazione, ma se nel suo partito in molti hanno dei dubbi a riguardo, la questione non sarebbe comunque chiusa, il Jobs Act, la revisione dell’articolo 18 ed in particolare il sistema dei Voucher non hanno convinto fin da subito e gli ultimi, secondo molti, sarebbero persino dannosi oltre che inutili per non aver mostrato evidenze di alcun emersione del lavoro nero.
Ora, dopo lo schiaffo del 4 dicembre Matteo Renzi non dorme più sonni tranquilli, un risultato referendario contro una delle leggi-manifesto del suo governo sarebbe un colpo dopo il quale diventerebbe davvero molto difficile riprendersi per tutto il PD che perderebbe ogni credibilità, avendo sostenuto i provvedimenti per i quali servirebbe ora una retro marcia totale.
Per disinnescare la mina referendaria il piano sarebbe semplice: elezioni anticipate. Il pensiero è stato esplicitato proprio dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti: «Se si vota prima del referendum il problema non si pone. Ed è questo, con un governo che fa la legge elettorale e poi lascia il campo, lo scenario più probabile». Infatti, se la Consulta darà il via libera, il referendum si dovrebbe svolgere tra il 15 aprile e il 15 giugno ma, con le lezioni, slitterebbe di un anno.
Le polemiche seguite alle affermazioni del ministro hanno prodotto un’immediata levata di scudi costringendolo a correggersi e dichiarare che le sue parole erano solo «un’ovvia constatazione» e non «un’ipotesi invocata».
Susanna Camusso non ha perso l’occasione di ironizzare: «Immagino che Poletti abbia una sfera di cristallo e abbia in sé anche le funzioni di presidente della Repubblica» , «Niente furberie per evitare il referendum, le minacce sul voto non funzionano».
Ma non sono le uniche voci contrarie, Gaetano Quagliariello parla di «strage del senso delle istituzioni», Stefano Fassina evidenzia «la distanza del governo dal Paese reale» ed anche nella minoranza PD non mancano critiche, Cesare Daminao è convinto che «Con i referendum della Cgil bisogna misurarsi: non si può mettere la testa sotto la sabbia».
Il dopo Renzi comincia in irta salita, modificare il Jobs Act per rendere inefficace le firme od andare al voto, comunque vada non sarà facile uscirne.
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