DOPO I PANAMA PAPERS E’ ARRIVATA L’INCHIESTA SUI ‘PARADISE PAPERS’

DI VIRGINIA MURRU

L’ennesima inchiesta da parte del Consorzio Internazionale dei giornalisti investigativi (CIGI), i paradisi fiscali hanno ora accessi ancora più trasparenti. Il 5 novembre scorso, questa rete internazionale di giornalisti – che ha sede a Washington,  e conta sull’attività di 165 giornalisti investigativi, operanti in 65 paesi – con la pubblicazione di un articolo, ha reso noto la diffusione di nuovi files che contengono documenti su conti off-shore di persone fisiche e multinazionali.

Il CIGI (o in inglese ICIJ, International Consortium of Investigative Journalists), si occupa in particolar modo di reati transnazionali e di corruzione, e proprio  quest’anno ha vinto  il Premio Pulitzer (Sezione giornalismo di divulgazione), per avere pubblicato e rivelato, tramite lunghe inchieste, i Panama Papers. Di questo staff di giornalisti – che collaborano in sinergia su tanti temi di carattere internazionale, comuni ai loro paesi di appartenenza, non di rado inerenti traffici illeciti – fa parte anche il settimanale italiano ‘l’Espresso’, che ha condiviso con gli altri il prestigioso riconoscimento. Questa la motivazione del Premio, categoria ‘giornalismo divulgativo, attribuito dalla Columbia University di New York:

“Per aver svelato la struttura nascosta e la scala globale dei paradisi fiscali”.

I  giornalisti del ‘Consorzio’ hanno investigato e pubblicato documenti importanti sui Panama Papers, legati allo studio legale Mossak Fonseca, dimostrando nel contempo che esiste una fitta rete di società offshore, usate purtroppo dagli stessi governi e dai potenti di turno (banchieri finanzieri, politici etc.) per eludere tasse celando al fisco profitti illeciti.

L’inchiesta ha coinvolto in tutto circa 300 giornalisti, che hanno messo in moto, attraverso controlli e indagini incrociate, qualcosa come 10 milioni di files e documenti, portando alla luce i traffici di 200 mila società, e centinaia di capi di stato. Naturalmente l’Italia non è stata esente da questa black-list: sono un migliaio le persone coinvolte.

I nuovi files  mettono in luce altri paradisi fiscali (tax haven), tra i quali le isole Cayman e Bermuda; si tratta di nuove inchieste, che portano più in profondità lo scandaglio sui conti off-shore. L’inchiesta condotta nel 2016, che ha avuto per oggetto i Panama Papers, riguardava un network imponente di oltre 200 mila società off-shore, con sede a Panama.

Una slavina che tutto ha travolto nel suo percorso d’inchiesta, leader politici e personaggi in vista, noti nell’ambito dello sport o dello spettacolo, certamente individui facoltosi, interessati a portare il loro ingombrante portafogli fuori confine. Lo scorso anno, i giornalisti investigativi, avevano un archivio di oltre 11 milioni di files, riguardanti un arco temporale che va dagli anni ’70 al 2016.

Persone fisiche e imprese (non di rado un intrico di società fantasma), avrebbero sottratto al fisco e dunque all’Erario, imposte per un valore che si conta in milioni di dollari, e ha coinvolto studi legali e banche, i quali hanno assistito i propri clienti senza rispettare la normativa antiriciclaggio, e senza svolgere gli opportuni controlli.

E’ stata poi una reazione a catena: in questa deflagrazione sono finiti anche istituti di credito che operano in circuiti internazionali,  risultati responsabili della costituzione di società a Panama e nelle Isole Vergini. Paesi che hanno una normativa ‘compiacente’ e accomodante, dove il denaro (soprattutto se proviene da fonte illecita), segue una rete contorta, non facile da individuare.

Ma i tax haven hanno strade accessibili anche per i finanziamenti al terrorismo, per il traffico di armi, per tutte quelle attività sommerse che non possono servirsi dei circuiti convenzionali. La garanzia del segreto e della massima discrezione è il lasciapassare di queste risorse, e investire diventa veramente un business. E’ in definitiva il segreto la maggiore attrattiva, e proprio la protezione sulla tracciabilità delle transazioni consente questi traffici, che vanno dal riciclaggio di denaro sporco, alle immense risorse derivanti dalla vendita di stupefacenti.

I governi possono agevolare l’elusione fiscale, favorendo per esempio le multinazionali con norme precise,  dopo accordi non propriamente alla luce del sole. Il governo italiano è uno di questi.

L’Unione europea ha di recente contestato la riforma fiscale varata da Renzi nel 2015, che consentiva troppi sconti sulle tasse che avrebbero dovuto versare le multinazionali.  Il premier Paolo Gentiloni ha quindi provveduto ad abolire, o a modificare, nel mese di aprile di quest’anno, le norme riguardanti il ‘patent box’ (ossia tassazione agevolata sui redditi derivanti da opere d’ingegno), le quali, appunto, stabilivano importanti riduzioni d’imposta per le società titolari di brevetti, marchi e licenze. In ambito Ue è stata la Germania, insieme ad alcuni altri paesi membri, a contestare all’Italia tale procedura fiscale in favore delle big del web, anche se, il ‘dossier’ al riguardo, è rimasto piuttosto riservato.

E’ stato comunque il settimanale l’Espresso a pubblicare i verbali riservati che vedono l’Italia sotto accusa. Sono proprio le cosiddette ‘Carte di Bruxelles’  a mettere in rilievo i vantaggi fiscali concessi alle big company, i cui traffici commerciali si svolgono tramite il web.

E’ un’inchiesta giornalistica che ha rivelato le valutazioni dello staff tecnico dell’Ue,  circa il rispetto, in termini di compliance, delle regole europee; quindi sull’applicazione delle norme fiscali da parte degli Stati membri. Regole che sanciscono la trasparenza e la lotta all’elusione già indicate peraltro dall’Ocse.

E’ vero che l’Ocse ha fornito disposizioni ai singoli stati per favorire, con opportuni incentivi fiscali, brevetti e studi volti a migliorare l’innovazione (che rientrano poi nel ‘patent box’), ma ha nondimeno precisato che tali agevolazioni fiscali devono corrispondere a spese effettive sostenute per ragioni di ricerca e sviluppo.

L’Italia, che in ambito Ue, aveva i suoi ‘detrattori’ alle spalle, Germania in testa, è stata in definitiva accusata di avere contravvenuto a queste norme, le quali, come si è accennato, riguardano la riforma fiscale del 2015. Si tratta poi di benefici che davvero l’Italia non si poteva permettere, visto che prevedono un consistente sconto del 50% delle tasse per una durata di 5 anni. Non solo: il beneficio era possibile prorogarlo per altri 5 anni.

L’attuale Governo ha certo provveduto a modificare o a cancellare le norme al riguardo, ma in un certo senso è stato come ‘chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati’. L’Italia non è mai stata chiara nel fornire i nomi delle aziende che hanno beneficiato di queste agevolazioni, e i tecnici tedeschi, i più riottosi verso l’Italia – questa volta veramente a ragione – hanno sottolineato  il fatto che, nonostante il governo Gentiloni abbia cercato di rimediare cancellando le norme sotto accusa, le multinazionali che hanno beneficiato finora delle agevolazioni, dopo avere siglato accordi con il Governo, potranno continuare a goderne fino al 2021..

Inutile perdersi in retorica e piangere ‘sul latte versato’, tanto per dirla con un luogo comune, di certo è stato un grande errore del governo Renzi. Se poi l’Ue ogni tanto ci dà una strigliata, non bisogna sempre atteggiarsi a vittime, perché di errori ce ne sono stati.

Su questo punto c’è da dire, secondo l’inchiesta condotta da l’Espresso, che possiamo consolarci col fatto che non siamo gli unici disobbedienti: discordanza con le norme fiscali sancite dall’Unione europea, ne sono state trovate anche nel ‘patent box’ della Spagna e della Francia.