DI VIRGINIA MURRU
Le generazioni del domani dovrebbero poter sognare un futuro migliore, invece, in barba al terzo millennio, apice del progresso scientifico e tecnologico, la prospettiva sembra destinata a rastremarsi, seguendo un iter involutivo perverso, che quasi spaventa.
Non è catastrofismo, quando sono i numeri a parlare non c’è spazio per supposizioni o teorie più o meno realistiche.
A creare il dovuto allarme ci ha pensato uno studio redatto da Confcooperative-Censis, che ha proiettato una luce inaspettata sulla sorte di circa 6 milioni di lavoratori, giovani che matureranno fra una trentina d’anni il diritto di andare in pensione.
Ma quale indennità di pensione attende questa consistente fascia di popolazione, che oggi vive sperando il meritato riposo dopo un lungo iter di attività lavorativa? Purtroppo non è dato saperlo. Le prospettive non sono incoraggianti: si teme un futuro di povertà. Questo è il punto: le prospettive hanno passaggi stretti, e già s’intravede foschia, visto che dopo tanta attesa i pensionati del futuro andranno ad allungare le fila dei ‘poveri’.
Secondo i dati che ha diffuso recentemente l’Istat, abbiamo una situazione paradossale, ‘da erma bifronte’ in termini di numeri e percentuali. C’è il dato confortante sul tasso di occupazione, che rispetto al passato ha raggiunto livelli minimi; ma in una linea di contrapposizione che stride, c’è poi la constatazione basata sull’impietoso riscontro numerico: i poveri aumentano inesorabilmente.
Il Censis ha pubblicato un rapporto molto chiaro negli ultimi giorni sulla crisi dei millennials, una generazione che fa slalom tra dinamiche di occupazione precaria, mal retribuita, sottoqualificata.
Alla luce di questi dati, il prossimo governo dovrà escogitare misure adeguate a fronteggiare la vera e propria ondata di emergenza che interesserà, appunto, altri 6 milioni di cittadini dopo il turn-over. Semplicemente si può dire che è una generazione a rischio, e la Confocooperative non esita a definire la situazione che si sta delineando “una bomba sociale”, col rischio di vedere confinato in stato di povertà l’esercito dei poveri, intorno al 2050, ossia 5.7 milioni di giovani che oggi hanno tra i venti e i 30 anni.
Il pessimismo dilaga su questo fronte: potrebbe essere a rischio addirittura la pensione, a causa di un Ente come l’Inps che sembra sempre sul punto di ‘implodere-esplodere’. La pensione che attende i millennials potrebbe essere pertanto, sulla base di questo ragionevole presentire, inferiore a quella che viene attualmente erogata agli aventi diritto. Secondo i calcoli degli studi effettuati, dovrebbe essere inferiore di oltre il 14%.
Un diritto così a lungo agognato, e soprattutto meritato, non dovrebbe nemmeno essere suscettibile di dubbi o rischi, in uno Stato che garantisce e tutela la vita dei cittadini alla conclusione della fase di attività lavorativa. Ma la verità è che non esistono oggi i presupposti per erigere ponti di ottimismo sul futuro. E’ già poco edificante la prospettiva di andare in pensione molto più avanti in età rispetto al passato, se poi si rende polvere anche il diritto di ricevere ciò che dovrebbe essere legittimo, è evidente che vengono meno le fondamentali sicurezze sul proprio futuro.
I più penalizzati sono i giovani del sud, che a causa della precarietà del mercato del lavoro, a volte rinunciano anche a portare avanti gli studi universitari, o a non intraprenderli proprio, dato che la prospettiva è la quasi certa disoccupazione. Sono I cosiddetti ‘Neet’ (acronimo inglese per Not ingaged in education, employment and training), giovani che non risultano attivi negli studi, nel lavoro o in qualsiasi attività di apprendistato o simili. Essere ottimisti non è semplice. Di difficile attuazione, stando al parere dei tecnici, il “reddito di cittadinanza”, sul quale si è riversata la speranza delle fasce deboli di un Paese che sta appena assaporando la ripresa.
Più o meno stroncato dalla Banca d’Italia, uno dei cavalli di battaglia in campagna elettorale portato avanti dal Movimento 5 Stelle, ossia l’istituzione di un reddito minimo per chi vive al limite della povertà, il tanto osannato ‘reddito di cittadinanza’ (stabilito su un importo intorno agli 800 euro). Gli italiani comunque ci hanno creduto, e subito dopo le elezioni, dopo il successo del Movimento, tanti di coloro che li hanno sostenuti, si sono riversati nei comuni di residenza e nei sindacati, reclamando i moduli per la richiesta del contributo promesso. Sono fatti accaduti al sud, forse esagerati dalla stampa, ma non si tratta propriamente di fake news.
Danno solo la misura delle attese, delle speranze investite su un movimento politico che ha promesso il riscatto delle fasce più deboli. In ogni caso non si può andare allo sbaraglio con gli equilibri della finanza pubblica, l’economia del Paese è ancora in fase di ripresa.
Ma tant’è: si insiste anche se non c’è una possibile copertura, lo afferma Bankitalia; e questo già lo si intuiva senza scomodare i numeri.
Interessanti le proposte del Presidente dell’Inps, Tito Boeri, il quale, intervistato da Il Sole 24Ore, sull’eventualità dell’abolizione della legge Fornero, tanto odiata dai lavoratori, ha riproposto un prospetto non nuovo per la verità, ovvero le pensioni flessibili. Più o meno dalla padella alla brace, questa la prima impressione.
Ma sono sempre i numeri ad imporre la dittatura dello status quo, o qualcosa di simile; le giustificazioni ci sono purtroppo: allontanarsi dalla riforma Fornero costerebbe dagli 85 ai 105 mld di euro (15 miliardi all’anno), che, espresso in termini di Pil, significa più o meno il 5%.. Non noccioline di certo.
Boeri non concorda con la proposta di abolizione della riforma Fornero, così tanto dibattuta e criticata, ma forse, secondo il professore della Bocconi, sarebbe il male minore.
Secondo le sue affermazioni, non è possibile il cilindro dell’illusionista, ma qualche intervento di miglioramento è auspicabile. Sarebbero fattibili, secondo le sue tesi, concessioni più elastiche riguardo ai tempi di uscita dal lavoro, ossia la possibilità di raggiungere l’età pensionabile con qualche anticipo. Deve però trattarsi di una “flessibilità sostenibile” dal sistema, non si può prescindere, con un debito pubblico delle ben note proporzioni, è necessario tenere i piedi ben saldi sulle strade percorribili.
Flessibilità d’accordo, sostiene Boeri, ma ci si deve rassegnare a sacrificare una piccola quota riguardante la futura pensione. Senza immolare qualcosa in questo strettissimo percorso, non si possono inventare le risorse. Ci sono anche i pareri di alcuni organismi internazionali sul tema pensioni, che tanto affligge il nostro paese; Il FMI suggerisce di destinare più mezzi ai giovani, incoraggiando le nuove assunzioni. Ma in che modo?
Secondo Il Fmi, si potrebbero recuperare risorse attraverso le imposte patrimoniali, riducendo la pressione fiscale, e percorrendo la via della tassazione progressiva dei redditi da lavoro. Misure efficaci che permetterebbero di colpire i redditi più elevati. Un sentiero possibile, ma non gradito alle destre, che pure hanno rastrellato tanti voti di protesta. Non sarebbe un processo propriamente in sintonia con la Flat tax, anch’essa, come ‘il reddito di cittadinanza’, ritenuta dagli esperti un salto nel buio.
Resta il fatto che i giovani tra i 20 e i 30 anni, sono a rischio povertà, in termini di percentuali inciderebbe del 12%; in ambito Ue risultano due punti percentuali in più rispetto alla media europea. A creare ulteriore congestione nel versante dell’occupazione è il turn-over, tanto che per il 46% dei giovani tra i 25 e i 34 anni, è diventata la causa che incide maggiormente nella disoccupazione giovanile. Sono stati destinati nella Legge di Bilancio delle risorse da destinare al cosiddetto ‘reddito di inclusione’, che nel 2020 raggiungerà l’importo di 2,7 mld.
Un buon argine, ma non basterà. I giovani del meridione sono quelli più a rischio povertà: ci sono 1 milione e 200mila giovani che rientrano nella condizione “Neet”, il tasso d’inattività in Sicilia e Campania sfiora vertici in questa fascia che superano il 40%. Diverso il discorso al Centro e soprattutto al Nord, anche se la sofferenza dei giovani non manca neppure nelle regioni in cui il benessere prevale.
Interessante, nello studio di Confcooperative, il rapporto esistente tra la pensione di un genitore e quella futura del figlio. Il padre alla fine della sua attività lavorativa e il relativo versamento dei contributi, potrà contare su una pensione che sarà pari all’84,3% dell’ultimo stipendio, mentre la seconda generazione – posto che è difficile stabilire l’età pensionabile, dovendo essere adeguata alle regole legate all’aspettativa di vita – avrebbe solo il 69,7% di pensione, sempre secondo l’ultima busta paga percepita. In spiccioli, quasi il 15% in meno rispetto al padre.
E tuttavia si tratta di studi che devono tenere conto dell’approssimazione, perché sono proiettati in un futuro tempestato d’incognite.
Non è semplice, in definitiva, secondo il quadro d’incertezze che oggi si presenta, prospettare realmente le effettive incidenze dei cambiamenti in atto nel terzo millennio sul versante pensionistico, in un Paese come il nostro, tormentato dallo stato dei conti pubblici, che per decine di anni non sono stati sicuramente la priorità dei vari governi che si sono succeduti. Oggi, a farne le spese, sono i lavoratori, e le fasce più deboli della popolazione.