DI VIRGINIA MURRU
Il presidente della BCE, Mario Draghi, nella conferenza stampa di oggi, ha annunciato che il Qe, ossia il programma di acquisto di titoli governativi di quasi tutti i paesi dell’area euro, è giunto al suo capolinea: entro il 2018 il ‘protocollo di cura’ sarà chiuso.
Attualmente la portata degli acquisti mensili è di 30 miliardi al mese (da gennaio), oggi Draghi ha annunciato che a partire da ottobre prossimo il ritmo sarà dimezzato, ossia 15 miliardi al mese fino a dicembre. Da gennaio 2019, lo stimolo monetario cesserà del tutto. Ora Draghi, non ripeterà più, la sua intercalare fissa: “or beyond if necessary” (o anche oltre, se necessario).
Missione compiuta? Non propriamente, nell’area persistono ancora difficoltà, legate non solo al basso tasso d’inflazione. In alcuni Stati, i conti con la crisi economica non sono ancora chiusi. Per dirla alla ‘Merkel’: in Eurozona si viaggia a due velocità, ed è anche per questo che l’Eurotower ha deciso di lasciare i tassi invariati.
L’Europa, dopo essere stata investita e quasi travolta dalla grande crisi economica del 2008, per la Bce è stata un “paziente” non facile da trattare. La terapia intensiva, ossia l’acquisto di asset tramite le Banche Centrali, è durato più del previsto, perché le conseguenze contorte della crisi sul sistema – che ha presentato problemi di deflazione e d’instabilità dei prezzi – hanno richiesto accomodamenti di politica monetaria necessari a sollevare e sostenere gli Stati coinvolti nei negativi rivolgimenti economici e finanziari.
Dal 2017, ossia da quando la ripresa e la crescita dell’economia in area euro si è stabilizzata, la Bce ha deciso di ridurre il volume di acquisti, portandoli da 80 miliardi di euro al mese, a 60 (ad aprile). Le strategie di tapering sono state graduali, e infatti si è atteso fino a gennaio 2018 per la successiva riduzione degli acquisti, che sono stati portati a 30 miliardi al mese.
L’Eurozona è stata simile – tanto per restare nell’allegoria – ad un organismo dopato, ovviamente per evitare interruzioni traumatiche al sistema, si è proceduto in modo graduale, affinché ogni Stato coinvolto potesse di nuovo essere in grado, lentamente, di camminare con le proprie gambe.
Questo delicato aspetto della politica monetaria dell’Eurotower, implica scelte decise all’unanimità dal Consiglio Direttivo, si è deciso di ridurre gradualmente l’acquisto di attività, perché si sono presentate le condizioni e le premesse, nell’economia relativa all’eurozona, per una contrazione degli stimoli.
Lo start del programma di acquisto di titoli pubblici, o Quantitative Easing, come si è detto, è avvenuto nel 2015, attraverso le rispettive Banche Centrali dei paesi dell’area, intervento noto anche come “Expanded Asset Purchase Programme, APP”.
Ma la Bce era già intervenuta un anno prima, sempre su delibera del Consiglio direttivo, con la riduzione dei tassi d’interesse ufficiali, e rendendo il costo delle operazioni di rifinanziamento prossimo allo 0, portando nel contempo su valori negativi il rendimento applicato ai depositi degli istituti di credito presso l’Eurosisema.
Attualmente, per quel che concerne l’Italia, la Banca Centrale Europea, possiede nei suoi depositi 340 miliardi di euro in titoli, ovvero, più o meno, il 15% del nostro debito pubblico. Che la politica monetaria espansiva abbia dato un grosso impulso all’economia italiana, è indubbio. Ma naturalmente ha sostenuto anche le economie più solide dell’area euro, non solo i Paesi più provati dalla crisi.
La Bce, se si considerano tutti gli Stati che hanno beneficiato degli stimoli monetari, ha acquistato attività per un importo pari a 2.300 miliardi.
Certamente, la fine di questa ‘manna’, non sarà dolorosa solo per l’Italia. Sì, perché, in un sistema così dopato, un po’ di crisi di astinenza sarà fisiologica, a dir poco. Ed è anche implicito che non tutti i Paesi dell’eurozona ‘soffriranno’ allo stesso modo per la ‘mancanza’, per la stessa ragione per la quale l’onda d’urto della crisi ha avuto un impatto diverso nelle economie più resistenti.
Per l’Italia sicuramente non sarà semplice, con i suoi 2.300 miliardi di debito pubblico, tutto diventa più complicato. Ora il Paese dovrà entrare con le sue forze nella giungla dei mercati e affrontare gli investitori internazionali, perché finanziarsi con la vendita di titoli sarà una necessità primaria. E c’è da sperare che i rendimenti diventino sempre più bassi.
La musica, con la fine del Qe, potrebbe cambiare anche per chi ha acceso un mutuo a tasso variabile, e per chi si accinge a farlo, mentre più sicuri saranno coloro che hanno scelto un tasso fisso, non soggetto a rischi di tempesta nel sistema finanziario.
Intanto, per il momento, secondo le dichiarazioni del presidente Draghi, i tassi d’interesse non subiranno variazioni. Ma non sarà una decisione a lungo termine, i tassi riprenderanno a salire, e molto probabilmente dal prossimo anno, dipenderà da una serie di fattori.
Il Qe ha agevolato di certo la disponibilità del credito, e l’accesso ai mutui, che a loro volta hanno contribuito a stimolare, tra gli altri, anche il settore immobiliare.
La Fed, negli Usa, è intervenuta ancora al riguardo, aumentando i tassi di un quarto di punto. Ma il climat degli States è diverso da quello europeo.
Il settore più esposto, dopo la fine del Qe, resta quello bancario, senza gli stimoli della Bce, la disponibilità del credito potrebbe diminuire, con tutte le conseguenze che questo comporta in un sistema economico di mercato, dove gli investimenti e l’accesso ai finanziamenti sono l’energia migliore per la crescita e lo sviluppo.
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