DI VIRGINIA MURRU
Le riserve e la diffidenza nei confronti del nuovo Governo italiano, da parte dell’Unione europea e dei suoi più autorevoli rappresentanti, è iniziata con le polemiche sul modo in cui il ministero dell’Interno ha scelto di gestire le politiche sull’immigrazione.
Non c’è intesa e non potrà essercene con una logica di chiusura dei confini e lo slogan “prima gli italiani”, al di là di ogni considerazione etica, al di là di quell’ecatombe che da anni è diventato il Mediterraneo.
E c’è però l’altra faccia della medaglia: l’Italia non può continuare a gestire ‘flotte’ di migranti con una scarsa regolamentazione da parte dell’Ue, solo perché le sue caratteristiche geografiche ne facilitano l’approdo, occorrono sicuramente misure efficaci per disciplinare in modo equo l’arrivo dei flussi di disperati che provengono soprattutto dal nord Africa.
La condivisione dell’accoglienza deve rientrare in un piano d’interventi volto alla responsabilizzazione di tutti gli Stati dell’Unione, non è una questione di stanziamento di fondi a supporto del notevole peso economico che grava sui paesi che accolgono, è la gestione e le implicazioni insite nei processi d’integrazione che preoccupa.
Nonostante le politiche socio-integrative messe in atto dal Ministero del lavoro, volte a rendere sostenibile il fenomeno, è difficile arrivare all’obiettivo di portare all’autonomia questi diseredati, che si trascinano dietro storie travagliate di violenza e miseria. Lo sbando e le storie di emarginazione che ne conseguono, emergono ogni giorno anche dai fatti di cronaca; vi sono ragioni sensate per disciplinare il flusso degli arrivi, non ve ne sono per il rifiuto e la chiusura a prescindere, non si può certamente giustificare l’intento di volgere lo sguardo altrove e lavarsene le mani.
In seguito all’approvazione della Nota di aggiornamento al Def, i rapporti tra Governo italiano e Bruxelles, sono diventati quasi roventi. I conti pubblici italiani, secondo la Commissione europea, erano tutt’altro che a norma anche negli anni scorsi, secondo i parametri Deficit/Pil che dovevano essere rispettati.
Materia del “contendere” è la scelta dell’attuale governo di sforare il 2%, e portarsi al 2,4%, mentre l’Italia vive una fase delicatissima di transizione, già nel mirino dei mercati, con uno spread che è ultrasensibile ad ogni dichiarazione che comporti minacce d’instabilità. Uno spread che, per i conti pubblici, sta diventando un ordigno per il differenziale di rendimento e gli interessi passivi che vanno ad aggravare la precarietà sul piano finanziario.
E l’attrito arriva dall’Unione e dagli esponenti politici delle economie più solide in Europa, per tutti la manovra espansiva posta in essere dal Governo è piena d’insidie. C’è del coraggio, guidato dal forte impulso di una svolta, ma i riflessi già spaventano.
Anche i quotidiani economici più autorevoli sono allarmati dalle mire espansive del nuovo Governo, il Financial Times in particolare, che ritiene pericoloso questo procedere spavaldo, e sostiene che più o meno queste scelte equivalgano a “mettere un dito nell’occhio dei partener dell’Ue”. Aggiungendo che il ministro Tria sta cercando di contenere l’esuberanza dei vertici del Governo, e qualora decidesse di lasciare le redini, la situazione precipiterebbe. “E’ una politica di bilancio azzardata – sottolinea il quotidiano londinese – che vira in modo pericoloso rispetto alle regole fissate dall’Ue in questo ambito.”
Intanto per oggi è prevista un nuovo vertice del Governo; secondo Reuters, che fa riferimento a fonti governative della Lega, si è già deciso un passo indietro: ossia di rendere meno traumatico l’impatto sul rialzo del deficit/Pil. La misura del 2,4% sarà rivolta solo al 2019, non all’intero triennio. Si è dunque previsto di portarla al 2,2% nel 2020 e al 2% nel 2021.
Una lieve revisione che tende a rendere più soft il rapporto deficit/Pil nei prossimi anni, ma, secondo i due vice premier, Salvini e Di Maio, non si cambierà di un micron la sostanza della misura, considerata lungimirante per le classi meno abbienti. Il ministro degli Interni intanto tuona contro Bruxelles, che ieri, con le sue dichiarazioni, avrebbe fatto compiere un balzo ancora più negativo allo spread, arrivato ad oltre 300 punti base, causando ulteriori disastri in borsa.
E potremmo essere pronti ad imboccare la via della procedura d’infrazione, visto che le norme di rispetto sul fiscal compact, di fatto sono state ignorate.
Secondo l’ex ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, in una intervista pubblicata da Agi, l’economia italiana già non è sostenibile in area euro, la recente approvazione delle misure contenute nella manovra del governo, non potrà cambiare di molto le sorti del Paese. Varoufakis del resto è sempre stato contrario alle politiche europee del Fiscal Compact, ma anche il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, aveva più volte espresso il suo dissenso in merito negli anni scorsi.
Sono tanti i paesi, e diciamo pure le economie più solide dell’Unione, che tentano di superare i parametri rigidi imposti dalle sue politiche, andando al di là delle misure che possono mettere a rischio la sostenibilità finanziaria (nell’Ue), con una deviazione dagli obiettivi di austerità espansiva.
Recentemente, il ministro per gli Affari europei, Paolo Savona, ha inviato alla Commissione europea un documento, nel quale si chiede una riforma delle politiche e misure stabilite dalla Ce, perché sarebbero superate, e occorre un dinamismo più adeguato alle esigenze degli Stati che ne fanno parte, in particolare la normativa sul Fiscal Compact (o Patto Intergovernativo di Bilancio europeo), che in qualche modo risulterebbe contorto.
Negli anni scorsi, il ministro Padoan, in più occasioni aveva chiesto una revisione delle sue regole, e si era peraltro cominciato a lavorare a Bruxelles in tale senso, ma poi ne è stato bloccato il corso. In realtà il Fiscal Compact non lo vuole nessuno, né si vorrebbe che fosse incorporato nei Trattati dell’Unione (come stabilisce l’articolo 16 del Fc).
Secondo gli esperti in questo ambito, le regole adottate dall’Ocse in questo genere di ‘conteggi’, sarebbe meno rigida di quella dell’Unione europea. Ma vi sono due ‘sentinelle’ a garanzia del rigore, e sorvegliano la roccaforte dell’euro: la Bce e la Commissione europea, entrambe convinte della severità delle misure di politica economica, e della necessità d’incrementare il processo di attuazione delle riforme strutturali, affinché si garantisca la tenuta dell’Eurozona, e si stimolino tutti i fattori potenziali di crescita, dall’occupazione agli investimenti. Insomma: migliorare i conti pubblici e la governance. Portare gradualmente il debito pubblico al 60% del Pil.
L’economista e ministro Savona, attraverso il suo documento trasmesso alla Ce, vuole mettere in rilievo il ruolo di un’”Europa dentro la Storia, non all’interno di schemi econometrici”. Necessaria, dunque, una riforma interna (che preveda un bilancio pubblico europeo), cominciando da quella dei singoli Stati, sui quali è necessario avviare un’estrapolazione degli investimenti pubblici dalla valutazione dei bilanci, mediante un’attenta verifica dei moltiplicatori.
Una cosa è certa: il fiscal compact, o Patto di bilancio, danneggia l’Italia e i suoi conti, ma anche altri paesi, la Spagna e la Francia a loro volta hanno da tempo presentato rimostranze al riguardo alla Ce.