DI VIRGINIA MURRU
L’accordo tra la premier britannica Theresa May e i rappresentanti dell’Ue sembrava ad un passo dal traguardo, e invece non rassicurano le dichiarazioni di Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo: “la convergenza delle parti negli ultimi incontri sembra più lontana che mai”.
E il totale accordo tra Regno Unito e Ue non è stato affatto raggiunto.
Il nodo è tra i più dibattuti – già all’indomani del referendum svoltosi due anni fa – e riguarda i confini tra Irlanda del Nord e Irlanda, che già si porta dietro una memoria storica di scontri e tensioni.
Il risultato di queste divergenze, tra la delegazione del RU e Ue, è che si ritorna al rischio del ‘no deal’, o hard Brexit, anche se questa ipotesi, com’è facile presentire, porterebbe conseguenze veramente serie per l’economia del Regno Unito, che già sta scontando le conseguenze del successo referendario in favore dei “Leave”.
Del resto sono allarmati un po’ ovunque nel Paese; recentemente lo ha affermato anche il personale accademico delle Università scientifiche, il quale sostiene che ‘non esiste un piano B’, e che è indispensabile salvaguardare la ricerca dai possibili esiti negativi della Brexit. “La ricerca – dichiarano senza eufemismi – è stata anche finanziata dall’Ue, un negoziato che si concludesse senza accordi significherebbe un cataclisma”.
In questi ultimi due anni, le tentazioni di un secondo test elettorale sono state forti, incoraggiate, foraggiate e sostenute da orizzonti diversi della società britannica, da quello politico a quello economico e finanziario, nonché giuridico. Soprattutto dalla parte della popolazione che non si riconosce nel risultato elettorale.
E proprio qui sarebbe necessaria qualche considerazione. Domanda: è lecito che il 51% dei votanti trascini il restante 48% in una scelta così importante per il Regno Unito? Non sarebbe stato più ovvio il buon senso, ossia prevedere uno scenario dal quale potesse emergere un simile risultato, e per questo stabilire un margine di consensi maggiore, per entrambi le parti?
Risposta: a questo punto, poiché non si è tenuto conto di un dettaglio così importante, sarebbe ovvio procedere con una seconda consultazione referendaria.
Recentemente è stato scritto sul Financial Times:
“Ha senso l’idea di un secondo referendum? I tanti che condividono le mie vedute sul voto – che è stato un errore enorme – insistono che un senso ce l’ha. Anche se dalla parte dei ‘Leaves’ naturalmente non è proponibile. Eppure fa parte dell’essenza di una democrazia il fatto che gli elettori possano cambiare le loro tendenze sul voto.
Se questo non fosse stato possibile, tutto sarebbe rimasto nei limiti dello stesso risultato ottenuto con il referendum del 1975, quando il popolo del Regno Unito scelse di diventare membro dell’Ue..”
Un brevissimo excursus storico al riguardo è necessario.
Cominciò nel 1973 (non nel ’57 col Trattato di Roma), quando il RU entrò a fare parte della Cee (Comunità economica europea, ossia Mercato comune). L’accordo fu siglato da un rappresentante dei Tory, Hedward Heath. Nei primi anni ’60, la Gran Bretagna affrontò una crisi economica non di poco conto, si trovava di fronte ad un elevato tasso di disoccupazione, e il Pil era tra i più bassi in Europa.
Il precario stato dell’economia spinse il Governo a chiedere l’adesione alla Cee, ma la richiesta fu respinta due volte. Poi fu in seguito accettata. In quel periodo ci fu però un ‘turn over’ del premier: Heath era stato sconfitto, gli subentrò il laburista Harold Wilson, il quale, volle sondare gli umori della popolazione sulla permanenza della GB nella Cee, e, nel 1975 , indisse pertanto un referendum. I “Remain” di allora vinsero con il 62% dei consensi. Anche la Thatcher si schierò a favore.
In questo caso il risultato riflette veramente uno schieramento chiaro, verso una scelta decisa, con quasi il 10% in più dei consensi ottenuti dai “Leave” nel 2016. Qui si può ragionare meglio in termini di democrazia. Se si fosse conseguito un buon 70%, il risultato, ovvio, sarebbe stato ancora più garantito.
Ma quando più o meno il 50% si schiera in una posizione positiva e l’altra metà propende per l’altro versante, vincendo la competizione elettorale per pochi punti, è possibile che il dibattito e il dissenso finiscano per incoraggiare anche gli atti violenti. Cosa che puntualmente si sta verificando negli ultimi due anni in Regno Unito.
Come si è accennato, anche le pressioni per un’altra prova elettorale sono state tante, le lotte della premier scozzese (Nicole Sturgeon) che non voleva e non vuole saperne di lasciare l’Ue, sono state implacabili. Ha minacciato a lungo un nuovo referendum per la secessione della Scozia da Londra (consultazione che peraltro c’era già stata alla fine del 2014, quando i ‘no’ avevano vinto più o meno con lo stesso risultato dei brexitiers, ossia il 55,4%).
Ma Nicola Sturgeon, e il Parlamento scozzese, sono sempre sul piede di guerra. Non intendono divorziare dall’Unione europea, e anzi vorrebbero sfruttare il dissenso popolare al riguardo per imporre una seconda consultazione referendaria sull’indipendenza . Il Parlamento ha infatti recentemente respinto il progetto di legge-quadro formulata da Londra per l’uscita dall’Ue.
L’entusiasmo non è alle stelle neppure in Irlanda, e in quella del Nord; i fermenti pro Ue non mancano; vi sono stati anche incontri con i reciproci rappresentanti politici, volti a trovare un accordo per l’unione dell’isola. Ma non è semplice, il ‘leone’, a Londra, non tollererebbe la disgregazione del Regno Unito, c’è già la Scozia che preme, come spina sul fianco. La Gran Bretagna, che con il Commonwealth ha avuto mezzo mondo in passato tutto per sé, non accetterebbe di essere ridotta ai minimi termini senza battere ciglio.
Londra non vuole in ogni caso spostare il confine doganale sulle coste dell’isola. Per l’Ue si prospetterebbe una hard border. Né il RU è disposto a concedere l’inclusione dell’Irlanda del Nord nell’Unione, perché creerebbe i presupposti per l’indipendenza politica, e la conseguente unità dell’isola. Realtà scongiurata dal Governo inglese, per le ragioni esposte.
A febbraio scorso, Michel Barnier, negoziatore capo dell’UE per la Brexit, aveva proposto l’inclusione dell’Irlanda del Nord, ma com’è facile intuire, aveva trovato ferma opposizione da parte di Theresa May e dal suo entourage politico.
La questione Irlanda è sempre in graticola, oggetto del contendere, e sta tuttora creando ostacoli nei negoziati.
I “remain”, in Gran Bretagna, hanno sperato a lungo in un’inversione di tendenza decisiva per quel che concerne gli umori della popolazione, soprattutto tra coloro che avevano votato il movimento “Leave” nella consultazione referendaria del 23 giugno 2016. Da un anno a questa parte, la possibilità di un nuovo test elettorale si è fatto sempre più reale, se si considerano le vicissitudini politiche della leader Tory Theresa May, e il dissenso sempre più evidente tra i suoi stessi sostenitori in parlamento.
La stessa premier, nei giorni scorsi, ha dichiarato che i risultati dei recenti incontri a Bruxelles si sono rivelati più complicati di quanto ci si potesse attendere.
I problemi sul tavolo delle trattative sono pochi, ma si tratta di quelli più ostici, come il dossier Irlanda del Nord, appunto. Indiscrezioni raccolte negli ambienti Ue da Reuters, fanno intendere che a Bruxelles ci si prepara anche al peggio, ossia ad un negoziato senza accordi. La May è “under pressure” (sotto pressione), si fa influenzare da esponenti Tory che spingono per una hard Brexit, al di là delle conseguenze, e possibili ritorsioni Ue.
Nello specifico, Londra, non intende accettare un’ipotesi di backstop, pieno d’insidia per il RU, ossia la proposta dell’Unione volta a tenere dentro i confini del mercato unico l’Irlanda del Nord. La premier deve lottare tra due fuochi: gran parte dei parlamentari non vogliono una hard Brexit, non ne accetterebbero le condizioni.
Si attende una possibile svolta durante il vertice (dei leader) dei 27 Paesi membri a Bruxelles, previsto per mercoledì, nel corso del quale potrebbe maturare l’accordo decisivo. Marzo 2019 è ormai prossimo, ed entro questa data si dovrebbe applicare, nei confronti del Regno Unito, l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che prevede e disciplina il recesso volontario e unilaterale di un paese membro dall’Unione europea.