LO SPREAD, MINA VAGANTE SULLA MANOVRA . IL COLPO DI GRAZIA DI MOODY’S

DI VIRGINIA MURRU

Ogni volta che lo spread negli ultimi mesi ha raggiunto picchi pericolosi, che ci hanno scaraventato con la memoria agli anni drammatici 2011/14, sembrava che dovesse essere il limite oltre il quale non si sarebbe andati, e invece non è mai stato così, si è andati sempre più oltre, inesorabilmente. Ieri lo spread ha raggiunto i 340 punti base.

E si continua ancora ad oltrepassare i limiti di guardia con il differenziale Btp/bund, mentre gli investitori intensificano le vendite dei titoli di Stato italiani, ad agosto, secondo Bankitalia, ne sono stati venduti per un importo pari a 17,9 miliardi.
L’eziologia del malessere è sempre la stessa: l’incertezza che i mercati percepiscono sul versante della politica economica, e in particolare sulle misure azzardate della manovra, trasmessa a Bruxelles con una previsione di spesa percepita dalla Commissione europea e dai mercati, come eccessivamente rischiosa, senza autentiche garanzie di copertura, e dunque non degna di fiducia.
E’ inutile che il premier Giuseppe Conte la definisca “bella” e proiettata verso la crescita, i mercati continuano a rivoltarsi. L’Italia è un paese che potrebbe compromettere l’equilibrio e la crescita faticosamente raggiunta negli ultimi anni dall’Eurozona, questi sono i timori dietro le quinte.
Non s’intende sorvolare questa volta nei confronti delle ‘trasgressioni’ del Governo, non si può più chiedere flessibilità; quel 2,4% di sforamento (anche se le economie più solide dell’Ue hanno spesso bypassato i limiti sui parametri) nel rapporto deficit/Pil, potrebbe portarci verso la procedura d’infrazione.
A Bruxelles alzano muri pesanti, invalicabili dalla diplomazia: nessuno è disposto a perdonare all’Italia l’ambizione di una manovra economica troppo lungimirante.
Nella prima settimana di marzo 2015, lo spread era tornato  a 90 punti base, cosa che non accadeva più dal 2010, poco prima della crisi dei debiti sovrani. Tre anni fa, la differenza di rendimento tra i titoli di Stato decennali italiani e quelli tedeschi, era tornata sotto i 100 punti. Sembrano tempi lontani.
Lo spread, questa parola così ostica – che nel 2011, quando aveva raggiunto picchi vertiginosi oltre i 500 punti base (era in marcia verso i 600, esattamente a 574 punti base, con rendimento fino a 7,40%) – rispecchia lo stato di solidità che percepiscono gli investitori nei confronti del Paese che emette i titoli. Quando il rendimento è basso, si stima che il Paese potrà facilmente disimpegnarsi dai suoi debiti, al contrario quando è alto significa che esistono in merito delle riserve, e pertanto l’investitore ‘pretende’ un rendimento maggiore in relazione al rischio, un premio.
Di spread, fino al 2011, se ne parlava ben poco, e infatti era un termine sconosciuto ai più; a partire da quell’anno era entrato nel linguaggio comune come un suono che agita spettri in ambito economico-finanziario. Non si sentiva la necessità, al di là dei confini dei mercati, di riflettere sul ruolo importante che riveste, tanto più che fino al 2008 non aveva mai superato la soglia dei 30/40 punti base. Poi arrivò come un ciclone la crisi dei mutui subprime: gli Usa primo focolaio di crisi, e poi l’Europa naturale bersaglio investita da quelle raffiche. Sappiamo com’è andata, quanto è costato risollevarsi da un contagio così virulento.
Il Governo sottovaluta anche il fatto che l’Italia, insieme agli altri paesi dell’Eurozona, non potrà più contare sullo scudo della BCE, ossia della politica monetaria espansiva, che di certo ha dato una buona mano all’economia di tutti i paesi dell’Unione, e in modo non indifferente alla nostra. Non ci sarà più il rassicurante “whatever it takes“ di Mario Draghi, pronto a soccorrere l’emergenza, arrivano anzi moniti ben precisi da Francoforte sulla politica economica seguita dal Governo.
La manovra è ambiziosa, certamente proiettata verso il dinamismo dell’economia, con l’uso di strategie e mezzi finanziari che mirano a incentivare la crescita e a rendere più solidi i fondamentali macroeconomici. Ma i mercati e l’establishment di Bruxelles, in questo momento di transizione politica e d’incerta congiuntura economica, non vogliono mandare giù le stime basate sul rischio. I mercati sono esposti a tutti i venti, e ultra sensibili alle minacce d’instabilità, quindi di rischio. Per questo, ormai da mesi, fanno i conti in tasca all’Italia, e pretendono maggiori certezze sul DPB (Draft Budgetary Plan), ossia il Documento Programmatico di Bilancio che il Governo ha recentemente trasmesso a Bruxelles.
Ai problemi che vengono dall’esterno si aggiungono ora anche quelli di un’intesa non più solida tra i due schieramenti politici che formano l’esecutivo, non ne fanno mistero neppure i due vicepremier, ogni tanto si scambiano espressioni non proprio rassicuranti su alcuni punti chiave della manovra. Il premier Conte, considerata l’aria che tira e la necessità di fare il punto su alcuni temi ancora roventi, ha convocato per oggi il Consiglio dei Ministri.
C’è poca intesa sul decreto fiscale, fortemente sostenuto da Salvini, l’altro vicepremier dei 5S, ha tante riserve sulla questione condono, e Conte tra i due litiganti cerca di smorzare i toni e tenta di riportare il clima di armonia dei primi mesi di governo.
In un’intervista al Corriere della Sera, il vicepremier Matteo Salvini, alla domanda “sicuro che il governo reggerà?”, ha risposto:
«Ma secondo lei, io faccio cadere il governo per il condono? Io continuo a sperare di lavorare per l’Italia nei prossimi 5 anni. Ho conosciuto Di Maio come persona corretta e coerente , lui era seduto di fianco a me quando il decreto è stato approvato. Io non ho parlato. Ora, che cosa dovremmo fare? Lo dicano loro. A meno che non siano altri che vogliono far cadere il governo. Noi, a partire dall’Europa, abbiamo tutti contro. Se vogliamo dare questa soddisfazione…».
Intanto lo spread è arrivato ieri a 340 punti base, oggi è sceso, ma sempre sopra i 300 punti, perché in questa nebbia non s’intravede ancora un orientamento che trasmetta sicurezza agli investitori, e soprattutto alla ‘corte’ di Bruxelles. Il Commissario agli Affari economici Pierre Moscovici, quando la Commissione ha consegnato la lettera di risposta al Governo sulla manovra, nella quale si esprime dissenso sulle misure adottate, ha dichiarato che “ora la palla passa a Roma”. Lunedì si attende la risposta del ministro Giovanni Tria.
La lettera inviata al Governo è esplicita, fin dai primi capoversi:
“Ai sensi dell’Articolo 7 del Regolamento (UE) n. 473/2013, e facendo seguito alla nostra lettera del 5 Ottobre 2018, le scriviamo per consultarla sulle ragioni per cui i piani dell’Italia configurano “una violazione grave e manifesta dalle raccomandazioni adottate dal Consiglio ai sensi del Patto di Stabilità e Crescita” per il 2019, il che rappresenta motivo di seria preoccupazione per la Commissione europea.”
Su questo clima pesante e denso di foschie interne ed esterne all’esecutivo, si abbatte anche l”anatema” di Moody’s: l’Agenzia di rating ha ‘scomunicato’ l’economia italiana, il declassamento è arrivato puntuale, facendo seguito alla minaccia incombente espressa di recente dai tecnici. Pertanto, da “Baa2”, si passa a “Baa3”, con outlook stabile; le strategie di bilancio e il debito pubblico sempre più pesante, hanno inciso e determinato la valutazione. Manca, inoltre, “una coerente agenda di riforme per la crescita”.
Ora si attende il verdetto dell’altra importante Agenzia: quella di Standard & Poor’s”, giungerà venerdì prossimo.
Al governo sostengono che l’incursione delle agenzie di rating non è un fulmine a ciel sereno, già si sapeva che ci sarebbero state reazioni, ci si considera  preparati anche a questi strali.
L’outlook poi è stabile, e questo dato, secondo il vicepremier Salvini, è importante.
Nella riunione odierna del Cdm, nonostante il mondo intero sembri congiurare contro la ricerca di una svolta per l’economia italiana, si è deciso di restare impassibili all’ostilità di tutti, e di proseguire sulla via tracciata del cambiamento, costi quello che costi. Ad agosto già era chiaro che sarebbe stato un autunno caldo.
Il rischio è quello di finire nel cosiddetto “junk bond” (ossia la più scarsa valutazione del titolo di Stato, spazzatura..), lo ha ripetuto come un mantra il Financial Times nei mesi scorsi: “Sell Italy, buy Euro”, opinione ampiamente condivisa anche alla City a Londra. Per fortuna gran parte degli investitori stranieri appartengono all’area euro (francesi e tedeschi soprattutto), che non dovrebbero avere interesse a mandare in default l’Italia con il perverso meccanismo della speculazione, a meno che non accada qualcosa di veramente rilevante (come un referendum per l’abolizione dell’euro).
Al momento, per quel che riguarda il debito pubblico italiano, siamo ancora a livello di ‘investment grade’, al di sopra della soglia speculativa. Ma non siamo messi bene. Non per i mercati, che continuano a rivoltarsi, al di là delle rassicurazioni che vengono dal Governo.
Oltre alla procedura d’infrazione, che Bruxelles ha già ventilato, si rischia di essere messi fuori dall’area euro, perché mancano i presupposti, perché la compliance sulle norme e i parametri sono stati spesso ignorati. Per forte indisciplina, insomma. E serve a poco che il vicepremier Luigi Di Maio, ogni tanto sottolinei la volontà di non allontanarsi né dall’euro né dall’Ue.
Secondo un articolo pubblicato da “Il Sole 24 ore”, Goldman Sachs sosterrebbe che le vendite sui Btp raggiungerebbero la soglia dei 100 mld, se malauguratamente l’Italia fosse declassata a “junk”, mentre Morgan Stanley afferma che in una simile evenienza, sarebbero gioco forza coinvolti gli investitori nazionali (che detengono 436 mld di valore in titoli) e stranieri (che ne detengono 406 mld).
Siamo, per il momento, ancora in un terreno sicuro, non ‘franabile’, l’outlook stabile riflette questa garanzia. Il 2019 sarà decisivo: o si va avanti con l’ostinazione del Governo, o si torna indietro, e allora il percorso sarebbe davvero in salita. Auguriamoci che sia un’eventualità lontana, nell’interesse di tutto il Paese.