DI VIRGINIA MURRU
Lo spread non è un allarme perennemente acceso nei mercati per eccesso di prudenza, è una spia che lampeggia perché i segnali negativi che provengono da importanti settori dell’economia sono tanti. Certo le borse sono refrattarie alla politica economica che presenta alti margini di rischio, e in generale ai fattori d’instabilità, siano essi ‘endogeni’ o ‘esogeni’. E tuttavia non sono solo le borse a mugugnare e a remare contro, l’economia è una questione di numeri, di cifre e risultati, che piaccia o no.
E con i numeri è necessario fare pace, non ci si può spingere ad oltranza in un terreno minato, che ha già causato, fino ad ora, nel volgere di circa sei mesi, danni notevoli (persi in borsa oltre 65 miliardi). Solo a maggio, Piazza Affari aveva bruciato notevoli risorse, con l’indice di riferimento, il Ftse Mib, che in due settimane arretrava del 7%.
Se si traducono i numeri in parole, significa che fin dall’inizio, il governo Conte è stato “sfiduciato” dai mercati (e non solo); risposte chiare, non criptate, a partire dagli accordi raggiunti dai due schieramenti che hanno vinto le elezioni politiche. E a trattativa conclusa sul Contratto di governo, la strada percorsa dai decennali italiani, i Btp, è andata sempre in salita, con ben pochi cenni di tregua.
Per quel che concerne la ripresa, nonostante le rassicurazioni del premier Giuseppe Conte, e dei due vicepremier, il clima di fiducia sembra compromesso, qualcosa si è spezzato dopo 3 anni consecutivi di espansione economica, anni in cui il trend di crescita del Pil non ha viaggiato a ritmi sostenuti, ma ha seguito un andamento in ascesa: nell’ultimo trimestre del 2017, il Pil, secondo i dati Istat, si attestava a +1,7% (crescita congiunturale sul 2016).
A distanza di un anno, lo scenario economico, nonché quello politico, sono alquanto diversi, purtroppo il fenomeno che sta caratterizzando il 2018 è la contrazione evidente di alcuni dati che rappresentano le credenziali per l’andamento positivo di un’economia. Il comunicato stampa pubblicato oggi dall’Istat rivela in modo impietoso il processo involutivo in atto, che mette a rischio lo sviluppo e la crescita nei prossimi anni. Questo il comunicato sull’economia italiana:
“Nel terzo trimestre del 2018 si stima che il prodotto interno lordo (Pil), espresso in valori concatenati con anno di riferimento 2010, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, sia rimasto invariato rispetto al trimestre precedente. Il tasso tendenziale di crescita è pari allo 0,8%.
Il terzo trimestre del 2018 ha avuto due giornate lavorative in più rispetto al trimestre precedente e lo stesso numero rispetto al terzo trimestre del 2017.
La variazione congiunturale è la sintesi di un aumento del valore aggiunto nel comparto dell’agricoltura, silvicoltura e pesca e dei servizi e di una diminuzione in quello dell’industria. Dal lato della domanda, la stima provvisoria indica un contributo nullo sia della componente nazionale (al lordo delle scorte), sia della componente estera netta.
La variazione acquisita per il 2018 è pari a +1,0%.”
Intanto significa che il Pil, rispetto al trimestre precedente, secondo le stime preliminari dell’Istituto di Statistica, non ha fatto alcun progresso, rimanendo di fatto invariato. I dati, come precisa il comunicato, sono corretti per gli effetti di calendario e destagionalizzati, con anno di riferimento 2010. Il tasso tendenziale di crescita è dunque dello 0,8%. In rilievo le due giornate lavorative in più rispetto al precedente trimestre, uguali invece rispetto al terzo trimestre 2017.
L’Istat sottolinea che negli ultimi 3 mesi, l’economia italiana in termini di sviluppo si è fermata, la prima pausa dopo tre anni consecutivi di crescita. Il malessere, in sostanza, diventa tangibile, anche perché il tasso tendenziale di crescita passa a +0,8%, da +1,2% del secondo trimestre. Insomma un tracciato che fibrilla, proponendo uno scenario che richiede un’inversione di rotta a breve termine.
Al traino dei modesti risultati conseguiti, sempre secondo i rilievi dell’Istat, c’è l’industria, che tuttavia sta perdendo competitività, perché non ci sono le condizioni per sfruttare il potenziale di crescita.
A conferma di queste considerazioni basta dare uno sguardo al settore dell’automotive, con Fca in testa, che sta registrando una flessione nelle immatricolazioni di nuove auto: lo scorso settembre c’è stato un autentico crollo, con oltre il 25% in meno rispetto al 2017, stesso mese di riferimento. La Fiat, in affanno, ha quasi dimezzato le vendite.
A conforto di queste pessime performance, c’è il fatto che anche in Germania il mercato dell’auto ha subito cedimenti notevoli, ma l’andamento è negativo quasi ovunque. Arretrano anche gli investimenti in generale nel comparto, soprattutto quelli relativi agli investimenti sui macchinari, con uno sconfortante -15,3%, ulteriore conferma di un clima di stasi e malessere ormai conclamati.
La manovra approvata di recente è ambiziosa, ma tanti sono ancora gli elementi controversi, il reddito di cittadinanza, per esempio, e gli investimenti pubblici previsti dal documento programmatico di bilancio presentato dal governo, dovrebbero avere dei ritorni in termini di consumi e occupazione, dando impulso allo sviluppo, ma al momento, secondo le analisi degli economisti, l’orizzonte di queste misure è immerso nella foschia: insomma certezze sui risultati non ce ne sono.
Il rischio, elemento destabilizzante che invece si riflette soprattutto sui mercati, insieme al giudizio pesante delle Organizzazioni internazionali che osservano con occhio piuttosto critico, come del resto le Agenzie di rating, causano invece conseguenze dirette, che si traducono in perdite pesantissime per gli investitori, i quali preferiscono la fuga. E le ragioni ci sono: sono stati persi in titoli pubblici e obbligazioni bancarie (in particolare), da maggio ad agosto, oltre 65 miliardi di euro.. Non noccioline: come ignorare questi risultati, e celarsi sempre dietro al paravento del ‘terrorismo’ mediatico, volto a boicottare il governo in carica? Sono proprio gli investitori esteri ad abbandonare i titoli italiani, perché sono sul limite del ‘junk’, ossia della carta straccia. Per questo si vende e non si compra, e la volatilità esulta.
Si argomenta intorno a fatti, numeri, non si tratta di veleno gratuito, o smania di arrampicarsi sugli specchi. E’ giusto concedere fiducia al cambiamento, tentare carte nuove per imboccare la via di una svolta più certa, non accontentarsi della guida prudente ingranando una marcia che non permette uno scatto più deciso, ma andare oltre.
Certo, giusto attendere i risultati del programma di politica economica ‘del popolo’, pensato per la gente, quella meno abbiente. Ma con i riscontri attuali e i rischi che comporta, ci possiamo permettere di viaggiare con una candela in mano dentro un tunnel ancora poco illuminato?
Non per farci del male, ma per aprirci gli occhi, l’Istat, nell’allegato al comunicato stampa, commenta:
“Nel terzo trimestre del 2018 la dinamica dell’economia italiana è risultata stagnante, segnando una pausa nella tendenza espansiva in atto da oltre tre anni. Giunto dopo una fase di progressiva decelerazione della crescita, tale risultato implica un abbassamento del tasso di crescita tendenziale del Pil, che passa allo 0,8%, dall’1,2% del secondo trimestre. Questa stima, che ha natura provvisoria, riflette dal lato dell’offerta la perdurante debolezza dell’attività industriale – manifestatasi nel corso dell’anno dopo una fase di intensa espansione – appena controbilanciata dalla debole crescita degli altri settori.”
Il nuovo anno, ormai alle porte, darà già le prime risposte certe ai tanti interrogativi.