BREXIT. L’INDETERMINAZIONE TIENE IN OSTAGGIO IL POPOLO BRITANNICO

DI VIRGINIA MURRU

 

Nessuno immaginava all’indomani del voto che ha dato ragione alla ‘fazione’ dei ‘Leave’ (23 giugno 2016), e spalancato le porte alla Brexit, che il percorso per l’uscita del Regno Unito dall’Ue sarebbe stato così contorto e travagliato. Un iter che si credeva automatico – secondo le norme previste dai Trattati sull’Unione europea – nello specifico quello di Lisbona, tramite l’art. 50, che è appunto la clausola di recesso.

Tale articolo, che rimanda al meccanismo di recesso volontario e unilaterale, qualora uno Stato membro notifichi al Consiglio europeo l’intento di uscita dall’Unione, prevede modi e tempi opportuni per la definizione di un accordo che soddisfi entrambe le parti.

L’accordo si raggiunge con una serie di incontri, tra i rappresentanti dell’Ue e quelli del governo che intende recedere, e dunque, come si è accennato, dal Consiglio europeo, con deliberazione a maggioranza qualificata e previa approvazione del Parlamento europeo.

Raggiunta l’intesa, i Trattati firmati dal Paese ‘in uscita’, non saranno più applicati a partire dalla data in cui entra in vigore il recesso, o due anni dopo la notifica, anche se discrezionalmente, qualora ne ricorresse il caso, il Consiglio può prolungarne i termini.

L’Unione europea lascia sempre aperte le porte per un eventuale rientro, nel caso vi fosse un ‘ripensamento’ in merito, per esempio, come si sta ipotizzando ultimamente in Gran Bretagna, se il popolo chiedesse di tornare alle urne con l’indizione di un secondo referendum, il quale, di fatto, annullerebbe quello precedente che ne ha sancito l’uscita.

Non è affatto semplice la questione, quando vi è un popolo diviso, che partecipa e fa sentire il proprio dissenso sulle scelte operate dal governo in carica, e anche sulle delibere del Parlamento stesso, quando non riflettono propriamente la volontà popolare.

Di certo nel Regno Unito, se non si è arrivati alla soglia della guerra civile, non si è molto lontani. Gli ultimi due anni, che dopo il referendum del 2016, si ritenevano solo una fase di ‘acclimatamento’, e avrebbero determinato step by step il divorzio dall’Ue, sono stati invece gli anni più conflittuali per la democrazia britannica.

Non si riesce a trovare una via d’uscita; quando gli accordi con l’Ue sembravano finalmente decisivi, il ‘deal’ che ha presentato la premier Theresa May in Parlamento, ha scatenato un’ondata di proteste e di rigetto, che è poi sfociata nella clamorosa sconfitta della proposta, con un esito travolgente di voti contrari.

E così, l’accordo faticosamente raggiunto dalla delegazione del governo britannico e i rappresentanti Ue, è diventato poco meno di carta straccia, perché il volere di Westminster in fatto di democrazia, quando si tratta di temi così importanti, prevale su tutto, com’è naturale che sia in un regime democratico.

Ben pochi accetterebbero un’uscita dall’Ue senza accordi, il cosiddetto ‘no deal’, perché l’Unione europea sarebbe severissima al riguardo, e in questo momento metterebbe a serio repentaglio le finanze della Gran Bretagna, che già ha riportato ingenti danni dall’esito del referendum sul piano economico. Tartassata in primis dai mercati, che non hanno mai accettato la Brexit, né tanto meno è stata benedetta dalla City, cuore pulsante della finanza del Paese, e fortemente penalizzata, ancora prima del divorzio effettivo dall’Ue.

A fare la differenza è l’ostinazione di una leader di ferro: Theresa May non è una che si lascia impressionare dal dissenso, nemmeno da quello che sta imperversando tra i Tory, lei va avanti imperterrita, non si cura nemmeno dell’ironia dei parlamentari, che non le risparmiano la loro ostilità, frecciatine caustiche, quando non risate sarcastiche.

Se non è una copia fedele di Margaret Thatcher, di sicuro le assomiglia parecchio. Solo che la ‘lady di ferro’, aveva davanti a sé uno scenario  ben diverso. Allora l’Europa era un faro, una terra promessa per i britannici, almeno se si argomentava intorno al mercato unico, nella quale la Thatcher credeva fermamente.

Non credeva nella federazione di carattere politico, ossia negli Stati Uniti d’Europa, e dopo alcuni anni dalla firma dell’’Atto Unico’,  ebbe comunque qualche ripensamento, in quanto era persuasa che l’Unione costasse troppo al Regno Unito. Cominciò così a rimbrottare sulle quote versate, fino a dichiarare pubblicamente, rivolgendosi alle autorità di Bruxelles: “I want my money back” (rivoglio indietro i miei soldi). Frase rimasta famosa, che era poi il riflesso degli umori dell’establishment di Londra, emerso infine con il rifiuto di aderire alla moneta unica. E’ sempre stato un rapporto di odio-amore, in definitiva.

Operatori economici e finanziari, il mondo dell’industria e dell’imprenditoria in generale, sono in allarme da anni sulla questione Brexit: abbandonare il mercato unico significa ignorare mezzo miliardo di potenziali consumatori, con i quali la Gran Bretagna ha stabilito nel tempo un rapporto d’interdipendenza commerciale non di poco conto. Entrare in rapporto con i ‘27’ Paesi dell’Unione in qualità di partner “extra europeo”, per quel che concerne le frontiere doganali, non sarà più semplice come lo è stato finora, sarà anzi piuttosto penalizzante. Sono queste le ragioni – senza tuttavia trascurare i forti legami culturali di appartenenza – che hanno indotto tanti cittadini britannici a cambiare opinione sul voto, al punto che, gli ultimi polls, danno i ‘Remain’ avanti rispetto ai ‘Leave’, con al seguito una buona percentuale d’indecisi.

Intanto, anche Airbus e Sony hanno annunciato che, in caso di Brexit no-deal, saranno costretti a fare scelte molto dure per il Regno Unito. Tom Enders, Ceo di Airbus ha fatto sapere che seguirebbe Dyson, multinazionale inglese che produce elettrodomestici in più di 70 paesi, e ha circa 7 mila dipendenti in tutto il mondo, pronta a lasciare la Gran Bretagna se non vi sarà un’intesa commerciale con i partners dell’Ue. Intesa che non penalizzi il libero scambio, naturalmente.

Airbus è una grande azienda che produce le ali dei suoi aerei, con oltre 14 mila dipendenti in RU, ma non ci saranno ripensamenti qualora Theresa May volesse percorrere a tutti i costi la via della Brexit: lasceranno il Paese, come tante altre grandi aziende, alcune delle quali si sono già trasferite in Cina.

Anche  Sony ha deciso di spostare la sede europea in Olanda, affinché siano garantite le relazioni commerciale con i ‘27’ dell’Ue, qualora si prospetti la peggiore ipotesi sulla Brexit, quella che va avanti anche senza accordi con l’Unione. E del resto Sony non è l’unico gruppo giapponese ad avere abbandonato la sede di Londra, anche Panasonic, a fine 2018, ha deciso di trasferirsi in Olanda. Il modo migliore di tutelarsi dal ciclone che si abbatterebbe sul Regno Unito, nel quale regnano il caos e il disorientamento da oltre due anni. In coda, pronte ad emigrare in lidi più accoglient,i ci sono anche Hitachi e Toshiba, cancellati i loro piani d’investimento sul nucleare nel Galles. E altri ricollocamenti (favorita Amsterdam), sarebbero già pronti.

Il fatto è che una scelta di questo tipo, soprattutto per quel che concerne l’assetto politico e territoriale del Paese, non è per nulla facile. Ci sono le frontiere con l’Irlanda, che di certo non vuole saperne di lasciare l’Unione europea, a creare non pochi problemi, e poi c’è la Scozia, che dai tempi di Maria Stuarda non ha mai avuto un rapporto propriamente disteso e in armonia con Londra, ne ha piuttosto subito il potere.

Un’ostilità, quella della Scozia, sfociata in un referendum per la secessione nel 2014, che ha perso per poco. La premier scozzese Nicola Sturgeon, non ha mai gettato la spugna, e sta esercitando pressioni più che mai per favorire un secondo referendum sulla Brexit, consapevole che gran parte del popolo non vorrebbe abbandonare le relazioni con il vecchio continente. Ci sono ostacoli che rendono la strada del divorzio dall’Ue praticamente impercorribile, non si trova un’intesa in Parlamento, ed è  veramente il caos, basti pensare al fatto che l’accordo raggiunto con l’Unione europea a novembre – che la premier May ha poi presentato il 14 gennaio – è stato bocciato con il doppio dei voti che sono stati espressi a favore.

Quando si è posta la questione ‘fiducia’ sulla premier, il Parlamento l’ha fatta passare, sia pure per una manciata di voti. E’ la dimostrazione in definitiva che tra i rappresentanti del popolo vi è ancora molto disorientamento, e di questo ne stanno pagando le spese anche i laburisti, con il leader Jeremy Corbyn, travolti da queste raffiche d’incertezza e indeterminazione. I laburisti, sostenuti dai parlamentari scozzesi e tanti anche dell’Ulster, taglierebbero la testa al toro e andrebbero diritti verso una seconda consultazione referendaria; ma in Parlamento su questa scelta estrema – ma forse la più sensata – sarebbe dubbia la maggioranza dei consensi.

Il fatto è che i politici contrari ad un secondo referendum – Theresa May in primis – stanno ossessionando l’opinione pubblica con la supposta incostituzionalità di un simile provvedimento, come fosse un tradimento della volontà popolare. Ma intanto nella consultazione del 2016 non si sono raggiunti i due terzi dei consensi per i sostenitori della Brexit, e quindi una seconda ‘chiamata’ rientrerebbe pienamente nelle opzioni previste dalla normativa. Una scelta di questa importanza, proprio per il rispetto della volontà popolare, non si potrebbe fare passare con un margine di scarto che non raggiunge neppure il 2% (Il Leave prevalse con il 51,9%).

E si dimentica che la Corte europea di Giustizia, proprio due mesi fa, si è pronunciata in merito, e ha sancito che l’Art. 50 del TUE, o Trattato di Lisbona, il quale prevede l’uscita di uno Stato membro dell’Unione, anche qualora siano state create le condizioni per questa scelta, possa essere revocato (dal Regno Unito in questo caso) unilateralmente,  senza il voto favorevole degli altri Stati membri.

Certamente un ulteriore colpo per la premier May, dato che tale delibera della Corte è arrivata proprio quando si stava presentando in Parlamento il fatidico ‘accordo-compromesso’ con l’Unione, raggiunto a novembre scorso.

Com’è noto il nodo più stretto da sciogliere era Westminster, che ha respinto i negoziati con Bruxelles, perché non va giù la questione delle frontiere in Irlanda del Nord. C’è già un allarmante fermento al riguardo: l’Official Ira (Irish Republican Army), mette in guardia su scintille di tensioni che potrebbero riesplodere, ci sono i dissidenti che non si sono mai rassegnati agli accordi di pace del 1998.

In ogni caso se nell’isola si ripristinasse la frontiera, il rischio sarebbe altissimo, la recente esplosione dell’autobomba a Derry, è già sintomatico di un’atmosfera in cui si respira pesante. I passi successivi saranno determinanti per un assetto che garantisca la pace nell’isola. Eppure la premier non sembra  abbia dato finora grande peso a quella miccia che rischia di scaraventare di nuovo l’Irlanda in un incubo di tensioni (definite anche ‘troubles’), che ha causato in pochi decenni 3.500 vittime.

Una guerra civile terminata vent’anni fa con il cosiddetto “Accordo del Venerdì Santo, o Belfast Agreement”, tra i rappresentanti del Regno Unito e della Repubblica d’Irlanda. Le tensioni in Irlanda, del resto, erano iniziate già un millennio prima, in seguito all’invasione degli inglesi, mai accettata veramente, nonostante la divisione in due dell’isola, stabilito dal “Government of Ireland Act”, siglato nel 1920.

Non c’è mai stata piena accettazione dei confini, quella sfera d’influenza che delimita la giurisdizione dei due Stati.  L’autorità del Regno Unito è stata sempre avvertita come un abuso, un atto di prepotenza. Cattolici e protestanti non sanno convivere serenamente, e lo dimostrano le 150 vittime che si contano anche dopo i negoziati di pace del 1998.

La Gran Bretagna, che dopo Elisabetta I, ha cominciato il suo dominio sui mari e intrapreso una politica di colonialismo sistematico, permettendole di diventare nel corso dei secoli uno dei più grandi Stati imperialistici della storia –  madre patria del Commonwealth – oggi lotta per evitare la disgregazione delle tre ‘nazioni’ che la compongono, ossia Inghilterra, Galles e Scozia.

Quest’ultima insidia l’autorità politica di Londra e continua con forza a chiedere la secessione. Gli avvenimenti storici, che già hanno ridotto ai minimi termini il territorio britannico, ora prospettano ulteriori rivolgimenti, che potrebbero ulteriormente cambiarne le sorti. La Brexit si sta presentando come un vero e proprio ordigno, che deflagra in ogni direzione, destabilizza equilibri conquistati a fatica, e somiglia al lancio potente di un sasso su una superficie di acqua, che provoca cerchi concentrici, ne agita l’immobilità: crea movimenti che non ci si aspettava.

Certo se l’ex premier David Cameron, non avesse indetto la fatidica consultazione referendaria (per ragioni di compliance elettorali), oggi tutto sarebbe stato diverso. Ma certamente non immaginava che, veramente in quel momento, si preparava un ordigno che rischiava di aprire le porte ad una guerra civile: il popolo è sicuramente diviso.

Churchill, con la sua proverbiale calma, e la tendenza a risolvere le questioni con buon senso, acuto nel presentire e abile nelle strategie, avrebbe trovato un modo per spezzare questa sorta d’indeterminismo e disorientamento del  popolo britannico. Vista dall’esterno, la Brexit è un focolaio di confusione: caos, non affine all’ortodossia dell’ordine concepito dall’indole degli inglesi.

Perfino in parlamento le iniziative si concludono in risoluzioni che restano indefinite, non c’è un decisionismo tale da portare, per dirla con un luogo comune, “a tagliare la testa al toro”. Un secondo referendum è ritenuto un abuso contro la volontà del popolo, ma in realtà è sempre un mezzo democratico che permetterebbe di avere oggi una visione più chiara di quello che realmente i britannici vorrebbero su una scelta così importante sul piano politico ed economico.

E invece si temporeggia, si va avanti con rimbalzi di presunte responsabilità, accuse sterili: indecisionismo che sta facendo molto male all’economia del Regno Unito, ma soprattutto non si dovrebbe sottovalutare la tensione che serpeggia ovunque, anche nelle istituzioni. E basterebbe pensare alle dichiarazioni del ministro della Salute Hancock, che ha accennato  alla possibilità d’introdurre la pena capitale, qualora ci fossero individui che si rendessero responsabili di disordini volti a mettere a rischio la stabilità dei ritmi di vita nel Paese. Siamo a questi livelli, e dopo l’esplosione dell’autobomba nell’Irlanda del Nord, il Regno Unito sta affrontando davvero una seria emergenza sul piano politico, civile e sociale.

Se Londra deciderà di non cedere ad un secondo referendum, e optasse per il no-deal, l’Irlanda si presenterà davanti ai rappresentanti degli altri Stati membri dell’Unione, alla fase due dell’iter previsto dalla Brexit, con un veto, se non ci saranno precisi accordi sui confini con l’Ulster. Nel corso dei negoziati di pace di Belfast del 1998, per imporre la pace dopo una sanguinosa guerra civile, si stabilì che non sarebbero state più ripristinate frontiere dure. Ma la storia insegna che nulla è per sempre.

La premier Theresa May è riuscita a concludere l’accordo con i 27 paesi dell’Unione, proprio facendo concessioni sui confini con l’Ulster, per quel che riguarda i traffici commerciali. Accordo che non è stato accettato dalla maggior parte dei parlamentari di Westeminster. Si sta seriamente pensando ad una dilazione dei termini che rendono attivo l’art. 50, il quale doveva scattare a fine marzo. Il Paese non è preparato ai passi successivi, né i 27 Paesi membri dell’Unione europea intendono fare ulteriori concessioni a favore del governo britannico.

In primavera le prospettive saranno sicuramente più chiare, al  momento una soluzione risolutiva sembra interdetta proprio dalla situazione d’indecisionismo e di stallo che si è determinato,  in gran parte dovuto all’ostinazione della premier di non dimettersi, nonostante, in termini di consensi, abbia collezionato una serie di sconfitte.