LA LEGGE DI PARKINSON
C. Northcote Parkinson
LA LEGGE DI PARKINSON
ovvero 1:2
Illustrazioni di Osbert Lancaster
Titolo originale
PARKINSON’S LAW OR THE PURSUIT OF PROGRESS
1957 C. Northcote Parkinson
PREFAZIONE
Agli occhi dei giovanissimi, dei maestri di scuola, ed anche agli occhi di coloro che compilano i testi di storia costituzionale, di politica e di attualità il mondo si presenta, più o meno, come un luogo razionale. Costoro si raffigurano l’elezione dei deputati come una libera scelta fra gli uomini in cui il pubblico ripone fiducia. Costoro ci dipingono il sistema grazie al quale divengono ministri di Stato solo i più saggi, i migliori. Costoro immaginano che i capitani d’industria, liberamente eletti dagli azionisti, scelgano per i posti di maggiore responsabilità solo quelli che in più umile mansione han dato prova della loro capacità. Sono presupposti che ritroviamo, esplicitamente affermati o anche solo sottintesi, in parecchi libri. Sono presupposti, d’altro canto, che appaiono ridicoli a quelli che per esperienza diretta sanno come vanno le cose. Tutte queste solenni adunanze di saggi e di probi esistono solo nella fantasia dei maestri di scuola. Penso quindi che non sia male, di tanto in tanto, esprimere qualche avvertimento in proposito. Dio non voglia che gli studenti smettano di leggere i testi che insegnano la scienza del governo delle cose pubbliche e di quelle private. Basta solo che tali testi si collochino fra le opere di fantasia. Collocateli fra i romanzi di Rider Haggard e di H. G. Wells, fra le opere sull’uomo scimmia e sulle navi spaziali, e quei testi non faranno alcun male a nessuno. Ma se invece li collocate altrove, fra i libri che si consultano e si citano, allora vedrete che possono far più danno di quel che a prima vista non appaia.
Dopo aver constatato con sgomento che cosa gli altri credono sia la verità, in merito ai funzionari dello Stato o ai progetti edilizi, tentai, di tanto in tanto, di mostrare al mio prossimo almeno uno squarcio della realtà vera. Il lettore ai/veduto intenderà subito che tali brani di verità non si fondano su di un’esperienza ordinaria. Ma poiché ritengo che qualche lettore sarà meno avveduto di altri, mi son dato la pena di accennare, di tanto in tanto, alla mole di ricerche su cui si fondano le mie teorie. Immagini pure, chi legge, le tabelle appese al muro, gli schedari, le macchine addizionatrici, i regoli calcolatori, le opere consultate, tutto insomma l’armamentario indispensabile per la preparazione di uno studio qual e il presente. E sia pur certo, il lettore, che la realtà giganteggia su quel che egli ha immaginato, e che le verità che qui si rivelano son frutto, oltre che di una mente dotata (e lo riconoscono in molti) anche di un’attrezzatura grandiosa e costosissima, indispensabile a svolgere le indagini necessarie. Qualcuno forse penserà che sarebbe stato meglio dare più vasta informazione circa gli esperimenti ed i calcoli su cui si fondano le mie teorie.” a costui voglio far osservare che un volume cosi complesso avrebbe richiesto pizi tempo per la lettura e più denaro per l’acquisto. È innegabile che ciascun mio saggio rappresenta il risultato di anni di paziente indagine. Ma bisogna dir subito che non si È raccontato tutto. Una recente scoperta, in un settore specifico dell’arte bellica, apre il terreno a nuove ricerche: la scoperta cioè del fatto che il numero dei nemici uccisi e inversamente proporzionale al numero dei generali di parte amica. Recentissime son pure le osservazioni sull’illeggibilità delle firme, e si È tentato di stabilire a quale livello, nella carriera di un dirigente, la scrittura perde significato anche per il dirigente in parola. Giorno per giorno insomma si annunciano scoperte nuove, ed ho quindi ragione di credere che le prossime edizioni di quest’opera supereranno rapidamente la prima.
Desidero ringraziare i direttori dei periodici i quali hanno consentito alla ristampa di alcuni saggi. Il posto d’onore spetta al direttore di The Economist, la rivista su cui per la prima volta l’umanità ebbe notizia della Legge di Parkinson. Voglio ringraziare il suddetto direttore che ha permesso la ristampa di altri due saggi, “Della comitologia”, e sulle “Pensioni”. Alcuni altri articoli erano già comparsi su Harper’s Magazine e su The Reporter.
Desidero inoltre esprimere la mia profonda gratitudine a Osbert Lancaster, autore dei disegni, i quali danno un tocco di simpatia a quest’opera, che altrimenti il lettore medio avrebbe trovato troppo arida e tecnica. Ringrazio infine i signori della Houghton Miffli Co., editrice negli Stati Uniti dell’opera originaria, per il loro cortese incoraggiamento, senza il quale ben poco avrei osato, ed ancor meno realizzato. E finalmente sia resa nota la gratitudine che io nutro per il grande matematico, che con la sua scienza mi consente di abbagliare talvolta il lettore. A lui, anzi a lei, ma per altro motivo, dedico questo libro.
Singapore, 1958
C. Northcote Parkinson
LA LEGGE DI PARKINSON
ossia
LA COSTRUZIONE DELLA PIRAMIDE
Il lavoro dura sempre quel tanto che è necessario a colmare il tempo disponibile per compierlo. Tutti riconoscono questo semplice assioma quando dicono, secondo il vecchio proverbio, che “l’uomo più affaccendato è quello che ha tempo da perdere”. A una vecchia signora, che in vita sua non ha mai avuto molto da fare, può occorrere una giornata intera per scrivere e spedire una cartolina alla nipote che vive a Bognor Regis. Le ci vorrà un’ora a scovare la cartolina, un’altra ora per rintracciare gli occhiali, mezz’ora per ritrovare l’indirizzo, un’ora e un quarto per scrivere, e venti minuti per risolversi sull’opportunità di prendere o no l’ombrello, quando andrà ad imbucare alla cassetta postale, all’angolo della via. Un’operazione che richiederebbe tre minuti in tutto a un uomo che ha da fare, può all’opposto mettere a terra un’altra persona, dopo una giornata di dubbio, di ansietà e di fatica.
Ammesso che il lavoro (e soprattutto il lavoro cartaceo) è assai elastico, per ciò che riguarda il tempo, apparirà subito chiaro che quasi non esiste alcun rapporto fra il lavoro da svolgere e il numero delle persone a cui tale lavoro è affidato. Non necessariamente l’assenza di attività concreta significa ozio. Non necessariamente la mancanza di un’occupazione effettiva si manifesta coi sintomi della inazione palese. Il lavoro da svolgere si gonfia – e per importanza e per complessità – in proporzione al tempo da occupare. Quasi tutti riconosceranno che questo è vero, ma pochi, all’opposto, riescono a trarne le conseguenze, specie nel campo della burocrazia statale. Sia gli uomini politici che i semplici contribuenti han sempre (con qualche fase di dubbio, bisogna dirlo) presupposto che crescendo il numero complessivo dei funzionari dello Stato debba crescere anche il volume del lavoro da svolgere. Qualche osservatore cinico, opponendosi a quella convinzione, è giunto a pensare che, moltiplicandosi i funzionari dello Stato, qualcuno fra essi possa permettersi di non lavorare affatto o che tutti siano in condizione di ridurre il proprio orario d’ufficio. Ma è un problema di fronte al quale sia la fede che il dubbio son fuori posto. La verità è un’altra, e cioè: non esiste alcun rapporto fra il numero dei funzionari e la quantità del lavoro da compiere. L’aumento del numero totale degli impiegati dipende da una legge, detta Legge di Parkinson. Tale aumento continua invariato, sia che il lavoro cresca, diminuisca o addirittura scompaia. L’importanza della Legge di Parkinson risiede nel fatto che essa è una legge della crescita basata su di un’analisi dei fattori da cui tale crescita è controllata. La validità di questa legge – scoperta di recente – deve basarsi su prove di ordine statistico, che seguiranno. Al lettore medio interesserà tuttavia di più la spiegazione dei fattori che stanno sotto alla tendenza generale definita mediante questa legge. Se ignoriamo per un momento i particolari d’ordine tecnico (e non sono pochi) possiamo distinguere inizialmente due forze motrici, le quali, per quanto ci riguarda, possono esprimersi mediante due asserzioni pressoché assiomatiche, e cioè: I. “Il funzionario vuole moltiplicare i subordinati, e non i concorrenti” e Il. “I funzionari lavorano l’uno per l’altro.”
Per meglio intendere il fattore I figuriamoci un funzionario dello Stato che chiameremo A, il quale si trovi sovraccarico di lavoro. Non ci interessa sapere se l’eccesso di lavoro è reale o immaginario. (Potremmo osservare, en passant, che la sensazione, o anche l’illusione, del signor A, può configurarsi anche come sintomo di diminuita energia: abbastanza normale col sopraggiungere dell’età di mezzo.)
A tale eccesso di lavoro vi sono, in senso lato, tre rimedi possibili. Il funzionario può dimettersi; chiedere di dividere il lavoro con un collega, che chiameremo B; chiedere l’aiuto di due subordinati, i signori C e D. Credo che in tutta la storia non sia mai accaduto che A abbia scelto alternativa diversa dalla numero tre. Dimettendosi infatti egli perderebbe ogni diritto alla pensione. Se lasciasse salire B fino al suo livello nella scala gerarchica, egli altro non farebbe che crearsi un rivale alla promozione al posto di W, quando W (finalmente) andrà in pensione. Perciò A preferisce sempre avere sotto di sé C e D, funzionari di ruolo e di anzianità inferiore. Essi contribuiranno ad accrescere il prestigio di A, il quale, dividendo il lavoro in due categorie, conquisterà il merito d’essere il solo a sussumerle ambedue. Si faccia attenzione a questo punto: C e D sono, per cosi dire, inseparabili. Impossibile assumere C soltanto. Perché? Perché C, preso da solo, dividerebbe il lavoro a metà con A, acquistando di fatto un prestigio eguale a quello che A non ha voluto lasciar assumere a B, e che acquista tanto maggior rilievo se C è l’unico possibile successore di A. Così i subordinati debbono essere sempre almeno due, e ciascuno sarà tenuto in buon ordine dal timore che il collega venga promosso. Quando poi C a sua volta lamenterà d’essere stracarico di lavoro (e lo farà di certo), il signor A, naturalmente spalleggiato da C, consigliera la nomina di altri due funzionari che aiutino C. Ma per impedire attriti interni, A può far questo solo consigliando la nomina di altri due funzionari, che aiutino D, il quale si trova in posizione pressoché identica. A questo punto è scontata, in pratica, la nomina dei signori E, F, G, H e la promozione di A.
Così per compiere il lavoro che prima spettava a una persona soltanto, abbiamo ben sette funzionari. Ed ora interviene il fattore Il. Infatti questi sette svolgono una tale mole di lavoro, l’uno per l’altro, che sono pienamente occupati, ed in effetti A lavora più di prima. Può darsi benissimo che un documento in arrivo passi sul tavolo di ciascuno di essi. Il funzionario E stabilisce che esso documento ricade sotto la competenza di F, il quale presenta una minuta di risposta a C, il quale la corregge drasticamente prima di consultare D, il quale chiede a G di occuparsene. Ma a questo punto G va in ferie, e passa la pratica a H, il quale redige una minuta che vien firmata da D e restituita a C, il quale rivede la minuta da par suo e la presenta ad A nella nuova versione.
Che cosa fa AP Nessuno gli direbbe nulla se firmasse il documento senza nemmeno leggerlo, perché ha in mente un sacco di altre cose. Sapendo che con l’anno prossimo egli prenderà il posto di W, deve stabilire se C o D occuperanno il posto suo. Ha dovuto concedere le ferie a G, anche se costui a rigore non ne aveva diritto. e chiesto se per caso la precedenza non andasse ad H, per motivi di salute. Era pallido in quegli ultimi giorni, anche, ma non soltanto, per certi guai di famiglia. Poi c’è la questione della gratifica speciale a F durante il periodo del congresso e la domanda di E, il quale chiede d’essere trasferito al ministero delle pensioni. A ha sentito dire che D è innamorato di una dattilografa, la quale ha marito, e che G e F non si rivolgono più la parola, e nessuno a quanto pare ne sa il motivo. Perciò A avrebbe una gran voglia di firmare la minuta di C e di farla finita. Ma A è uomo di coscienza. Oppresso com’è dai problemi che i suoi colleghi han creato a se stessi ed a lui – problemi che consistono semplicemente nell’esistenza di questi funzionari – non è tuttavia uomo da trascurare il suo dovere. Legge con cura tutta la minuta, toglie perché inutili le aggiunte di C e di H, e riporta ogni cosa alla forma che aveva dato all’inizio F, un funzionario capace, anche se litigioso. Corregge la lingua – questi giovani non sanno scrivere correttamente – e insomma la risposta che ne vien fuori è esattamente quella che sarebbe stata se i funzionari da C ad H compresi non fossero nemmeno mai venuti al mondo. Un numero di persone di gran lunga maggiore ha impiegato un tempo di gran lunga superiore per giungere allo stesso identico risultato. Nessuno è rimasto con le mani in mano. Tutti han fatto del loro meglio. Ed è sera inoltrata quando finalmente A esce dall’ufficio e parte per il suo viaggio di ritorno a Ealing. Si spegne l’ultima lampada dell’ufficio mentre si addensa l’oscurità che segna la fine di un’altra giornata di fatica burocratica. Fra gli ultimi ad andarsene, le spalle curve e un sorriso sbieco, A pensa che le ore della sera e i capelli bianchi fan parte dello scotto che deve pagare chi ambisca al successo.
Dalla descrizione che abbiamo qui data dei fattori operanti, lo studioso di scienze politiche comprenderà che i burocrati sono, in misura maggiore o minore, destinati a moltiplicarsi. Però non abbiamo ancora detto nulla del lasso di tempo che probabilmente passerà fra la data della nomina di A e la data del probabile congedo di H. A questo proposito si è raccolta gran mole di prove statistiche e la Legge di Parkinson è dedotta appunto da questi dati. Non c’è posto in questa sede per un’analisi più minuta; ma al lettore interesserà sapere che le ricerche ebbero inizio dai dati relativi alla marina di Sua Maestà. Si scelse questo settore perché è più facile commisurare le responsabilità dell’Ammiragliato che non quelle, diciamo, della Camera di Commercio. Ecco alcuni dati tipici. Nel 1914 la Marina aveva una forza complessiva di 146.000 fra ufficiali e marinai, 3.249 fra funzionari e impiegati in servizi portuali, e 57.000 operai portuali. Nel 1928 c’erano soltanto 100.000 tra ufficiali e marinai e soltanto 62.439 operai, ma i funzionari e gli impiegati in servizi portuali a quell’epoca eran saliti a 4.558. In quanto alle navi da guerra, nel 1928 il totale era assai ridotto rispetto al 1914: meno di 20 grandi vascelli in servizio attivo, contro i 62 degli anni bellici. Nel medesimo lasso di tempo i funzionari dell’Ammiragliato eran cresciuti da 2.000 a 3.569, e costituivano, come qualcuno osservò, “una poderosa flotta a terra”. Sarà meglio, per chiarezza, esporre questi dati in una tabella.
STATISTICHE DELL’AMMIRAGLIATO
|
Anno |
Aumento o diminuzione percentuale |
1914 |
1928 |
Grandi vascelli in servizio attivo |
62 |
20 |
– 67,74 |
Ufficiali e marinai |
146.000 |
100.000 |
– 31,5 |
Operai portuali |
57.000 |
62.439 |
+ 9,54 |
Funzionari e impiegati in servizio portuale |
3.249 |
4.558 |
+ 40,28 |
Funzionari dell’Ammiragliato |
2.000 |
3.569 |
+ 78,45 |
A quell’epoca le critiche eran centrate sulla proporzione fra il numero degli uomini disponibili per il combattimento e il numero di quelli disponibili per compiti amministrativi. Ma tale raffronto non serve agli scopi nostri. A noi interessa osservare che i 2.000 funzionari del 1914 eran diventati 3.569 nel 1928; e che tale aumento non aveva alcun rapporto con un possibile aumento del loro lavoro. Durante quegli anni la marina si era ridotta, in realtà, di un terzo per ciò che riguarda gli uomini e di due terzi per ciò che riguarda le navi. Né c’è da credere che dopo il 1922 i totali potessero crescere; infatti l’accordo navale di Washington limitava il numero complessivo delle navi (ma non limitava il numero complessivo dei funzionari). In quanto a questi ultimi abbiamo un aumento del 78 per cento durante un periodo di quattordici anni; cioè un aumento medio annuo del 5,6 per cento rispetto ai dati del 1914. In realtà il tasso di incremento non fu, come vedremo, così regolare. Ma a noi interessa, in questa sede, considerare solo lo incremento percentuale in un determinato periodo.
Si può dunque spiegare questo aumento del numero complessivo dei funzionari statali in altro modo che partendo dal presupposto che detto totale debba sempre crescere secondo una legge determinante? Qualcuno potrebbe osservare che il periodo di cui parliamo vide un rapido sviluppo della tecnica navale. L’impiego di macchine volanti non cm più un fatto straordinario, sporadico. Si andavano moltiplicando e complicando le attrezzature elettriche. I sottomarini, anche se non approvati, erano tollerati. Gli ufficiali di macchina cominciavano a considerarsi esseri pressoché umani. Essendo questa un’epoca rivoluzionaria, non è facile supporre che i magazzinieri avessero da compilare inventari più complessi. Né ci sarebbe da meravigliarsi nel trovare sul libro paga un maggior numero di disegnatori, di progettisti, di tecnici e di scienziati. Ma tutti costoro, cioè i funzionari in servizio a terra, aumentarono solo del 40 per cento, mentre il totale degli uomini di Whitehall crebbe di quasi l’80 per cento. Per ogni nuovo caposquadra, per ogni nuovo elettricista a Portsmouth dovevano per forza esserci due impiegati nuovi a Charing Cross. Da questa osservazione qualcuno potrebbe essere tentato di concludere momentaneamente che il tasso di incremento del personale amministrativo raddoppia, rispetto al personale tecnico, nei periodi in cui la gente che davvero serve (nel nostro caso i marinai) si riduce del 31,5 per cento. Le statistiche tuttavia provano che quest’ultimo dato percentuale non ha per noi alcun significato. I funzionari si sarebbero moltiplicati secondo lo stesso tasso anche se marinai non ne fossero esistiti affatto.
Sarebbe interessante seguire la fase ulteriore, per la quale il personale dell’Ammiragliato (8.118 nel 1935) sali nel 1954 a 33.788. Ma un miglior settore di indagine ci vien offerto dal personale del Ministero delle Colonie, se lo esaminiamo in un periodo di declino del nostro Impero. Infatti le statistiche dell’Ammiragliato son complicate da alcuni fattori (per esempio i reparti d’aviazione annessi alla marina) che rendono più difficile il confronto fra un anno e il successivo. Invece l’incremento del personale al Ministero delle Colonie è per noi più interessante in quanto ha carattere puramente amministrativo. Ecco qui di seguito i dati che ci interessano.
STATISTICHE DEL MINISTERO DELLE COLONIE
Anno
|
1935
|
1939
|
1943
|
1947
|
1954
|
Personale
|
372
|
450
|
817
|
1.139
|
1.661
|
Prima di calcolare quale sia il tasso di incremento, osserviamo che l’ambito delle responsabilità ministeriali non fu sempre lo stesso in questo periodo di venti anni. Fra il 1935 e il 1939 i territori coloniali non mutarono di molto, né da un punto di vista territoriale, né dal punto di vista del numero degli abitanti. Nel 1943 vi fu una notevole diminuzione, perché certe zone caddero in mano nemica. Nel 1947 invece ci fu un aumento, ma dopo quell’anno avvenne una rapida e progressiva contrazione territoriale, perché molte colonie si diedero l’autogoverno. Sarebbe logico supporre che tali mutamenti dell`estensione dell’Impero, si riflettano nella mole dell’amministrazione centrale. Ma basta dare un’occhiata a quelle cifre per convincersi che il numero totale degli impiegati altro non rappresenta che una serie di stadi dello stesso processo di incremento. E tale incremento, anche se ha rapporti con quello già osservato in altri ministeri, non ha invece rapporto alcuno con la grandezza – e neanche con l’esistenza – dell’Impero. Qual è il tasso di incremento? Ignoriamo, a tale scopo, il rapido aumento del personale che si accompagno alla diminuzione delle responsabilità, durante la seconda guerra mondiale. Bisogna piuttosto osservare il tasso di incremento negli anni di pace: oltre il 5,24 per cento fra il 1935 e il 1939, e un 6,55 per cento fra il 1947 e il 1954. L’incremento medio annuo è pari così al 5,89 per cento, cifra spiccatamente simile a quella già rilevata per l’incremento del personale dell’Ammiragliato fra il 1914 e il 1928.
Un’ulteriore e minuziosa analisi statistica del personale burocratico in altri settori, non si conviene alla presente opera. Noi speriamo tuttavia di poter giungere a una conclusione provvisoria per ciò che riguarda il lasso di tempo che probabilmente passerà fra prima nomina di un determinato funzionario e la nomina successiva dei suoi assistenti, due o più.
Considerando il problema dell’accumulazione del personale puro e semplice, le statistiche finora compiute indicano un incremento medio annuo del 5,75 per cento. Ciò stabilito, ci sarà possibile esprimere in forma matematica la Legge di Parkinson: in qualsiasi ministero, eccezion fatta per i periodi bellici, l’aumento del personale avverrà secondo la formula:
dove k indica il numero di coloro che perseguono la
promozione attraverso la nomina di subordinati; l rappresenta la differenza fra l’età della nomina e quella della pensione; m è il numero delle ore lavorative dedicate a rispondere alle comunicazioni interne; n infine è il numero delle entità effettive da amministrare. La x rappresenterà il numero dei funzionari nuovi necessari ogni anno. I matematici naturalmente sanno che per trovare l’incremento occorre moltiplicare x per I00 e dividerlo per il totale dell’anno precedente così:
e il risultato sarà invariabilmente compreso fra 5,17 e 6,56 per cento, senza alcun nesso con le variazioni nella mole del lavoro (ammesso che ce ne sia) da compiere.
La scoperta di questa formula e dei principi generali su cui essa si basa non ha naturalmente alcun valore politico. Non ci siamo nemmeno pro vati a chiederci se i ministeri debbano aumentar di mole. Se qualcuno ritiene che tale aumento sia indispensabile per ottenere piena occupazione, è padronissimo di pensarlo. E se qualcuno invece mette in dubbio la stabilità di una economia basata sulla lettura delle minute altrui, anch’egli è padronissimo della sua opinione. A questo livello sarebbe prematuro svolgere una ricerca circa il rapporto quantitativo desiderabile fra amministratori e amministrati. Tuttavia, ammesso che esista un rapporto massimo, non sarebbe difficile esprimere con una formula il numero degli anni che dovranno passare prima di raggiungere, in un determinato paese, quel massimo. Ma neanche questa previsione avrebbe valore politico. E vogliamo insistere a dire che la Legge di Parkinson è una scoperta puramente scientifica, e non si applica, se non in teoria, alla politica dei giorni nostri. Sradicare le erbacce non è compito del botanico. Egli ha già fatto abbastanza quando ci dice con che velocità crescono.
LA TERNA DEI CANDIDATI
ossia
I PRINCIPI DELLA SELEZIONE
La burocrazia moderna, sia essa pubblica o privata, ha di fronte a sé un problema costante: la scelta del personale. La Legge di Parkinson, inesorabile, fa sì che di continuo si debba assumere gente nuova. Bisogna perciò, fra tutti quelli che si presentano, scegliere il candidato giusto. Esaminando i principi sulla base dei quali dovrebbe avvenire la scelta, sarà opportuno considerare separatamente i metodi del passato e quelli del presente.
I metodi del passato (ma non del tutto disusati) si dividono in due categorie generalissime: metodo britannico e metodo cinese. L’uno e l’altro meritano attento esame, se non altro perché essi ebbero, al tempo loro, un successo di gran lunga maggiore, rispetto a quelli di moda oggi. Il metodo britannico (vecchia maniera) si fondava su di un colloquio nel quale il candidato doveva dichiarare la propria identità. Si trovava di fronte alcuni anziani signori, seduti attorno a un tavolo di mogano, i quali gli chiedevano quale fosse il suo nome. Supponiamo che il candidato rispondesse: “John Seymour.” Allora uno dei signori diceva: “Parente forse del duca di Somerset?” Probabile che a questa domanda il candidato rispondesse: “No, signore. ” E allora un altro signore chiedeva: “ln tal caso, lei è parente forse del vescovo di Watminster? ” Se il giovane rispondeva ancora di no, un terzo signore, disperato, chiedeva alfine: “ Insomma, lei di chi è parente? ” Se il candidato rispondeva: “ Ecco, mio padre fa il pescivendolo a Cheapside,” il colloquio era sostanzialmente finito. I signori della commissione si scambiavano occhiate d’intesa, uno suonava un campanello e un altro diceva all’usciere: “Butti fuori quest’individuo.” Potevano cancellare senz’altro dalla lista dei candidati un nome. Se il candidato successivo era Henry Molineux, nipote del conte di Sefton, c’erano per lui buone possibilità, almeno fino al momento in cui giungeva George Howard e dimostrava d’essere nipote del duca di Norfolk. Non c’erano per la commissione serie difficoltà, fino a quando quei signori non si trovassero a dover decidere tra il terzogenito di un baronetto e il secondogenito (ma illegittimo) di un visconte. Ma si cavavano d’impaccio consultando un manuale di etichetta. ln tal modo la scelta era fatta. e spesso con ottimi risultati.
Il metodo britannico (vecchia maniera) ha una variante nel metodo dell’Ammiragliato, ma una variante di poco conto, e determinata solo dal più ristretto ambito delle responsabilità. Il consiglio degli ammiragli non si lasciava commuovere da parentele titolate. Il candidato ideale era quello che alla seconda domanda rispondeva: “ Sì, mio zio è l’ammiraglio Parker. Mio padre è il capitano Foley, mio nonno il commodoro Foley. L’ammiraglio Hardy era mio nonno materno. Altro mio zio è il comandante Hardy. Il maggiore dei miei fratelli è tenente dei fucilieri di marina, il secondogenito è guardiamarina a Dartmouth e il fratellino mio più piccolo va vestito alla marinara.” “ Ah! ”osservava allora il più alto in grado fra gli ammiragli. “E, mi dica, perché vuole entrare in marina? ” La risposta a questa domanda tuttavia contava poco, giacché il segretario aveva di già scritto che il candidato era degno. Nel caso di una scelta fra due candidati egualmente degni per motivo di parentela, uno degli ammiragli chiedeva all’improvviso: “Mi dica il numero del tassi su cui lei è venuto fin qua. ” Se il candidato affermava d’essere venuto con l’autobus, subito lo buttavano fuori. Il candidato che rispondesse: “ No lo so, ” veniva respinto. Quello infine che dichiarava (mentendo) “numero 2351” era assunto immediatamente, perché si era dimostrato giovane di bella iniziativa. Tale metodo ha dato quasi sempre buoni risultati.
Il metodo britannico (nuova maniera) fu elaborato alla fine del secolo decimonono, secondo criteri più confacenti a un paese democratico. La commissione preposta alla scelta dei candidati chiedeva all’improvviso: “Che scuole ha frequentato?” e il giovane rispondeva, a seconda dei casi, Harrow, Haileybury, Rugby. La domanda successiva era questa, invariabilmente: “E che sport ha praticato?” Buone possibilità aveva il giovane in grado di rispondere: “Ho giocato a tennis, a cricket, a rugby, a palla-a-mano,” precisando anche le squadre di cui aveva fatto parte. In questo caso la domanda successiva era: “Lei gioca al polo? ” e la domanda mirava a impedire che il candidato si facesse una opinione eccessiva di sé. Ma anche senza il polo, quel giovane era degno di seria considerazione. Quasi non si sprecava tempo, all’opposto, col candidato il quale dichiarasse d’aver fatto i suoi studi a Wiggleworth. “Dove?” chiedeva il presidente sbalordito, e poi, dopo aver risentito il nome: “Ma dove si trova? Ah, nel Lancashire!”, ma la risposta “Ping-pong, ciclismo e boccette ” eliminava definitivamente dalla lista il nome del giovane provinciale. Anzi, qualcuno borbottava contro quei bei tipi che venivan lì a far perdere tempo alla commissione. Anche questo metodo ha dato buoni risultati.
Il metodo cinese (vecchia maniera) fu ricopiato in misura tale dalle altre nazioni che pochi ormai ne intendono l’origine cinese. È il metodo dell’esame di concorso scritto. In Cina, sotto la dinastia Ming, si solevano sottoporre gli studenti migliori all’esame provinciale, che si teneva ogni tre anni. L’esame consisteva di tre sedute, di tre giorni ciascuna. Nella prima seduta il candidato scriveva tre saggi e componeva una poesia di otto distici. Nella seconda seduta scriveva cinque saggi su di un tema classico. Nella terza scriveva cinque saggi sull’arte di governo. Ai candidati promossi (meno del due per cento) toccava l’onore dell’esame finale, nella capitale dell’impero. Questo esame consisteva di una sola seduta, e il candidato scriveva un saggio su un problema d’attualità politica. I promossi in maggioranza diventavano funzionari dello Stato, e l’importanza dell’incarico era proporzionata al voto ottenuto. Questo sistema funzionava bene.
Il sistema cinese fu studiato dagli europei fra il 1815 e il 1830 e nel 1832 lo adottò la Compagnia delle Ind-ie Orientali. Un’apposita commissione, nel 1854 (ne era presidente il Macaulay) studiò la bontà del metodo, che fu poi introdotto, nel 1855, nella nostra burocrazia. Aspetto essenziale degli esami alla maniera cinese è il loro carattere letterario. I candidati dovevano dar prova di buona conoscenza dei classici, di capacità di scrivere in modo elegante (sia in prosa che in poesia). Dovevano inoltre dimostrare d’aver il fiato occorrente a terminare la lunga prova. Il Rapporto Trevelyan-Northcote faceva sue tali caratteristiche, e cosi pure il sistema che da quel rapporto nacque. Si partiva insomma dal presupposto che la cultura classica e la bravura letteraria mettessero qualsiasi candidato in grado di occupare qualsiasi posto nella nostra burocrazia. Si partiva dal presupposto (certo non errato) che una cultura scientifica non serve a nulla – tranne, forse, alla scienza. Si partiva infine dal presupposto che fosse impossibile stabilire una graduatoria di merito fra candidati esaminati in discipline diverse. Giacché è impossibile stabilire se è migliore A in geologia o B in fisica, è pratico, almeno, poterli escludere ambedue perché non servono. Ma se invece tutti i candidati debbono, come esame, scrivere versi in greco o in latino, diventa relativamente facile stabilire chi ha scritto i versi migliori. Cosi uomini scelti in base alla loro bravura nelle materie classiche venivano poi mandati a governare l’India. Quelli che si classificavano subito dopo i primi, restavano in Inghilterra, a governarla. Gli altri o venivano respinti oppure mandati in colonia. Certo, sarebbe ingiusto affermare che questo sistema sia stato un fallimento, ma esso non può certo vantare la fortuna che toccò agli altri sistemi sin allora in uso. Intanto niente poteva garantire che il candidato coi voti migliori non si dimostrasse poi completamente scemo; ciò che non di rado avvenne veramente. Perché la capacità di scrivere versi in greco può essere anche l’unica di cui un individuo è provvisto. Si è dato anche il caso di candidati vittoriosi che all’esame si eran fatti impersonare da qualcun altro, dimostrandosi poi del tutto incapaci di scrivere, all’occorrenza, poesie in greco. Insomma la scelta basata sull’esame di concorso ha avuto un successo non mai più che modesto.
Ma per quanto il sistema suddetto sia difettoso, è certo che esso ha dato risultati migliori, rispetto ad ogni altro sistema escogitato dopo di allora. I metodi moderni si basano sulla prova dell’intelligenza e sul colloquio psicologico. La prova dell’intelligenza ha un difetto: quelli che meglio la superano si rivelano poi analfabeti o quasi. Si spreca infatti tanto di quel tempo a studiare l’arte di farsi esaminare che al candidato non ne resta per studiare altro. Il colloquio psicologico è ormai diventato, come molti sanno, una sorta di casalingo giudizio di Dio. I candidati vanno tutti assieme a trascorrere la domenica in un bel posto, sotto l’osservazione continua degli esperti. Se uno di loro inciampa sullo stuoino, davanti all’uscio, e dice “accidenti!” gli esaminatori, che stanno in agguato nascosti, levan di tasca il taccuino e annotano: “ Scarsa coordinazione fisica” e “ Carenza di autocontrollo”. Non occorre descrivere questo metodo in tutti i particolari, ma i risultati di esso li abbiamo sott’occhio ed è inutile dire che sono quanto mai deplorevoli. Gli individui che riescono in esami di questo tipo hanno di solito temperamento cauto e sospettoso, pedantesco e mediocre: parlano poco e non fanno nulla. Assai usuale, quando si assume gente con questo metodo, che l’unico fra cinquecento candidati sia poi messo da parte dopo poche settimane perché è inutile e perfino inferiore al livello dei suoi colleghi al ministero. Insomma tra i vari metodi di scelta finora sperimentati, l’ultimo è senza dubbio il peggiore.
E in avvenire quale metodo si dovrà usare? Una indicazione per le nostre ricerche ci può venire da un aspetto poco reclamizzato della tecnica selettiva contemporanea. Accade così di rado di dover assumere al ministero degli Esteri un traduttore dal cinese che il metodo usato in tali casi lo conoscono pochissimi. Si fa il bando per quel posto e le domande vengono esaminate (è un nostro esempio) da una commissione di cinque individui, dei quali tre sono funzionari dello Stato e due studiosi cinesi eminentissimi. Ammucchiate sul tavolo dinanzi alla commissione ci sono 483 domande con allegate le referenze. Tutti i candidati sono cinesi e tutti, senza eccezione, hanno almeno la laurea all’Università di Pechino o di Amoy e la libera docenza in filosofia a Cornell o alla John Hopkins. Non ce n’era neanche uno che non fosse stato ministro nel governo di Formosa. Alcuni hanno allegato la fotografia, altri (forse han fatto bene) se ne son ben guardati. Il presidente si rivolge al più autorevole fra i due esperti cinesi e dice: “Penso che il dottor Wu possa dirci quali tra i candidati debbano costituire la terna. ” Il dottor Wu ha un sorriso enigmatico e indica il mucchio delle domande. “Nessuno di questi va bene,” si limita a dire. E il presidente, sorpreso; “Ma come… voglio dire, perché no?” “Perché un vero studioso non avrebbe mai fatto domanda, nel timore di perdere la sua reputazione, una volta respinto.” “E allora cosa dobbiamo fare?” chiede il Presidente. “Forse,” dice il dottor Wu, “convinceremo il dottor Lim ad accettare questo posto. Cosa ne pensa lei, dottor Li?” “Sì, credo di sì,” dice il dottor Li, “ma non possiamo naturalmente avvicinarlo di persona. Chiederemo al dottor Tan se a suo avviso il posto può interessare al dottor Lim.” “Io non conosco il dottor Tan,” dice il dottor Wu, “ma conosco il suo amico, dottor Wong.” A questo punto il presidente ha in capo una tale confusione che non sa chi bisogna avvicinare e chi deve compiere l’avvicinamento. Ma la cosa importante è che tutte le do mande finiscono nel cestino, che si prende in considerazione solo un candidato, il quale non ha neppure fatto domanda.
Noi non consigliamo l’adozione generale del metodo cinese moderno, ma da esso possiamo trarre una conclusione utile: il fallimento degli altri metodi è dovuto soprattutto al fatto che ci sono troppi candidati. Tutti sanno che con qualche accorgimento iniziale se ne può subito ridurre il numero. Ormai è d’uso comune la formula “esclusi quelli in età superiore ai cinquanta, più tutti quelli in età inferiore ai venti, più tutti gli irlandesi”. Applicando questa formula si riduce notevolmente la lista, ma i nomi che restano son pur sempre troppi. È veramente impossibile scegliere tra trecento persone tutte ben, come suol dirsi, “referenziate”, e tutte egualmente raccomandate. Siamo quindi indotti a pensare che lo sbaglio stia nel bando di concorso. Esso ha invogliato troppa gente a far domanda, e questo tè un inconveniente di cui pochi si rendono conto, tanto vero che si redigono bandi in termini tali che inevitabilmente le domande piovono a migliaia. Si annuncia per esempio che è disponibile un posto di responsabilità, perché chi lo occupava è entrato a far parte della Camera dei Lords: ricco stipendio, ottima pensione, compiti nominali, privilegi immensi, incerti apprezzabili, alloggio gratuito, macchina ministeriale e illimitate agevolazioni di viaggio. I candidati facciano domanda immediata ma precisa accludendo copie (mai gli originali) di non oltre tre referenze. Risultato? Un diluvio di domande: parecchie sono di pazzi, altrettante di maggiori dell’esercito a riposo, ma abilissimi (lo affermano sempre) nell’arte di trattare gli uomini. In questo caso non c’è altro da fare che dar fuoco al mucchio delle domande e riflettere daccapo sulla questione. Si sarebbe risparmiato tempo e fastidio riflettendo prima di emanare il bando.
Ci vuol poco a comprendere che il bando di concorso, quando è perfetto, provocherà una sola domanda, e cioè quella dell’unico uomo adatto ad occupare quel posto. Cominciamo con un esempio paradossale :
Cercasi acrobata capace di camminare su un filo teso a 60 metri di altezza sopra un falò ardente. Due volte per sera, il sabato tre volte. Offresi salario 25 sterline settimanali. Non esiste pensione né indennità in caso di incidenti. Presentarsi personalmente al Circo del Gatto Selvatico fra le 9 e le lo del mattino.
La redazione di questo bando forse non è perfetta, ma lo scopo e quello: trovare il punto preciso di equilibrio tra l’attrattiva dello stipendio e il rischio, in modo che si presenti un solo candidato. Il posto non interesserebbe certo a chi non è pratico della danza sul filo. È inutile aggiungere che il candidato deve essere sano nel fisico, astemio e non soggetto a vertigini. È inutile aggiungerlo perché il candidato lo sa. È anche inutile precisare che sono esclusi quelli che non sopportano le grandi altezze. Essi si escluderanno da sé. L’abilità di chi redige il bando sta nel bilanciare lo stipendio con il pericolo. Se offrisse 1.000 sterline alla settimana avrebbe una decina di domande. Se ne offrisse 15 non ne avrebbe alcuna. La somma esatta da specificare, la cifra minima capace di attrarre chi davvero sa compiere l’impresa sta fra le 15 e le 1.000 sterline. Se c’è più di un candidato, ciò significa che la cifra è un pochino troppo alta. E ora, all’opposto, prendiamo un altro esempio, meno paradossale:
Cercasi archeologo fornito di grandi titoli accademici, desideroso di trascorrere quindici anni agli scavi delle Tombe Inca, a Helsdump sul fiume degli Alligatori. Si garantisce croce di cavaliere ufficiale o titolo equipollente. Stipendio 2.000 sterline annue. Prevista la pensione, che sinora però nessuno ha riscosso. Domanda in triplice copia al direttore dell’Istitut0 Grubbenburrow, Sickdale, III., U.S.A.
In questo bando c’è un perfetto equilibrio fra vantaggi e svantaggi. Non c’è bisogno di precisare che i candidati dovranno essere resistenti, coraggiosi e scapoli. È anche inutile aggiungere che i candidati debbono andar pazzi per le tombe, perché certamente essi dovranno essere pazzi. Avendo così ridotto a un massimo di circa tre il numero dei candidati, il bando ha avuto l’accortezza di proporre uno stipendio troppo esiguo per lusingare due di essi e una onorificenza esattamente bastevole a interessare il terzo. È lecito supporre che offrendo la commenda si sarebbero avute due domande, mentre offrendo la croce di cavaliere semplice non ce ne sarebbe stata alcuna; il bando di cui abbiamo dato esempio invece provoca un solo candidato, il quale è certamente pazzo. Ma questo non importa: abbiamo trovato l’uomo che cercavamo.
Qualcuno dirà che È poco probabile il caso di dover assumere un danzatore su filo o uno scavatore di tombe, e che ben più spesso invece si presenta il problema di trovare candidati a posti molto meno esotici. Questo è vero, ma certi principi restano validi. Supponiamo ora che il posto messo a concorso sia quello di Primo Ministro. Oggi si tende ad accettare con fiducia vari metodi elettivi, con risultati che quasi invariabilmente sono disastrosi. Ma se invece noi ripensassimo alle favole della nostra infanzia ci accorgeremmo che all’epoca a cui tali favole si riferiscono usavano metodi assai più soddisfacenti. Quando il re doveva scegliere l’uomo che sposasse la sua figlia maggiore (o l’unica sua figlia) per ereditare il regno, egli di solito preparava una sorta di corsa ad ostacoli dalla quale usciva con onore solo l’uomo adatto. (Anzi, in molti casi da tale corsa usciva soltanto l’uomo adatto.) Per apparecchiare la prova i re di quell’epoca, non troppo nettamente definita, erano ben provvisti di personale e di attrezzature: maghi, demoni, fate, vampiri, lupi, mannari, giganti e nani. I loro reami erano provvisti di montagne magiche, fiumi di fuoco, tesori nascosti e foreste incantate. Qualcuno dirà che sotto questo aspetto gli attuali governanti sono meno fortunati, ma questo in realtà è tutt’altro che certo. Chi ha ai suoi ordini psicologi, psichiatri, alienisti, esperti di statistica, tecnici dell’efficienza, non si trova in condizione peggiore (e nemmeno migliore) di chi una volta poteva contare sull’intervento di orrende streghe e di provvide fate. Chi può disporre di macchine fotografiche, impianti televisivi, reti radiofoniche, apparecchi radiologici non si trova in condizione peggiore (e nemmeno migliore) di chi un tempo usava bacchette magiche, globi di cristallo, pozzi del desiderio e mantelli dell’invisibilità. O almeno è possibile il raffronto fra i mezzi rispettivi di cui gli uni e gli altri dispongono o disponevano. Occorre solo tradurre la tecnica delle fiabe in una forma che vada bene per il mondo moderno. E questo, come vedremo, può farsi senza sostanziali difficoltà.
Per prima cosa occorrerà stabilire quali doti si richiedono al Primo Ministro, doti che non in tutti i casi saranno le medesime, ma dovranno essere stabilite ed espresse volta per volta. Supponiamo che le doti fondamentali siano: 1. energia, 2. coraggio, 3. patriottismo, 4. esperienza, 5. popolarità e 6. eloquenza. Il lettore noterà subito che tali doti sono generiche e che forse tutti i candidati riterranno di possederle. Sarebbe facile restringere il campo chiedendo “esperienza come domatore di leone” ed “eloquenza in lingua mandarina”. Ma non È in questo modo che noi vogliamo restringere il campo. Noi non vogliamo chiedere una qualità in forma specifica, ma piuttosto ciascuna qualità in altissimo grado. In altre parole il candidato vittorioso dovrà essere l’uomo più energico, più coraggioso, più patriottico, più esperto, più popolare e più eloquente del paese. Solo un uomo evidentemente può essere tale, e noi appunto vogliamo avere la sua domanda. Il bando deve essere redatto in modo tale da escludere tutti gli altri. Ecco un esempio di come dovrebbe suonare.
Cercasi Primo Ministro di Ruritania. Orario di lavoro: dalle 4 del mattino alle 11,59 della sera. I candidati dovranno battersi in tre riprese contro il campione dei pesi massimi (con guanti regolamentari). I candidati moriranno per la patria, con mezzi indolori, una volta raggiunta l’età della pensione (65). Dovranno sostenere un esame di procedura parlamentare e ove non ottengano una votazione di almeno 95/ 100 saranno liquidati. Saranno liquidati anche non ottenendo almeno il 75 per cento di voti favorevoli da una inchiesta condotta col metodo Gallup per stabilire la loro popolarità. Infine dovranno dar prova di eloquenza in una chiesa Battista, pronunciandovi una predica allo scopo di convincere i presenti a ballare il rock and roll. Saranno liquidati tutti quelli che non riusciranno nella prova. I candidati si presentino al Circolo Sportivo (entrata laterale) alle 11,15, la mattina del 19 settembre. Saranno loro forniti i guanti da pugilato, ma dovranno provvedere da sé alle scarpe gommate, alla maglietta e ai calzoncini.
Il lettore noterà che questo bando elimina l’impiccio dei moduli, delle referenze, delle fotografie e delle terne di candidati. Se il bando è redatto in modo giusto, ci sarà solo un candidato, il quale potrà insediarsi al suo posto immediatamente o quasi. Ma cosa succede se non ci saranno candidati? Questo è segno che occorre redigere il bando in forma nuova, e che noi abbiamo evidentemente chiesto qualcosa che non esiste. Perciò si può utilizzare lo stesso bando (che dopotutto occupa poco spazio) con qualche lieve modifica. Per esempio si può ridurre il voto richiesto da 95 a 85/100, oppure contentarsi di un 65 per cento nell’inchiesta sulla popolarità, o di due sole riprese per l’incontro di pugilato col campione dei pesi massimi. Si può insomma mitigare le condizioni fino a che non compare una domanda.
Ma supponiamo invece che si presentino due o anche tre candidati. Questo sarà segno della nostra insufficienza scientifica. Sarà segno che abbiamo abbassato troppo il voto richiesto, e che dovevamo fissarlo all’87/100 con un 66 per cento di popolarità. Qualunque sia la causa, ormai il danno è fatto. In sala d’aspetto ci sono due, e magari tre candidati. A noi tocca scegliere e non possiamo buttar via tutta la mattinata. Qualcuno consiglierà di avviare il duello all’ultimo sangue eliminando i candidati di minor merito. Ma non è questa la maniera più sbrigativa. Supponiamo che tutti e tre i candidati abbiano le doti da noi considerate essenziali. La cosa migliore È chieder loro un’altra dote e ricorrere alla più semplice fra le prove. Cioè chiedere alla signorina più a portata di mano (una segretaria o una dattilografa, secondo il caso): “Lei quale preferisce?” La signorina indicherà subito uno dei candidati e la storia sarà finita. Qualcuno ha obiettato che questo equivale a lanciare in aria la monetina o comunque a lasciar che decida il caso. Invece il caso non c’entra. Si tratta solo di un’ulteriore dote, entrata in ballo all’ultimo momento, e che finora non avevamo tenuto in nessun conto, la dote del sex appeal.
DELLA COMITOLOGIA
ossia
IL COEFFICIENTE DI INEFFICIENZA
Il ciclo vitale del comitato ha una importanza tale per la nostra conoscenza dei problemi d’attualità che c’è da meravigliarsi del fatto che cosi scarsa attenzione sia stata dedicata a quella scienza che si chiama comitologia. Tale scienza si basa su un principio primo ed elementarissimo: ogni comitato, ogni consiglio, ha carattere organico e non meccanico: esso non è una struttura, ma una pianta. Esso mette radici e cresce, fiorisce appassisce e muore, spargendo il seme da cui a loro volta fioriranno altri consigli, altri comitati. Solo coloro che tengono in mente tale principio possono sperare di procedere nella comprensione della struttura e della storia del governo moderno.
I consigli (oggi tutti lo riconoscono) si dividono all’ingrosso in due categorie: a. Quelli da cui i singoli membri hanno qualcosa da guadagnare; b. Quelli a cui i singoli membri hanno qualcosa da dare. Per il nostro scopo, i casi che appartengono al secondo gruppo hanno un’importanza molto relativa; alcuni anzi non credono nemmeno che possano chiamarsi consigli. Dal primo gruppo, di gran lunga il più numeroso, è più facile apprendere i principi che, con qualche lieve modifica, valgono in tutti i casi. Fra i consigli del primo gruppo i più lussureggianti e i più profondamente radicati son quelli che danno ai propri membri maggior potenza e maggior prestigio. Quasi in ogni parte del mondo tali consigli si chiamano consigli di stato o “gabinetti”. Questo capitolo si fonda su un ampio studio dei gabinetti di varie nazioni, nello spazio e nel tempo.
I comitologi e gli storici, ma anche le persone ordinarie che nominano i gabinetti, ritengono, dopo un attento esame al microscopio, che la grandezza ideale di un gabinetto non debba superare il numero di cinque. Entro questi limiti la pianta è vitale, giacché consente che due dei cinque siano ammalati o assenti contemporaneamente. È facile convocare cinque persone le quali, una volta riunite, possono funzionare con competenza, segretezza e velocità. Di questi cinque membri, quattro saranno versati, rispettivamente, nelle finanze, in politica estera, in problemi relativi alla difesa, e nell’amministrazione della giustizia. Il quinto, non essendo riuscito a impadronirsi di nessuna di queste scienze di solito vien nominato Presidente o Primo Ministro.
Pur essendo chiaro che è meglio limitare il numero dei membri a cinque, l’osservazione ci insegna che assai presto tale numero sale a sette o nove. Tale aumento, pressoché inevitabile (fanno eccezione tuttavia il Lussemburgo e l’Honduras), si giustifica con il pretesto che occorre una competenza specifica in più che quattro argomenti soltanto. Ma la ragione, potentissima, per cui la squadra si amplia è un’altra. Infatti in un gabinetto di nove ministri si noterà che tre prendono le decisioni, due forniscono informazioni, uno dà consigli d’ordine finanziario. Il Presidente è neutrale e lui compreso i membri che funzionano sono sette. Gli altri due – lo si capisce a prima vista – son lì per motivi meramente ornamentali. Questa divisione di compiti si manifestò per la prima volta in Inghilterra verso il 1639, ma non c’è dubbio che già da molto tempo si era manifestata la pazzia di includere più di tre uomini capaci ed eloquenti in un consiglio. Noi non sappiamo nulla sulla funzione degli altri due membri, quelli che tacciono, ma c’è motivo di credere che un gabinetto, al secondo stadio del suo sviluppo, non possa funzionare senza di loro.
Esistono gabinetti (vengono subito in mente alcuni esempi: Costarica, Equador, Irlanda del Nord, Liberia, Filippine, Uruguay e Panama) che sono rimasti al secondo stadio, cioè hanno limitato a nove il numero dei propri membri. Ma si tratta comunque di una piccola minoranza. Altrove, in paesi più vasti, in genere tutti i gabinetti sono andati soggetti alla legge della crescita. Si ammettono nuovi membri, alcuni a motivo della loro competenza specifica, altri – e sono i più – perché darebbero troppo fastidio restando fuori. Si può vincere la loro opposizione solo compromettendoli nelle decisioni che si prendono. Man mano che essi entrano (e si calmano) il numero totale dei membri cresce da dieci a venti. In questa terza fase già si presentano notevoli svantaggi.
Lo svantaggio più evidente è la difficoltà di riunire tante persone nello stesso posto, lo stesso giorno, alla stessa ora. Uno parte il 18, un altro sarà di ritorno solo il 21. Un terzo non è mai libero di giovedì, un quarto irreperibile prima delle cinque pomeridiane. Ma questo è solo l’inizio dei guai perché una volta che la maggioranza sia riunita, assai grande è la possibilità che alcuni membri siano troppo vecchi, stanchi, sordi o incapaci di farsi ascoltare. Pochi son stati scelti col presupposto che siano, siano stati, possano essere utili. Magari molti di essi sono stati accolti nel gabinetto solo per cattivarsi la simpatia di un gruppo che sta al di fuori del gabinetto. Essi perciò tendono a riferire tutto ciò che accade al gruppo di cui sono rappresentanti. Va così perduta la segretezza e, quel che è peggio, i singoli membri cominciano a prepararsi in anticipo i discorsi che faranno. Pronunciano la loro orazione e dopo raccontano agli amici quello che immaginano di aver detto. Ma quanto più chiacchierano questi membri meramente ornamentali, tanto più i gruppi esterni insistono a chiedere nuovi membri che li rappresentino. Si formano così fazioni interne le quali cercano di acquistare forza reclutando elementi nuovi. Si raggiunge e si sorpassa il traguardo dei venti. E così, all’improvviso, il gabinetto entra nella fase numero quattro, quella finale, della sua storia.
A questo livello di evoluzione del gabinetto (cioè fra i 20 e i 22 membri) tutto il consiglio va soggetto a un improvviso mutamento chimico, anzi organico. Facile discernere e intendere la natura di questo mutamento. In primo luogo i 5 membri che contano davvero si riuniscono per conto proprio prima che si raduni il consiglio. Essendo già state prese le decisioni, agli altri resta poco da fare. Di conseguenza cessa ogni resistenza all’ulteriore aumento del consiglio. Crescendo il numero dei membri non si sprecherà tempo in più; infatti le riunioni del consiglio sono sostanzialmente tempo sprecato. Perciò la pressione di gruppi esterni viene temporaneamente soddisfatta accettando i loro rappresentanti, e passeranno decine d’anni prima che essi comprendano quanto sia illusorio questo vantaggio. Spalancate le porte, il numero dei membri sale da 20 a 30 e poi da 30 a 40. Può darsi che presto ci capiti di vedere un gabinetto che raggiunge il traguardo dei 1000 membri. Ma questo non importa. Infatti il gabinetto ha cessato di essere un gabinetto vero, e le sue vecchie funzioni sono passate a qualche altro organo.
Cinque volte, nella storia d’Inghilterra, la pianta ha percorso il suo ciclo vitale. Sarebbe certo difficile dimostrare che la prima incarnazione del gabinetto – il Consiglio della Corona che oggi si chiama Camera dei Lords – abbia mai avuto solo cinque membri. All’epoca di cui abbiamo qualche notizia, si era già perso il carattere originario di quel consiglio e il numero dei membri, tali in linea ereditaria, variava già da 29 a 50. In seguito il numero crebbe, di pari passo con la perdita del potere effettivo. Facciamo cifre tonde: nel 1601 60 membri, 140 nel 1661, 220 nel 1760, 400 nel 1850, 650 nel 1911 e 850 nel 1952.
Ma quando si formò l’embrione nel grembo della nobiltà inglese? Verso il 1257, quando i membri del consiglio, ristrettissimo, si chiamavano Lords del Consiglio del Re, ed erano meno di 10. Nel 1378 erano 11, e tanti rimasero fino al 1410. Poi, dopo il regno di Enrico IV, cominciarono a moltiplicarsi. I 20 del 1433 erano diventati 41 nel 1504, e giunsero ad essere 172 quando alla fine il consiglio smise di riunirsi.
All’interno del Consiglio del Re si sviluppò la terza incarnazione del gabinetto – si chiamava Consiglio Privato – che all’inizio contava nove membri. Sali a 20 nel 1540, a 29 nel 1547 e a 44 nel 1558. Il Consiglio Privato, man mano che perdeva in efficienza, cresceva di mole. Nel 1679 erano 47 i suoi membri, 67 nel 1723, 200 nel 1902 e 300 nel 1951.
All’interno del Consiglio Privato si formò il Consiglio di Gabinetto, che verso il 1615 si sostituì al primo. Erano solo otto membri all’epoca di cui abbiamo le prime notizie, ma nel 1700 si era già a 12, e a 20 nel 1725. Al Consiglio di Gabinetto si sostituì un gruppo nato nel suo grembo, che si chiamò semplicemente Gabinetto. Sullo sviluppo di quest’ultima pianta sarà bene esprimersi mediante una tabella. Eccola:
Tavola I
IL GABINETTO INGLESE
Anno |
1740 |
1784 |
1801 |
1841 |
1885 |
Numero dei membri |
5 |
7 |
12 |
14 |
16 |
Anno |
1900 |
1915 |
1935 |
1939 |
1945 |
Numero dei membri |
20 |
22 |
22 |
23 |
16 |
Anno |
1945 |
1949 |
1954 |
|
|
Numero dei membri |
20 |
17 |
18 |
00 |
00 |
Chiaro che dopo il 1939 si è cercato in ogni modo di salvare questa istituzione: qualcosa di simile ai tentativi che si fecero per salvare il Consiglio Privato durante il regno della Regina Elisabetta I. La fine del Gabinetto parve imminente nel 1940, poiché era sorto un gabinetto ad esso interno (5,7 o 9 membri) e pronto a prenderne il posto. È tuttavia un punto controverso. Può anche darsi che il gabinetto britannico .abbia ancora la sua importanza.
Rispetto al gabinetto britannico quello americano ha dimostrato straordinaria resistenza all’inflazione politica. Nel 1789 aveva cinque membri, il numero perfetto, ancora 7 soltanto nel 1840, 9 nel 1901, 10 nel 1913, 11 nel 1945, e poi – contro la tradizione – di nuovo 10 nel 1953. Non sappiamo quale sarà il successo di questo tentativo, avviato nel 1947, di ridurre il numero dei membri. L’esperienza starebbe a dimostrare che inevitabilmente si riprenderà la vecchia tendenza. Sia detto fra parentesi, gli Stati Uniti hanno un invidiabile primato, a mezzo col Guatemala e con El Salvador: un gabinetto con un numero di membri inferiore a quello del Nicaragua e del Paraguay.
E gli altri paesi? Quelli non totalitari hanno in maggioranza gabinetti varianti fra i 12 e i 20 membri. La media, su 60 paesi, è superiore a 16; più frequenti i gabinetti di 15 membri (se ne annoverano sette esempi) e di 9 (ancora sette esempi). Di gran lunga il più strano è il gabinetto neozelandese: uno dei suoi membri si proclama “ministro dell’agricoltura e delle foreste, ministro degli affari Maori, incaricato della conservazione del paesaggio”. Ai banchetti ufficiali neozelandesi il capotavola darà la parola al “ministro della Sanità, vice primo ministro, ministro incaricato delle aziende statalizzate, del censo e delle statistiche, della pubblicità e delle informazioni”. Per fortuna in altri paesi è assai rara una simile orientale abbondanza. Dagli esempi britannici par lecito dedurre che il livello dell’inefficienza si raggiunge quando il numero complessivo dei membri supera i 20 o forse i 21. Il Consiglio della Corona, il Consiglio del Re e il Consiglio Privato avevano tutti passato il segno dei 20 quando ne cominciò il declino. Il gabinetto inglese è oggi al di sotto di quel numero, essendosi appena salvato dall`abisso in cui stava precipitando. Da questi esempi saremmo tentati di dedurre che i gabinetti – come qualsiasi altro consiglio – con un numero di membri superiore ai 21 stanno già perdendo la realtà del potere, mentre quelli anche più numerosi l`hanno di già perduta. Ma una teoria siffatta non può reggere senza il sostegno delle prove statistiche. Eccone un esempio, solo parziale, sempre sotto forma di tabella.
Tavola II
MOLE DEI GABINETTI
Numero dei membri
|
Paesi
|
6
|
Honduras, Lussemburgo
|
7
|
Haiti, Islanda, Svizzera
|
9
|
Costarica Equador, Irlanda del Nord, Liberia, Panama, Uruguay
|
10
|
Guatemala, El Salvador, Stati Uniti
|
11
|
Brasile, Nicaragua, Pakistan, Paraguay
|
12
|
Bolivia, Cile, Perù
|
13
|
Columbia, Repubblica Domenicana, Norvegia, Tailandia
|
14
|
Danimarca, India, Sudafrica, Svezia
|
15
|
Austria, Belgio, Finlandia, Iran, Nuova Zelanda, Portogallo, Venezuela |
16
|
Irak, Olanda, Turchia
|
17
|
Irlanda, Israele, Spagna
|
18
|
Egitto, Gran Bretagna, Messico
|
19
|
Germania Occidentale, Grecia, Indonesia, Italia |
20
|
Australia, Formosa, Giappone
|
21
|
Argentina, Birmania, Canada, Francia
|
22
|
Cina
|
24
|
Germania Orientale
|
26
|
Bulgaria
|
27
|
Cuba
|
29
|
Romania
|
32
|
Cecoslovacchia
|
35
|
Iugoslavia
|
38
|
URSS
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Non sarebbe forse lecito tracciare una linea sotto la parola Francia (21 membri di gabinetto) e spiegare che il consiglio dei ministri non ha più alcun potere nei paesi elencati al disotto di quella linea? Certi comitologi paion propensi ad accettare tale conclusione senza discutere più oltre. Altri invece consigliano maggiore prudenza, specialmente quando si esamini la situazione ai confini del 21. Ma ormai quasi tutti ammettono che il coefficiente di inefficienza deve trovarsi fra 19 e 22.
Possiamo tentare una spiegazione di questa ipotesi? Occorre però anzitutto fare una netta distinzione fra realtà e teoria, fra sintomo e malattia. Circa il sintomo più ovvio quasi tutti son d’accordo. Sappiamo infatti che una riunione a cui partecipino più di 21 persone comincia a cambiare carattere. All’uno e all’altro capo della tavola la conversazione si scinde e continua divisa in due tronconi. Per farsi sentire quindi chi parla all’intero uditorio deve alzarsi in piedi. Una volta ritto, non può evitare il discorso, se non altro per forza d’abitudine. “Signor presidente,” comincerà, “penso di poter affermare senza tema di smentita – e parlo sulla base di venticinque anni (potrei quasi dire ventisette) di esperienza – che la questione deve essere affrontata con la massima considerazione. Una pesante responsabilità incombe su di noi, signori, e per mia parte io… ”
In mezzo a tante chiacchiere inutili, quelli fra i presenti – se ce ne sono – che vogliono essere utili a qualcosa, si scambiano bigliettini su cui è scritto: “Vieni a desinare a casa mia, domani. Ne discuteremo.”
E cos’altro dovrebbero fare? Continua il ronzio interminabile di quella voce: l’oratore potrebbe anche parlare nel sonno. Il consiglio, di cui egli è il membro meno utile, ha smesso di contare qualcosa. È finito, disperato, morto.
Su questo non ci son dubbi. Ma la causa radicale dell’inconveniente va più a fondo, ed in qualche misura deve ancora essere messa in luce. Troppi fattori vitali restano sconosciuti. Per esempio: qual è la forma, quale la grandezza della tavola, in sala di consiglio? Quale l’età media dei presenti? A che ora si riunisce il consiglio? In un capitolo come è questo, dedicato cioè al lettore non specializzato, sarebbe assurdo ripetere i calcoli grazie ai quali si è stabilito un primo coefficiente di inefficienza. Basti quindi sapere che dopo lunghe ricerche l’Istituto di Comitologia ha stabilito una formula ormai largamente (anche se non universalmente) accettata dagli esperti del ramo. Non sarà male premettere che i tecnici i quali hanno svolta l’inchiesta presupponevano clima temperato, poltrone di cuoio, astemia quasi completa. Ciò premesso, ecco la formula
Nella nostra formula m indica il numero medio dei membri presenti; ° il numero dei membri che
subiscono l’influenza di pressioni esterne; d la distanza, espressa in centimetri, fra i due membri che seggono più lontani l’uno dall’altro; p la pazienza del presidente, misurata secondo la scala Peabody; b la pressione sanguigna media dei tre membri più anziani, rilevata poco prima della riunione. In tal modo X ci darà il numero dei membri presenti nel momento in cui è manifestamente impossibile che il consiglio possa più funzionare. Ciò dà in altre parole il coefficiente di inefficienza, che dovrebbe stare fra il 19,9 e 22,4. (Si scusino i decimali, i quali stanno a indicare le assenze parziali; cioè i membri che non hanno partecipato a parte della seduta.)
Non sarebbe giusto concludere, dopo solo una rapida occhiata all’equazione, che la scienza comitologica è molto progredita. I comitologi e i subcomitologi non oserebbero mai vantarsene, se non altro per timore della disoccupazione. Anzi, essi affermano che i loro studi sono appena agli inizi, e che siamo alle soglie di formidabili sviluppi. Facendo perciò la tara dell’interesse personale – cioè diminuendo del 90 per cento quel che essi affermano – possiamo tuttavia concludere che c’è ancora molto lavoro da svolgere.
Volendo, potremmo indicare la formula grazie alla quale si determina il numero perfetto dei membri di un consiglio. Il numero aureo giace fra il 3 (sotto del quale non esiste più il quorum) ed il 21 circa (oltre il quale l’organismo comincia a morire). Qualcuno ha avanzato l’ipotesi, di per sé interessante, secondo la quale il numero perfetto sarebbe otto. Perché? Perché, come si vede dalla nostra Tabella II, è l’unico numero che tutti gli stati esistenti hanno unanimemente evitato. Teoria affascinante, certo, ma che offre il fianco a una grave obiezione. Re Carlo I preferì proprio il numero otto per il suo Consiglio di Stato. E avete visto che bella fine ha fatto?
LA VOLONTÀ DEL POPOLO
ossia
IL GRANDE RADUNO
Tutti vedono la differenza fondamentale fra le istituzioni parlamentari inglesi e francesi, poi copiate da tutte le altre assemblee che da quelle due derivano. E tutti intendono che tale differenza, nettissima, non ha nulla a che fare con il temperamento dei due popoli. Deriva invece dai criteri con cui si mettono seduti i membri dei due parlamenti. Gli inglesi, che hanno alle spalle un’educazione sportiva, entrano nella Camera dei Comuni con lo stato d’animo di chi preferirebbe fare qualcosa d’altro. Se là dentro non possono giocare a tennis o a golf, per lo meno possono far conto che la politica sia un gioco, con regole molto simili a quelle che governano tutti i giochi. Senza questo trucco della fantasia, il Parlamento avrebbe un interesse anche minore di quello che ha. Cosi gli inglesi, quasi per istinto, formano due squadre contrapposte. con tanto di arbitro e di segnalinee, e si battono, a parole, fino all’esaurimento. La camera dei Comuni è fatta in modo tale che il singolo Membro è costretto, in pratica, a schierarsi da una parte o dall’altra, prima ancora di sapere di che cosa si parla. L’inglese è stato educato, sin dalla nascita, a giocare a pro della sua squadra, e questo fatto gli risparmia ogni indebito sforzo mentale. Quando in punta di piedi va a sedersi al suo posto (l’oratore ha quasi finito) egli sa esattamente come intervenire nella discussione, proprio in quel momento. Se chi parla e della parte sua dirà. “Bene, bene.” Se invece della Parte opposta, potrà dire senza paura: “Vergogna! o anche solo: “Oh!” In seguito, se gli va, può anche chiedere al suo vicino di che cosa, secondo lui, si sta parlando. A rigore però non e indispensabile. In ogni caso il Membro ne sa quanto basta per non calciare la palla verso la porta propria. Gli uomini seduti dalla parte. opposta hanno sempre torto, e tutto quel che dicono sono chiacchiere inutili. Invece gli uomini che sian seduti dalla parte sua son tutti grandi statisti, e i loro discorsi una felice miscela di saggezza, eloquenza e moderazione. Non conta sapere dove abbia fatto i suoi studi politici, il nostro Membro: qualunque sia la sua università, vi avrà imparato soprattutto questo: quando è il momento di applaudire e quando invece di disapprovare. Comunque il sistema britannico, come già abbiamo detto, dipende solo dalla disposizione dei seggi. Se le panche non fossero disposte in due file, l`una di fronte all’altra, nessuno più distinguerebbe il vero dal falso, la saggezza dalla pazzia. Occorrerebbe in questo caso stare a sentire quel che dice il prossimo, cosa quanto mai ridicola perché una metà dei discorsi sono necessariamente privi di significato.
L’errore francese fu quello di disporre i seggi dei rappresentanti a semicerchio, tutti fronte alla presidenza. Non dico immaginatevi la confusione che ne deriva, perché immaginarsi è inutile: sanno tutti come stanno le cose. In tal modo risulta impossibile formare due squadre contrapposte e stabilire (se non ascoltando i discorsi altrui) qual è l’argomentazione più convincente. Ulteriore svantaggio: la lingua francese (gli Stati Uniti ebbero l’accortezza di non seguire tale esempio). Ma anche senza difficolta di ordine linguistico, il sistema francese e già di per sé scadente. Invece di costituire due parti (quella giusta e quella sbagliata), in modo che sia subito chiaro come stanno le cose, i francesi formano una moltitudine di squadre, fronte da ogni parte. C’è in campo una tale confusione che nemmeno può cominciare il gioco. I rappresentanti si distinguono, sostanzialmente, in una destra e in una sinistra, a seconda del posto in cui siedono. Ottimo criterio: peccato che i francesi non abbiano pensato anche a disporre i loro rappresentanti in ordine alfabetico. Infatti la forma semicircolare della camera consente infinite sottili sfumature nei vari gradi di destrismo e di sinistrismo. Non c’è la netta divisione britannica fra destra e sinistra, fra giusto e torto. Si dirà, in Francia, che quel deputato è a sinistra di monsieur Untel, ma a destra di monsieur Quelquechose. Cosa possono fare i francesi? Cosa faremmo noi in Inghilterra con un sistema siffatto? La risposta è: “Nulla.”
Del resto lo sanno tutti. Si sa meno invece quale grande importanza abbia la disposizione dei seggi in altre assemblee, in altre riunioni, internazionali, nazionali, locali. Il discorso vale anche per le riunioni che avvengono attorno a un tavolo, come la famosa Conferenza della Tavola Rotonda. Basta pensarci un attimo e si comprenderà che una Conferenza della Tavola Quadrata sarebbe cosa totalmente diversa, e una Conferenza della Tavola Rettangolare sarebbe altra cosa ancora. Tali differenze non influiscono soltanto sulla lunghezza e sull’acrimonia della discussione; influiscono anche sulle decisioni (ammesso che se ne prendano). Assai di rado, come tutti sanno, la votazione ha qualche rapporto col merito della questione trattata. La decisione ultima dipende da molti fattori, alcuni dei quali occorre esaminare subito. Ma diciamo peraltro questo: la decisione vien sempre, di fatto, presa in base ai voti del blocco di centro. E questo non potrebbe accadere alla Camera dei Comuni, dove non si consente che nasca un blocco di centro. ll blocco di centro invece ha un’importanza decisiva nelle assemblee dell’altro tipo, ed è composto dagli elementi qui sotto indicati:
- Quelli che non han letto i documenti, le relazioni, i memorandum preparati prima della riunione e spediti da tempo a tutti coloro che dovrebbero parteciparvi.
- Quelli che son troppo stupidi per seguire la discussione. È facile distinguerli perché di solito costoro si dicono l’un l’altro: “Ma questo, di che cosa sta parlando?”
- I sordi. Tengono le mani a coppa sulle orecchie e borbottano: “Dovrebbero alzare la voce.”
- Quelli che a tarda notte erano ubriachi e si sono alzati (Dio sa perché) con un tremendo mal di capo, convinti che al mondo nulla più conta.
- I vegliardi, che si fanno un punto d’orgoglio d’essere sempre in gamba, più in gamba di parecchi fra questi giovani. “Son venuto a piedi,” bisbigliano. “A ottantadue anni è una bella impresa, non le pare?”
- I deboli, che per tale debolezza hanno promesso all’una e all’altra parte di dare il proprio voto, e non sanno come comportarsi. Sono indecisi: o astenersi o fingersi ammalati.
Chi vuol conquistare i voti del blocco di centro dovrà in primo luogo individuare e contare i membri che lo compongono. Ciò fatto, tutto il resto dipende solo dal posto in cui essi si metteranno a sedere. La cosa migliore è dare incarico a un amico (in senso politico) fidato e vigoroso di attaccare discorso, prima che cominci il dibattito, coi suddetti tipi del blocco di centro. In questa chiacchierata preliminare l’amico starà ben attento a non far parola della questione su cui si svolgerà il dibattito. Ci sono alcune mosse d’apertura che sarà bene insegnargli. Eccone sei, una per ogni tipo indicato sopra:
- “Tempo perso, dico io, tutta questa carta stampata. Io ho buttato ogni cosa nel cestino.”
- “Con tutte queste chiacchiere tra poco mi addormento. lo vorrei che la gente chiacchierasse meno e venisse subito al dunque. A me non la fanno, mi creda.”
- “L’acustica di questa sala è tremenda. Ma questi famosi tecnici che ci stanno a fare? NON SENTO NEMMENO LA METÀ DI QUEL CHE DICONO. E LEI?”
- “Che posto disgraziato! Secondo me dipende dalla ventilazione. Quasi mi sento male. E lei come si sente?”
- “ Davvero, ma come fa? Mi dica il segreto. Forse l’alimentazione?”
- “Ci sono tanti argomenti pro e contro che io non so davvero a chi dare il voto. Lei cosa mi consiglia?”
Se l’amico sa far bene queste mosse iniziali, riuscirà a intavolare una vivace conversazione, e intanto piloterà il suo uomo, quello del blocco di centro, verso l’aula. Intanto un altro compare si metterà davanti alla coppia, e avanzerà nella loro stessa direzione. Ma sarà meglio ricorrere a un esempio concreto. Supponiamo che l’amico (politico naturalmente) signor Gagliardi piloti il signor Malcerti (blocco di centro, tipo ƒ) verso un seggio che sta quasi dinanzi alla presidenza. Davanti a loro avanza l’altro amico, il signor Fedeli, il quale si mette a sedere, facendo finta di non aver veduti i due che lo seguono. Fedeli infatti si volge dall’altra parte e saluta con la mano qualcuno, distante. Poi si sporge verso il seggio anteriore e dice qualcosa all’uomo che ci è sopra. Solo dopo che Malcerti si è messo a sedere, Fedeli si volgerà per dirgli: “Caro amico, son contento di vederla. ”Lascerà passare qualche minuto ancora, poi scorgerà Gagliardi e fingendosi sorpreso dirà: “Salve, Gagliardi, non credevo di incontrarla qua dentro!” E Gagliardi risponde: “Sto meglio, grazie. Era solo un raffreddore.” In tal modo la disposizione sui seggi apparirà casuale, e amichevole. Termina così la prima fase dell’operazione, che sarà la medesima indipendentemente dalla categoria a cui appartiene l’uomo del blocco di centro. La seconda fase invece muterà a seconda del carattere dell’uomo che bisogna influenzare. Nel caso del signor Malcerti (tipo ƒ) scopo della seconda fase è di evitare qualsiasi discussione sul problema in esame, e dargli l’impressione che ogni cosa è ormai già decisa. Seduto nelle prime file, Malcerti non può guardare i suoi colleghi, ed è quindi facile fargli credere che in pratica tutti la pensano allo stesso modo.
Gagliardi dirà: “Proprio non so cosa ci son venuto a fare. Mi par di capire che sul punto quattro son tutti d’accordo. Tutti quelli con cui ho parlato paiono decisi a votare a favore.” (O contro, a seconda del caso.)
“ Strano,” disse Fedeli. “Stavo appunto per dirlo. Ormai pare proprio che non ci siano dubbi.”
“Io non avevo ancora deciso,” dice Gagliardi. “Si posson dire tante cose pro le contro. Ma mettersi all’opposizione sarebbe proprio tempo sprecato. Lei cosa ne pensa, Malcerti?”
“Be’,” dice Malcerti, “ammetto che il problema mi sembra arduo. Da un lato ci sono buoni motivi per votare a favore… Ma d’altro canto… Lei crede che la mozione passerà? ”
“Caro Malcerti, le dirò che mi fido del suo giudizio. Lei mi diceva poco fa che sono già tutti d’accordo.”
“ Davvero le ho detto questo? Be”… pare che ci sia una maggioranza costituita… Ma d’altronde…”
“La ringrazio, Malcerti,” dice Gagliardi, “del consiglio. Anch’io la penso cosi, ma son contento di sentire che lei è dello stesso parere. Mi preme molto la sua opinione.”
Intanto Fedeli si è voltato a parlare con un tizio, seduto alle sue spalle. Gli dice, a bassa voce: “Come sta sua moglie? È uscita dalla clinica?” Ma quando si volge ancora, comunica che anche quelli di dietro la pensano allo stesso modo. Ormai in pratica la mozione è approvata. E se il piano d’azione è ben condotto, il voto sarà favorevole senz’altro.
Mentre la parte avversa si affatica a preparare discorsi e a redigere emendamenti, la parte nostra, superiore per tecnica, si sarà dedicata invece all’incastro di ciascun membro del blocco di centro fra due amici fidati. Quando si arriva al momento cruciale, la vista del collega di destra e di quello di sinistra che alzano la mano costringe il malcerto a fare il medesimo. Nel caso che si fosse addormentato (ciò che sovente accade ai membri del blocco di centro, categorie d ed e) provvederà il collega seduto alla sua destra ad alzargli la mano. Questo per non alzare tutte e due le mani, gesto riprovevole, a quanto dicono. Assicurato l’appoggio del blocco di centro, la mozione verrà approvata con un comodo margine; o respinta, se questo volevamo ottenere. Per ciò che riguarda le questioni controverse da dirimere secondo la volontà del popolo, possiamo dar per scontato che a decidere saranno i membri del blocco di centro. I discorsi rappresentano una palese perdita di tempo. Una fazione non sarà mai d’accordo, l’altra è d’accordo in partenza. Resta il blocco di centro, i cui rappresentanti si dividono in due gruppi: quelli che non sentono cosa si dice, quelli che, se anche sentissero, non capirebbero nulla. Per guadagnarsi i loro voti occorre soprattutto l’esempio di altri che, al loro fianco, votano in un certo modo. Son voti in mano al caso. Non è dunque meglio che li prenda chi sa il suo mestiere?
LO SCHERMO DELLA PERSONALITÀ
ovverossia
LA FORMULA DEL COCKTAIL
Il cocktail party è un elemento fondamentale della vita moderna. È un’istituzione su cui s’imperniano tutti i congressi: quello internazionale, quello di cultura, quello industriale. Tutti sanno che un congresso è impossibile senza almeno un cocktail party. Fino a questo momento però non se ne sono studiate scientificamente le funzioni ed i possibili usi. È quindi tempo di dedicare all’argomento un po’ di vigile attenzione. Innanzi tutto: quando si prepara un cocktail party, quali fini abbiamo in mente?
Alla domanda si risponderà in vari modi, e così appar subito chiaro che uno stesso party può servire a diversi scopi. Scegliamone uno a caso e vediamo come si possa raggiungerlo in modo più rapido e completo, applicando il metodo scientifico. Supponiamo che lo scopo sia quello di scoprire l’importanza relativa della gente invitata. Presupponiamo di conoscere già, di ciascuno, posizione sociale e anzianità di servizio. Ma noi vogliamo sapere l’importanza relativa al lavoro in corso. Spesso infatti accade che l`uomo, o la donna, chiave, non sia quello che ufficialmente sta più in alto, e che la sua effettiva influenza appaia chiara solo alla fine del congresso. Quanto più utile sarebbe stato saperlo prima che cominciasse! In tal senso assume importanza vitale il cocktail party, che si terrà il secondo giorno del congresso.
Essendo il nostro scopo d’ordine investigativo, presupponiamo che lo spazio in cui si svolge il cocktail party giaccia tutto al medesimo livello, e che ci sia un solo ingresso. Presupponiamo inoltre che il ricevimento durerà in effetti due ore e venti, anche se sui biglietti d’invito si parla di due ore esatte. Ultimo presupposto: i beveraggi circoleranno liberamente in tutta la zona che ci interessa: un bar visibilmente in funzione cambierebbe infatti la natura del nostro problema. Ciò premesso, come si può distinguere l’importanza reale da quella teorica degli ospiti che sono intervenuti?
La nostra indagine si baserà in primo luogo su di un fatto accertato: cioè la direzione della corrente umana. Sappiamo infatti che gli ospiti, arrivando, si dirigeranno automaticamente verso il lato sinistro della sala. Questo scivolamento a sinistra ha una sua spiegazione, molto interessante e, in parte, biologica. Il cuore è (o meglio, sembra essere) nella parte sinistra del corpo umano. Nelle forme primitive assunte dall’arte bellica si usa perciò uno scudo che protegga il lato sinistro del corpo, lasciando alla mano destra il compito di usare l’arma offensiva. L’arma offensiva più diffusa era un tempo la spada, riposta in una guaina o fodero. Giacche ad estrarre la spada provvede la mano destra, il fodero deve collocarsi a sinistra. Con il fodero a sinistra era fisicamente impossibile montare a cavallo dal lato destro dell’animale, a meno di non voler stare in groppa con la faccia alla coda, sistema non normale. Ma per montare a cavallo dal lato sinistro bisogna spostare la bestia sul lato sinistro della strada, in modo da non impacciare il traffico. Diventa perciò naturale, e giusto, tenersi a sinistra: chi fa il contrario (succede in taluni paesi arretrati) va nettamente contro i più profondi istinti storici. Se togliamo ogni arbitraria norma del traffico, un essere umano normale pende a sinistra.
Secondo fatto notorio: la gente preferisce tenersi alle pareti, anziché al centro della sala. Ciò appar chiaro se si osserva il modo in cui si riempie un ristorante. Per primi vengono occupati i tavoli lungo la parete di sinistra, poi quelli in fondo, poi quelli lungo la parete destra e infine (non senza riluttanza) quelli di centro. Tale è l’avversione umana allo spazio centrale, che certe imprese non sperano più ormai di colmarlo, e per questo creano la cosiddetta pista da ballo. Il lettore comprenderà che questo tipo di comportamento può essere sovvertito da qualche fattore estraneo: per esempio dal bel panorama che si ammira dalle finestre della parete di fondo. Se escludiamo cattedrali, ghiacciai, cascate, il ristorante si empirà necessariamente secondo lo schema suddetto, da sinistra a destra. Questa avversione per lo spazio centrale deriva da istinti preistorici. L’uomo delle caverne che entrava in casa, ossia in caverna, altrui, non era mai certo d’essere bene accolto e quindi voleva avere le spalle al muro, e spazio dinanzi a sé per muoversi. Al centro della caverna si sentiva troppo esposto. Perciò girava tutt’intorno alle pareti della caverna, grugnendo e brandendo la clava. L’uomo moderno si comporta pressoché allo stesso modo: anche lui borbotta fra sé e tormenta la cravatta. Il moto degli ospiti, all’interno di una sala, è identico a quello che abbiamo descritto al ristorante. C’è la tendenza alle pareti. Ma non, si badi bene, sino a toccarle.
Combinando questi due fatti noti, cioè la tendenza a sinistra e l’altra, a evitare lo spazio centrale, ecco la spiegazione biologica del fenomeno che tante volte abbiamo osservato coi nostri occhi: cioè la tendenza oraria del flusso umano. Può esserci qualche vortice, qualche mulinello di minor conto. Per esempio una donna che cerca di evitare l’amica che odia, oi che corre incontro a un’altra amica – anche più odiata della precedente – strillando “Cara!”: comunque il flusso generale è quello, attorno alla stanza, inesorabilmente. La gente che conta, la gente che, come suol dirsi “è nel giro”, sta di solito nel punto dove la corrente è più forte, ed avanza col moto generale a velocità media. Quelli invece che paiono risucchiati contro le pareti, assorti in profonda conversazione con persone che poi incontrano ogni settimana, non contano invece un fico secco. Quelli che si ficcano negli angoli della stanza sono i timidi, i deboli. Quelli che avanzano fino al centro della sala sono gli stravaganti o, più semplicemente, gli sciocchi.
Occorre poi studiare l’ora d’arrivo degli invitati. Possiamo senz’altro presupporre che la gente che conta arriva all’ora che essa stima più utile. Costoro non commetteranno mai l’errore di sopravvalutare la lunghezza del tragitto, arrivando dieci minuti prima che cominci il ricevimento. Né commetteranno l’errore di arrivare ansimanti quando la festa è già finita, perché si è loro fermato l’orologio. No, le persone che noi intendiamo identificare sanno scegliere il momento giusto. Quale momento? Quello nettamente stabilito da due considerazioni. I nostri individui non vorranno mai fare entrata prima che ci sia un certo numero di persone pronte a notarli. Ma nemmeno arriveranno dopo che gli atri individui importanti se ne sono andati (come spesso fanno) a un altro ricevimento, ed almeno un’ora prima della fine di esso. In tal modo potremmo concludere che il momento ideale per presentarsi a un ricevimento è tre quarti d’ora dopo l’inizio segnato sull’invito. Se per esempio il biglietto dice 6,30, l’ora ideale sarà 7,15. Il lettore forse avrà voglia di concludere che una volta scoperto questo, il nostro problema sia risolto. Qualcuno magari dirà: “Non importa quel che succede dopo. Basta guardare la porta, consultare l’orologio, ed ecco la risposta.” Ma il vero esperto sorriderà con benevola ironia. Chi può garantirci infatti che la persona la quale arriva alle 7,15 lo abbia fatto di proposito? Può darsi che qualcuno avesse intenzione di giungere alle 6,30 precise, ma ha fatto tardi perché ha sbagliato indirizzo, o perché l’orologio suo va indietro. Può darsi persino che qualcuno intervenga senza nemmeno l’invito, avendo sbagliato giorno e luogo. È lecito concludere che i personaggi importanti arriveranno fra le 7,10 e le 7,20, ma sarebbe errato ritener vero l’opposto, che cioè siano importanti tutti gli ospiti che si presentano a quell’ora.
A questo stadio della nostra ricerca bisogna pertanto sperimentare e completare la nostra teoria con mezzi empirici. Per intendere in pieno il comportamento delle correnti sociali, dovremo appunto ricorrere alla tecnica in uso nei laboratori di idraulica. Cosa fa lo scienziato? Se per esempio vuole rendersi conto del flusso dell’acqua attorno a un pilone di una data forma, aggiunge all’acqua un colorante, che poi fa scorrere su di una lastra di vetro. Sul vetro pone un modellino del pilone. Poi, dall’alto, fotografa il disegno tracciato dal colorante. Noi dovremmo pertanto marcare le persone notoriamente importanti – macchiarle insomma – e fotografare dall’alto il tragitto che compiono. Qualcuno dirà che non tè facile svolgere una ricerca con questi criteri. Ma per nostra fortuna sappiamo che un’esperienza del genere – “macchiare” le persone importanti – è già avvenuta, in una colonia inglese.
Successe questo: un ex governatore, circa un secolo fa, cercò di convincere tutti i maschi di qualche prestigio a indossare l’abito da sera nero, invece di quello bianco. Non accettarono i suoi consigli e il suo esempio mercanti, banchieri, avvocati, ma rispettarono il suo tacito ordine i funzionari dello stato, che non avevano in proposito opinione alcuna. Risultato: si stabili una tradizione che è continuata fino ai giorni nostri. Gli alti funzionari del governo vanno vestiti di nero, tutti gli altri di bianco. Ora, essendo i funzionari dello stato ancora importanti in quella particolare società, fu facile ai ricercatori seguirne i movimenti dall’alto di una balconata. Poterono addirittura fotografare, e non in una sola occasione, i loro movimenti. Ne venne fuori la conferma alle teorie sinora enunciate, e fu possibile giungere alle conclusioni che oggi finalmente possiamo rendere di pubblico dominio. I rilevamenti – attentissimi – provarono, senza più ombra di dubbio, che le giacche nere arrivavano fra le 7,10 e le 7,20; che circolavano attorno alla stanza in senso orario; che evitavano sia gli angoli che le pareti della stanza, che avevano addirittura orrore dello spazio centrale. Fino a questo punto il comportamento di questi individui conferma in pieno la nostra teoria. Ma poi si è rilevato, durante quelle indagini, un ulteriore e inatteso fenomeno. Una volta giunti a un punto di estrema destra della sala – occorreva una mezz’ora – per dieci minuti e più sostavano in quel punto. Poi se ne andavano, quasi all’improvviso. Solo dopo lungo ed attento studio delle pellicole impressionate si comprese il significato del loro comportamento. La pausa – questa fu la conclusione – serviva a consentire alle altre persone importanti di unirsi al gruppo. Insomma quelli che eran giunti alle 7,10 attendevano gli altri, giunti alle 7,20. Non occorreva molto tempo perché si compisse la radunata degli importanti. Essi desideravano solo farsi vedere dagli altri, come prova che erano in sala. Ciò fatto, cominciava la ritirata, che inevitabilmente era compiuta alle 8,15.
Le nostre osservazioni in quel limitato settore paiono potersi applicare ad ogni altro caso; e non è difficile applicare la formula. Per scoprire gli individui che veramente contano occorre dividere (solo mentalmente) il pavimento in quadrati, contrassegnarli, da sinistra a destra entrando, con le lettere A, B, C, D, E, ed F. Dall’ingresso all’estremità della sala, nel senso della profondità insomma, si marchino i numeri da 1 a 8. L’ora d’inizio del ricevimento si chiami H. Dal momento in cui arriva il primo ospite a quello in cui l’ultimo se ne va trascorreranno due ore e venti circa. Diciamo dunque H+140. Ormai è semplicissimo scoprire quali sono gli ospiti che davvero contano. Sono quelli che troviamo raggruppati nel quadrato E/7 fra l’ora H+75 e l’ora H+90. La persona più importante di tutte si troverà al centro del gruppo.
Il lettore comprenderà che l’efficacia di questa regola sta nel fatto che essa è poco nota. Perciò le cose descritte in questo capitolo si considerino segrete. Non sarà male riporle sotto chiave. Gli studiosi di scienze sociali conservino per sé queste notizie. Il volgo può fare a meno di leggerle.
ALTA FINANZA
ovverossia
IL PUNTO DI CADUTA DELL’INTERESSE
La gente che s’intende di alta finanza va divisa in due gruppi: quelli che hanno una cospicua ricchezza personale, e quelli che non l’hanno. Per il miliardario un milione di sterline è una cifra reale, comprensibile. Lo studioso di matematica ed il libero docente di economia (partiamo dal presupposto che facciano la fame) considerano un milione di sterline qualcosa di reale, allo stesso titolo di mille sterline, proprio perché non hanno mai posseduto né la prima né la seconda somma di denaro. Ma il mondo è pieno di gente che non fra i miliardari e i matematici, gente Cioè che non sa niente a proposito dei milioni, ma è abituata a vivere e a pensare sulla base delle migliaia. Le assemblee finanziarie sono in larga misura composte da individui di quest’ultimo tipo. Ne consegue un fenomeno che sinora molti hanno osservato, ma studiato nessuno. Lo potremmo chiamare Legge della Non Importanza. Enunciata nella forma più semplice, questa legge suona così: il tempo impiegato a discutere i punti all’ordine del giorno è inversamente proporzionale alla somma implicata.
Ora che ci ripenso. non mi sembra del tutto giusta la mia affermazione, che nessuno cioè ha mai fatto studi su questa legge. Se ne sono fatti, ma con criteri tali che i ricercatori non sono mai giunti a capo di nulla. Essi partivano infatti dal presupposto che avesse grande importanza la successione dei vari punti all’ordine del giorno. Altro loro presupposto: gran parte del tempo libero sarà dedicata ai punti fra l’uno e il sette, lasciando poi automaticamente passare tutti gli altri. Tutti sanno quali furono le conseguenze di questo sbaglio. La conferenza del dottor Guggenheim al congresso di Muttworth fu accolta con uno scherno che a quei tempi forse parve eccessivo, ma le discussioni che sull’argomento si ebbero in seguito paiono dimostrare che le critiche erano giuste. Cosi si sono sprecati anni in ricerche che non potevano approdare a nulla perché partivano da presupposti sbagliati. Noi ora vediamo chiaramente che la successione dei punti all’ordine del giorno ha importanza molto relativa, per ciò che attiene al nostro problema. E pensiamo anche, ormai, che fu fortunato il dottor Guggenheim a poter fuggire, come gli accadde, in mutande. Se avesse osato proporre quella sua conclusione al successivo congresso, che avvenne nel settembre, sarebbe stato accolto con ben altro che scherno. Il pubblico avrebbe pensato che l’insigne studioso intendeva perder tempo di proposito.
Se vogliamo che la nostra ricerca vada avanti, bisognerà dimenticare tutto quel che si è fatto sinora. Ricominciare dall’inizio, per comprendere appieno come funziona in realtà un’assemblea di finanzieri. Ad uso e consumo del lettore comune, esporremo le cose in forma drammatica. Cosi:
Presidente: “Siamo giunti al punto numero nove. Ascoltiamo il rapporto del nostro tesoriere, signor McPhail.”
Signor McPhail: “I preventivi circa il reattore atomico sono dinanzi agli occhi di lor signori, nell’appendice H al rapporto del sottocomitato. Lor signori vedranno che il progetto generale e l’impianto son già stati approvati dal professor McFission. Il costo totale ammonterà a 10.000.000 di sterline. Gli appaltatori, signori McNab e McHash, stimano di poter ultimare i lavori per l’aprile 1963. Tuttavia il signor McFee, nostro consulente, ci avverte che non possiamo sperare che i lavori siano in realtà compiuti prima dell’ottobre. Dello stesso avviso è il signor McHeap, famoso geofisico il quale asserisce che occorreranno lavori di puntello all’estremità sud dell’impianto. Il progetto relativo all’edificio principale si trova davanti agli occhi di lor signori – vedano l’appendice IX – e l’intera cianografia sta sul tavolo. Sarò ben lieto di dare altri chiarimenti ai signori membri di questa assemblea che ne facciano richiesta.”
Presidente: “ Ringrazio il signor McPhail per la lucida esposizione del progetto. Vogliano ora gli altri membri esporre il proprio punto di vista.”
A questo punto fermiamoci e consideriamo quali possano essere le opinioni dei vari membri. Supponiamo che siano undici, compreso il presidente ma escluso il segretario. Di questi undici membri quattro – compreso il presidente – non sanno che cosa sia un reattore. Degli altri otto, tre non sanno a cosa serve. Dei cinque che lo sanno, solo due hanno qualche idea del suo possibile costo. Uno di loro si chiama signor Isaacson, l’altro signor Brickworth. Ambedue sono in grado di intervenire. Supponiamo che parli per primo Isaacson.
Signor Isaacson: “Ebbene, signor presidente, vorrei poter nutrire maggior fiducia negli appaltatori e nel nostro consulente. Se ci fossimo subito rivolti al professor Levi, e se avessimo concesso l’appalto ai signori David e Golia, mi sarei sentito più tranquillo, circa questo progetto. Il signor Lyon-Daniels non ci avrebbe fatto perdere tempo cercando di indovinare quali saranno i possibili ritardi nel compimento del lavoro, ed il dottor Moses Bullrush ci avrebbe detto se occorrono davvero i lavori di puntello. ”
Presidente: “Certamente tutti apprezziamo la preoccupazione del signor Isaacson circa il compimento dei lavori nella maniera migliore possibile. Ritengo tuttavia che, essendo ormai ora tarda, non ci sia più tempo per chiedere il parere di altri consulenti tecnici. Certo, il contratto principale non è ancora stato firmato, ma già abbiamo speso considerevoli somme. Se non accettiamo il consiglio dei tecnici, che ci è costato del denaro, dovremo pagarne altrettanto.”
(Mormorio di approvazione degli altri membri)
Signor Isaacson: “Desidererei che il mio intervento fosse messo a verbale.”
Presidente: “Ma certo. Il signor Brickworth ha forse qualcosa da dire?”
Ora, il signor Brickworth è quasi l’unico a sapere di che cosa si stia parlando, e potrebbe dire molte cose. Intanto non lo convince quella cifra tonda, 10.000.000 di sterline. Perché proprio una somma così esatta? E poi chi è McHeap? Non è per caso quel tipo che fu citato in tribunale dalla Società Petrolifera Sciutti e Seccati? Ma questo Brickworth non sa da che parte cominciare. Se per caso citasse la cianografia, gli altri non capirebbero. Dovrebbe addirittura principiare spiegando cos’è un reattore e nessuno dei presenti ammetterebbe di non saperlo già. Meglio dunque non dire nulla.
Signor Brichworth: “Non ho osservazioni da fare.”
Presidente: “Nessun altro chiede la parola? Benissimo. Possiamo quindi concludere che progetti e preventivi restano approvati? Grazie. Posso quindi firmare a vostro nome il contratto principale? (Mormorio di assenso.) Grazie. Possiamo passare al punto numero dieci.”
Considerati anche i pochi secondi necessari per sfogliare le carte e per spiegare i diagrammi, per il punto numero nove son bastati due minuti e mezzo. La riunione procede bene. Ma qualcuno è preoccupato per ciò che riguarda il punto numero nove. Dentro di sé si sta chiedendo se ha davvero fatto sentire il proprio peso. Ormai è tardi per discutere ancora del reattore, ma costui vorrebbe, prima che finisca la riunione, dimostrare d’esser desto e attento alle cose che si dicono.
Presidente: “Punto numero dieci. Ripostiglio per biciclette ad uso impiegati. I signori Bodger e Woodworm ci inviano un preventivo, e si impegnano a fornirci il lavoro per la somma di 350 sterline. Lor signori possono vedere i progetti in tutti i particolari.”
Signor Soƒtleigh: “Io penso, signor presidente, che la somma sia eccessiva. Vedo che il tetto sarà d’alluminio. Non sarebbe meglio farlo di asbesto, che è meno caro?”
Signor Holdƒast: “Sono d’accordo con il signor Softleigh, per ciò che riguarda il costo, ma a mio avviso il tetto dovrebbe essere di ferro galvanizzato. Ritengo che l’intero ripostiglio si potrebbe avere per 300 sterline, o anche meno.”
Signor Daring: “Dirò di più, signor presidente. Mi chiedo se questo ripostiglio è veramente necessario. Mi sembra che noi già facciamo abbastanza a pro del nostro personale. Non sono mai contenti, questo il guaio. La prossima volta vorranno addirittura l’autorimessa.”
Signor Holdƒast: “No, non posso appoggiare l’intervento del signor Daring. Ritengo che il ripostiglio sia necessario. È solo questione di materiali e di costi…”
La discussione è ben avviata. E questo perché tutti comprendono cosa sono 350 sterline, tutti immaginano un ripostiglio per le biciclette. La discussione continua per quarantacinque minuti, col risultato, forse, di risparmiare 50 sterline. Ma alla fine tutti hanno la sensazione di aver lavorato sul serio.
Presidente: “Punto numero undici. Rinfreschi durante le riunioni della commissione per i rapporti con le maestranze. Un mese, 35 scellini.”
Signor Soƒtleigh: “Che genere di rinfreschi furon serviti nel caso specifico?”
Presidente: “Caffè, credo.”
Signor Holdƒast: “E questo fa una spesa annua di… vediamo… 21 sterline?”
Presidente: “Esatto.”
Signor Daring: “Ebbene signor presidente, mi chiedo se la spesa è giustificata. Ma quanto durano queste riunioni?”
Ora la discussione si fa anche più aspra. Magari nella commissione ci sono membri che non intendono la differenza fra l’asbesto e il ferro galvanizzato, ma cosa sia il caffè lo sanno tutti – cos’è, come va fatto, dove va comprato e se deve comprarsi. Questo punto all’ordine del giorno tiene occupati i membri per un’ora e un quarto, ed essi finiranno col chiedere al segretario altre informazioni, rinviando le decisioni alla prossima seduta.
Giustamente il lettore si chiederà a questo punto se su di una somma anche inferiore – diciamo 10, o anche 5 sterline – l’assemblea dei finanzieri trascorrerebbe un lasso di tempo maggiore e proporzionato. A questo proposito dobbiamo ammettere la nostra ignoranza. Possiamo tuttavia affermare, provvisoriamente, che deve esserci un punto in cui il processo si capovolge, giacché i membri dell’assemblea considerano la somma all’esame troppo esigua per essere presa in considerazione. Le ricerche non hanno ancora stabilito quale sia il punto che segna l’inizio del rovesciamento. Il distacco fra i due tempi di discussione, due minuti e mezzo per i 10.000.000 di sterline, un’ora e un quarto per 20 sterline, è veramente marcato. Sarebbe utile e interessante stabilire con esattezza il punto di caduta dell’interesse. Supponiamo che tale punto sia al livello delle 15 sterline: il tesoriere, ove abbia all’ordine del giorno un punto che interessi la somma di 26 sterline, potrebbe scinderlo in due, di cui uno di 14, 1’altro di 12 sterline, con evidente risparmio di tempo e di fatica.
Ripetiamo, la nostra conclusione è solo ipotetica e provvisoria, ma c’è motivo di supporre che il punto di caduta dell’interesse equivalga alla somma che i singoli membri della riunione son disposti a spendere per una scommessa o per una impresa benefica. Un’inchiesta orientata verso gli ippodromi e verso le chiese metodiste, ci consentirebbe di avviare a soluzione l’intero problema. Assai più difficile sarebbe stabilire il punto esatto in cui la somma discussa è troppo grande per poterne parlare. Pare tuttavia che 10.000.000 di sterline e 10 sterline implichino lo stesso esatto tempo di discussione. La nostra stima, due minuti e mezzo, non pretende di essere esatta, ma deve pur esserci un lasso di tempo – fra i due minuti e i quattro minuti e mezzo – che basta per discutere sulle due somme, la massima e la minima.
C’è ancora gran mole di ricerche da svolgere, ma i risultati finali, una volta raggiunti, saranno di immenso interesse e di valore immediato per il bene dell’umanità.
LA CAPANNA E LA FUORISERIE
cioè
LA FORMULA DEL SUCCESSO
Al lettore che si interessa di antropologia piacerà certo sapere che per certe ricerche dei giorni nostri sono occorsi metodi completamente nuovi. L’antropologo, di solito, trascorre sei settimane, o sei mesi (e finanche sei anni) in mezzo alla tribù dei Boreyu (questo è solo un esempio) stanziata lungo il corso del Teedyas superiore, nella regione di Darndreey. Poi ritorna nel mondo civile carico di fotografie, nastri magnetici, taccuini di appunti, ansioso di cominciare il suo libro sulla vita sessuale e sulla superstizione. La vita dei poveri Boreyu diventa insopportabile, proprio a causa di quell’esploratore ficcanaso. Spesso questi indigeni si convertono al cristianesimo ed entrano nella chiesa presbiteriana nella speranza che, dopo, gli antropologi smetteranno di occuparsi di loro. Ed infatti pare che questo accorgimento abbia sempre funzionato. Ma a disposizione della scienza resta ancora un numero ragguardevole di popoli primitivi, i libri continuano a moltiplicarsi, e quando l’ultima delle tribù africane avrà deciso, per sopravvivere, di intonare gli inni sacri, ci saran sempre i poveri dei tuguri. A costoro, oltre la miseria, tocca anche il tormento dell’inchiesta, della macchina fotografica, del dittafono. Tutti noi sappiamo i risultati – ancora libri – di queste inchieste. La novità di cui parlavamo non sta nella tecnica dell’inchiesta, ma nella scelta dell’ambiente su cui l’inchiesta si svolge. Gli antropologi di questa scuola – recentissima – ignorano sia i primitivi che i poveri. Preferiscono scegliersi il campo di lavoro nel mondo dei ricchi.
L’équipe di cui parleremo – ne fa parte anche l’autore di queste pagine – ha svolto una certa mole di studi preliminari sui grandi armatori greci, e in un secondo tempo ha studiato, con maggiore minuzia, i padroni degli oleodotti in Arabia. Poi, costretta ad abbandonare questi studi per ragioni politiche e d’altro genere, l’équipe fece una inchiesta fra i milionari cinesi di Singapore. Durante quell’inch’iesta abbiamo scoperto l’“Enigma dei Lacchè”, ed abbiamo sentito parlare per la prima volta della Barriera dei cani da guardia Cinesi. Nelle prime fasi della nostra ricerca nemmeno conoscevamo il significato di quei due termini. Non sapevamo neppure se per avventura fossero due espressioni per dire la stessa cosa. Possiamo dire, a nostro onore, d’aver seguito subito la prima traccia che ci si presentò.
Tale traccia ci apparve durante una visita al signor Hu Got Dow, nel suo palazzo di Singapore. Volgendosi allo scudiero che ci aveva mostrato la bellissima collezione di giade il dottor Meddleton esclamò: “Caspita! E dicono che agli inizi della sua carriera era un coolie” ” E l’enigmatico cinese rispose: “Solo un coolie può diventale licco. Solo un coolie somiglia a un coolie. Solo uomo molto licco può pelmettelsi somigliale coolie.” Su queste poche enigmatiche parole (di cui l’uomo non ci dette più alcuna spiegazione) si basò il nostro sistema di ricerca. I risultati del nostro lavoro sono raccolti nel Rapporto Meddleton-Snooperage (1956) ma nulla vieta di riesporli in forma più semplice al lettore ordinario. Eccone dunque un riassunto. Si sono di proposito evitati i particolari di carattere tecnico.
In una certa misura – lo scoprimmo Subito – il problema del coolie-milionario non è poi tanto complesso. Il coolie cinese vive in una capanna dal tetto dl Palma, e campa d`una ciotola di riso Quando assume un occupazione migliore – andare in giro a vendere noccioline, per esempio – campa ancora di riso ed abita in una capanna. Quando fa un ulteriore passo avanti – vende, mettiamo, pezzi di ricambio per biciclette, magari rubati – non abbandona tuttavia né la capanna ne il riso. Risultato: ha soldi da investire. Su dieci coolies siffatti, nove perderanno i loro risparmi in speculazioni sbagliate. Il decimo avrà maggiore astuzia o maggiore fortuna, rispetto agli altri. Ma tuttavia continuerà a vivere nella sua capanna e a mangiare il suo riso. È una tecnica quanto mai degna di studio.
Se pensiamo alla storia americana, la storia delle capanne di tronchi di legno, arriva presto il momento in cui il futuro miliardario deve mettersi la cravatta. Dirà, per giustificarsi che altrimenti non riesce a ispirare fiducia al prossimo. Deve anche trovarsi un alloggio migliore, per motivi (dice lui) di puro prestigio. In realtà la cravatta se la mette per far contenta la moglie, e si trasferisce in una casa nuova per soddisfare l’orgoglio di sua figlia. I cinesi controllano assai meglio le loro donne. Infatti il coolie arricchito si sposta dalla capanna, e dal riso. È cosa nota a tutti, e che si spiega in due modi. In primo luogo la sua casa (a parte ogni altro svantaggio) gli ha portato fortuna, innegabilmente. In secondo luogo una casa più bella finirebbe inevitabilmente per richiamare l’attenzione dell’agente delle tasse. Perciò il cinese, saggio, decide di restarvi. Continuerà a tenersi la vecchia capanna per Il resto della sua vita magari mettendoci l’ufficio. È così restio ad abbandonarla che un trasloco sta a indicare una crisi fondamentale nella sua vita.
Se fa il trasloco, ciò avviene per’ sfuggire alle vessazioni delle società segrete, dei ricattatori, delle bande. Nascondere la crescente ricchezza all’esattore delle tasse non è difficile; ma nasconderla ai soci d’affari è praticamente impossibile. Una volta diffusa la voce che egli se la passa bene, gli “amici” suoi calcoleranno minuziosamente la “stoccata” che gli si può dare. Queste cose le sanno tutti, ma gli studiosi del passato son giunti, con troppa facilità, alla conclusione che la somma in questione è una sola. In realtà son tre: la somma che la vittima pagherebbe quale riscatto, se rapito; la somma che pagherebbe per evitare un articolo diffamatorio sui giornali cinesi; la somma che pagherebbe quale elemosina per salvare la faccia.
Nostro compito è cercar di stabilire la somma numero uno, media, pagabile nel momento in cui avviene il trasloco dall’originaria capanna alla casa nuova, ben recinta e guardata da un cane alsaziano. Questo trasferimento si è chiamato “effrazione della barriera dei cani da guardia”. Gli studiosi di scienze sociali ritengono che questo debba avvenire appena il riscatto esigibile superi il costo massimo del rapimento.
Quasi contemporaneo al trasloco, per un cinese ricco, è l’acquisto di una Chevrolet o di una Packard. Ma capita spesso che l’acquisto preceda nel tempo il trasloco. Ecco il motivo della macchina fuori serie davanti alla porta di un ufficio sordido: uno spettacolo così comune che quasi nessuno ci fa più caso. Finora del fenomeno non si è data spiegazione esauriente. Ammessa – il che è lecito – la necessità dell’automobile, sarebbe legittimo attendersi che anch’essa partecipasse dello squallore generale. Ma per motivi non ancora ben chiariti, la ricchezza, in Cina, si misura anzitutto in termini di cromature, tappezzeria, marca, anno di fabbricazione. E la Packard implica, quasi subito, recinto di rete metallica, finestre con inferriate, rimessa chiusa a chiave e cani da guardia. È avvenuto un mutamento di carattere rivoluzionario. Il proprietario di cani alsaziani non giungerà magari al punto di pagare le tasse, ma almeno deve essere in grado di spiegare i motivi per cui non gli è mai venuto in saccoccia un reddito tassabile. Ed anche se scampa al pagamento di 100.000 dollari ai gangsters, difficilmente eviterà di pagare in qualche modo un qualche ricatto. Inevitabile che gli si presentino, cerimoniosi, dei giornalisti, i quali si vantano di aver sempre rifiutato di pubblicare articoli a lui ostili su fogli di dubbia fama. Inevitabile che la settimana dopo gli stessi giornalisti si ripresentino, questa volta a raccogliere fondi per una qualche nebulosa opera pia. Inevitabile che vengano a trovarlo certi dirigenti sindacali proponendogli di far qualcosa per alleviare le agitazioni, che altrimenti lederebbero i suoi interessi. Insomma deve rassegnarsi, e rinunciare a una parte dei suoi profitti.
Fra i nostri compiti c’era anche quello di raccogliere qualche notizia precisa circa la frase “cane alsaziano” nella carriera di un uomo d’affari cinese. In certo senso questa è stata la parte più difficile di tutta l’inchiesta. Certe cognizioni infatti si raggiungono solo a costo di pantaloni a brandelli e caviglie ingessate. Ripensandoci Ora, possiamo andare orgogliosi, perché, laddove i rischi erano inevitabili, li abbiamo affrontati con animo fermo. Non occorse invece alcun lavoro campestre per scoprire le somme effettive pagate per un riscatto. Tali cifre infatti son note al pubblico e spesso compaiono sulla stampa locale, e sembrano essere esatte. Interessa notare, a proposito di queste somme, lo scarto lieve fra la minima e la massima. Lo scarto è dai 5.000 ai 200.000 dollari. Mai somme troppo esigue (2.000 dollari, per esempio) mai somme troppo alte (per esempio 500.000 dollari). E non c’è dubbio che l’ambito della maggioranza di tali estorsioni è anche più ristretto. Ulteriori indagini varranno senza dubbio a stabilire quale possa considerarsi somma media.
Supponendo che l’estorsione minima sia rappresentata da una cifra bastevole a consentire un margine di profitto, è facile concludere che l’estorsione massima rappresenta tutto quel che si può levar di tasca all’uomo più ricco che mai sia stato catturato per ottenerne il riscatto. Però è evidente che i ricchissimi non hanno mai subito trattamenti simili. Sembra esserci un livello oltre il quale il cinese diventa immune da ricatto. Non solo: in quest’ultima fase il miliardario pare che, anziché nasconderla, ostenti la sua ricchezza, quasi a dimostrare pubblicamente che ha raggiunto il livello dell’immunità. Sinora gli scienziati della nostra équipe non son riusciti a scoprire in che modo si raggiunga questa definitiva immunità. Alcuni che cercavano di documentarsi sull’argomento son stati buttati fuori dal Circolo dei Miliardari. Ma poiché tale livello di immunità deve avere qualche rapporto col numero degli scudieri, degli aiutanti di campo, dei camerieri, dei segretari e dei valletti (a questo livello si esibisce tale massa di persone) i nostri scienziati han definito il problema “Enigma del Lacchè” e l’hanno messo da parte.
C’è motivo però di credere che questo problema non resterà la lungo insoluto. Intanto già sappiamo che, grosso modo, la soluzione va scelta fra due ipotesi, e non è escluso che noi possiamo accettarle ambedue. Qualcuno ritiene infatti che i lacchè siano in realtà uomini armati che formano una impenetrabile guardia del corpo. Altri sostengono che il miliardario si è comprato una società segreta al completo, contro la quale le altre bande mai oserebbero scendere in campo. Verificare la prima teoria – mediante un sequestro di persona ben organizzato – sarebbe relativamente facile: sacrificando un paio di vite si potrebbe stabilire, senza più ombra di dubbio, la verità dei fatti. Per l’altra teoria invece occorrerebbe più cervello e forse anche più coraggio. Giacché abbiamo avuto di già dei feriti da morso di cane fra i membri della nostra équipe, non ce la sentiamo più di proseguire in quella direzione. Non abbiamo più né gli uomini né i fondi necessari a ultimare l’inchiesta. Ma poiché di recente abbiamo avuto certi aiuti dalla Miss Plaste Trust (settore Estremo Oriente) non disperiamo di trovare, e presto, la risposta.
Anche dopo la pubblicazione del nostro rapporto interno resta un problema: diciamo piuttosto l’enigma dell’evasione fiscale in Cina. Siamo riusciti a scoprire soltanto che i metodi occidentali non sono molto usati. Come tutti sanno la tecnica occidentale per non pagare le tasse si basa sulla scoperta del ritardo medio (R.M., come diciamo noi) vigente nell’ufficio imposte con cui dobbiamo trattare. Per ritardo medio si intende, naturalmente, il tempo che intercorre fra il momento in cui una lettera arriva e quello in cui il personale addetto comincia ad occuparsene. Più esattamente potremmo dire che per R.M. si intende il tempo necessario perché una pratica salga dal fondo alla cima del suo mucchio. Supponiamo che l’R.M. sia pari a 27 giorni. In tal caso l’evasore fiscale occidentale inizia la sua campagna con una lettera in cui chiede perché non ha ancora ricevuto l’avviso di pagamento. Potrebbe anche dire una qualsiasi altra cosa, ciò non importa. Egli vuole soltanto che la sua pratica, col nuovo inserto, finisca in fondo al mucchio. Venticinque giorni dopo egli scrive ancora, chiedendo perché non ha avuto risposta alla prima lettera. Cosi la sua pratica, che stava per arrivare in cima al mucchio, ritorna in fondo. Dopo venticinque giorni scrive ancora… Cosi nessuno si occupa veramente della sua pratica, la quale non sale mai in evidenza. Poichè questo modo è noto a tutti, e tutti sappiamo che rende, concludemmo ovviamente che doveva esser noto anche in Cina. Invece scoprimmo che l’R.M. non esiste nei paesi orientali. A causa di certe variazioni di clima e di astemia gli uffici delle imposte orientali non hanno quel ritmo ordinato degli occidentali e quindi non è possibile prevederne il comportamento. Una cosa e certa. qualunque sia il metodo che usano i cinesi, esso non dipende da alcun R.M. noto.
Per questo problema – sia ben chiaro – non abbiamo una soluzione definitiva. Abbiamo solo un’ipotesi, sulla validità della quale sarebbe prematuro pronunciarsi. Tale ipotesi fu avanzata da uno dei membri più brillanti della nostra équipe, e si basa su una felice ma non documentata ispirazione. Secondo tale ipotesi il miliardario cinese non aspetta l’avviso di pagamento, ma preferisce mandare in anticipo, all’agente delle tasse, un assegno, diciamo, di 329,83 dollari. Aggiunge una lettera in cui parla della corrispondenza già intercorsa e di una somma già pagata in contanti. Scopo di questa mossa è guastare il meccanismo della tassazione. Al disordine succede il caos quando arriva una seconda lettera, in cui il miliardario si scusa dell’errore e chiede che gli vengano restituiti 23 centesimi. Tale è lo sbalordimento e la confusione dei funzionari che essi non danno alcuna risposta per circa diciotto mesi. Poi, prima che sia trascorso quel periodo di tempo, ricevono un altro assegno, questa volta di 167,42 dollari. ln questo modo, secondo l’ipotesi, il miliardario in sostanza non paga niente e l’ispettore addetto alle tasse finisce al manicomio. Anche se questa teoria non ha prove, mi sembra degna di attento esame. Per lo meno potremmo sperimentarla.
LA LEGGE DEL DECLINO
ossia
L’EDILIZIA BUROCRATICA
Chi studi le istituzioni umane sa qual è il criterio tipico per stabilire l’importanza di un individuo. Una formula semplice e valida per qualsiasi parte del mondo si può ricavare conoscendo il numero delle porte da passare, il numero delle segretarie, il numero delle centraliniste e lo spessore, in centimetri, dei tappeti. Non tutti però sanno che questa formula si può applicare, ma a rovescio, per calcolare l’importanza delle istituzioni.
Si prenda per esempio una casa editrice. Come tutti sanno gli editori hanno una forte tendenza a vivere nello squallore e nel caos. L’ospite che imbrocchi quello che a lui pare l’ingresso buono, viene spedito fuori, poi fa il giro del palazzo, imbocca un andito e sale tre piani di scale. Cosi un laboratorio di ricerche di solito sarà alloggiato al pianterreno di quella che una volta era una casa d’affitto: c’è un corridoio di legno pericolante che porta a una baracca col tetto di lamiera, sita là dove una volta era il giardino. E chi non conosce l’aspetto esteriore di un aeroporto internazionale? Appena sceso dall’aereo il viaggiatore scorge (a destra o a sinistra) un grosso edificio in costruzione, tutto circondato dalle impalcature dei muratori. Poi la hostess lo guida a una baracca col tetto di asbesto. E nessuno dubita per un attimo che le cose possano andare altrimenti. All’epoca in cui l’edificio è ultimato, l’aeroporto si sarà spostato in altro luogo.
Le istituzioni di cui abbiamo fatto parola, per quanto attive e produttive esse siano, vegetano in un ambiente così trasandato che sarà bene dedicare subito la nostra attenzione a un qualche altro istituto, che ci mostri, anche nell’aspetto esteriore, decoro e proprietà. Il portone d’ingresso, di bronzo e vetro, è posto al centro di una facciata simmetrica. Scarpe lustre scivolano su lucida gomma verso l’ascensore, scintillante e silenzioso. La centralinista, fornita d’una cultura eccezionale, sussurra qualcosa con labbra al carminio in una cornetta celeste-ghiaccio. Con un gesto della mano ti invita a sedere su di una poltrona cromata, e ti consola della breve, inevitabile attesa, con un sorriso abbagliante. Alzando gli occhi dalla rivista patinata, scopri che i vasti corridoi si irradiano verso le divisioni A, B e C. Da dietro le porte chiuse ti giunge alle orecchie il rumore di un’ordinata attività. Ancora un minuto e ti trovi, immerso fino alla caviglia nel tappeto direttoriale, avviato sicuro e tranquillo verso la lontana nitida scrivania. Ipnotizzato dallo sguardo fermo del capo, intimidito dal Matisse che pende dalla parete di fondo, tu senti di aver trovato, finalmente, l’efficienza, quella vera.
Ma invece non hai scoperto proprio nulla. Noi sappiamo ormai che la perfezione dell’ambiente esteriore è caratteristica di quelle istituzioni che son giunte sull’orlo dello sfacelo. Conclusione che può sembrare paradossale, ma che invece si basa su vastissime ricerche archeologiche e storiche in questa sede possiamo trascurar-e i particolari più complessi, e comprensibili solo agli iniziati. Il criterio generale di indagine è stato il seguente: scegliere e datare gli edifici che appaiono perfetti per gli scopi a cui eran destinati. Lo studio comparativo di tali edifici par dimostrare che la perfezione edilizia è sintomo di decadenza. Nei periodi di reale progresso, nei periodi delle grandi invenzioni non c’è tempo per progettare ambienti perfetti. C’è tempo dopo, quando le cose che contano sono ormai compiute. La perfezione, come tutti sanno, e definitiva, come la morte.
Il turista inesperto, sbalordito dinanzi alla mole di San Pietro, a Roma, penserà che la Basilica e il Vaticano sono la sede ideale del Papato, al vertice della sua potenza e del suo prestigio. Qui, pensa il turista ingenuo, Innocenzo III ha scagliato il fulmine del suo anatema. Qui Gregorio VII ha pensato le sue leggi. Ma basta un’occhiata alla guida per convincersi che i papi davvero potenti regnarono prima della costruzione della chiesa; e che alcuni di essi, addirittura, neppure governarono da Roma. Anzi, i papi persero metà del loro potere proprio mentre l’edificio era in costruzione. Giulio II, che decise di costruire, e Leone X, che approvò il progetto di Raffaello, erano morti da un pezzo quando l’edificio assunse la forma attuale. Il palazzo del Bramante era ancora in costruzione nel 1565, la grande chiesa fu consacrata solo nel 1626, il colonnato fu compiuto solo nel 1667. Prima ancora che i progetti fossero pronti, erano già finiti i grandi giorni del papato. Una volta compiuti i lavori, di quei giorni di gloria si era perduto anche il ricordo.
Facile dimostrare che di solito le cose vanno così. Vediamo la storia della Lega delle Nazioni. Dal 1920, anno della sua creazione, al 1930, tutti riposero grandi speranze in questa istituzione. Ma nel 1933 – forse anche prima – si capì che l’esperimento era fallito. Ma l’incarnazione fisica di esso, il Palazzo delle Nazioni, fu terminato solo nel 1937. Fu un edificio ammirevole: uffici, aule dl riunione, buvette, ogni cosa fu progettata con la massima attenzione. C’era tutto ciò che può escogitare l’ingegno umano: mancava solo la Lega delle Nazioni. Nell’anno in cui fu inaugurato il Palazzo, la Lega in pratica non esisteva più.
Qualcuno dirà che il Palazzo di Versailles sta a dimostrare l’opposto: l’apogeo della monarchia di Luigi XIV si incarna in quell’edificio. Invece, ammettendo che Versailles caratterizzi il trionfo dello spirito di quell’epoca, noi sappiamo che i lavori furon condotti a termine verso la fine del regno; alcuni addirittura dopo la morte del Re Sole. I lavori per Versailles durarono dal 1669 al 1685. Il re vi si trasferì solo nel 1682, ed i lavori non erano ancora finiti. La famosa camera reale ospitò un sovrano solo nel 1701, e la cappella fu ultimata nove anni dopo. Se lo consideriamo non come alloggio del re, ma come sede del governo, Versailles esiste sostanzialmente solo dal 1756. E la massima fioritura del regno di Luigi XIV sta prima del 1679: l’apogeo nel 1682, mentre verso il 1685 comincia la decadenza. Afferma uno storico che Luigi, entrando a Versailles, in sostanza “seppelliva la sua discendenza e la sua razza”. E un altro storico aggiunge: “L’edificio fu ultimato quando cominciava il declino della potenza regale.” Un terzo storico dà sostegno, pur senza dirlo, a questa ipotesi quando chiama gli anni fra il 1685 e il 1713 “anni di decadenza”. In altre parole sbaglia il turista il quale pensa che da Versailles siano partiti gli eserciti vittoriosi di Turenne. Più giusto sarebbe, storicamente parlando, immaginare in quelle sale l’imbarazzo dei messi che venivano ad annunziare la sconfitta di Blenheim: non avranno saputo su cosa alzare lo sguardo, i poveretti, in quel palazzo scintillante di emblemi di vittoria.
Il nome di Blenheim certamente inviterà a pensare al palazzo (si chiama cosi) costruito per il vincitore, il duca di Marlborough. Anche in questo caso siamo di fronte a un edificio perfetto, progettato per ospitare l’eroe nazionale negli anni della pensione. Cosi gigantesco, il palazzo è forse più sensazionale che comodo, tuttavia l’architetto è riuscito a esprimere quel che voleva. Difficile pensare ambiente che meglio di quello possa accogliere in sé una leggenda. Difficile pensare luogo più adatto per le riunioni di vecchi compagni d’arme, il giorno anniversario. Ma la gioia che proviamo a raffigurarci quella scena, ci vien guastata dal pensiero che essa non ci fu mai. Il duca non ha mai abitato in quel palazzo, e non lo ha nemmeno visto compiuto. Egli in realtà abitava a Holywell, presso St. Alban e (durante i soggiorni in città) a Marlborough House. Morì poi a Windsor Lodge e i vecchi compagni d’arme, quando si riunivano, amavano cenare sotto la tenda. A costruire Palazzo Blenheim occorse molto tempo, ma non per la complessità del progetto – che era, per unanime riconoscimento, complesso abbastanza. Occorsero molti anni perché il duca fu in disgrazia e per due anni addirittura in esilio, e proprio quando avrebbe potuto assistere al compimento dell’edificio.
E che dire della monarchia al cui servizio fu il duca di Marlborough? Allo stesso modo che oggi i turisti vagano, guida alla mano, per l’Orangerie e per la Galerie des Glaces, così i futuri archeologi un giorno andranno a curiosare in quella città che si chiamava Londra. Ebbene, quegli archeologi vedranno nelle rovine di Buckingham Palace la vera espressione della monarchia inglese. Rintracceranno il grande viale fra l’Arco dell’Ammiragliato e l’ingresso del palazzo. Ricostruiranno il cortile e la balconata centrale, pensando quanto doveva esser adatto quell’edificio a un sovrano il cui dominio si estendeva alle più remote parti del mondo. Anche un americano dei giorni nostri avrebbe voglia di scuotere il capo dinanzi all’alterigia di un Giorgio III, che ebbe una reggia cosi fastosa. Ma anche in questo caso ecco la verità: i monarchi davvero potenti abitarono tutti in edifici da tempo scomparsi, a Greenwich, o a Nonesuch, a Kenilworth o a Whitehall. Il costruttore di Palazzo Buckingham fu Giorgio IV, sul cui architetto di corte, John Nash, grava la responsabilità di quella che ai suoi tempi si definì “diffusa debolezza e trivialità del gusto”. Ma nemmeno Giorgio IV, il quale abitò a Carlton House o a Brighton, vide mai l’opera compiuta; e neanche Guglielmo IV, il quale pure diede ordine che si completasse. Fu la regina Vittoria la prima a stabilirvisi, nel 1837. Ed anche il suo entusiasmo per Palazzo Buckingham durò poco: suo marito preferiva di gran lunga Windsor, e lei dal canto suo scelse in seguito Balmoral, oppure Osborne, Se quindi vogliamo essere esatti, Palazzo Buckingham, coi suoi splendori, va associato a una fase recente e costituzionale della monarchia inglese. Risale insomma a un’epoca in cui tutto il potere era già passato nelle mani del Parlamento.
È giusto, a questo punto, chiedersi se il Palazzo di Westminster, dove si riunisce la Camera dei Comuni, sia vera espressione del governo parlamentare. Bisogna riconoscere che quell’edificio è progettato splendidamente, come sede di dibattiti, e provvisto di spazio a dovizia per ogni altra cosa – riunioni di comitati, studi tranquilli, rinfreschi, e tè (in terrazza). C’è tutto quel che possa desiderare chi fa le leggi, e tutto È: racchiuso in un edificio straordinariamente comodo e dignitoso. Dovrebbe quindi risalire – ma noi ormai già sappiamo che questo non è vero – all’epoca di massimo fiore del governo parlamentare. Anche in questo caso, naturalmente, la cronologia non vuole darci ragione. L’edificio originario, dove Pitt e Fox gareggiarono in valentia oratoria, fu distrutto da un incendio nel 1834. Pare che sia stato famoso e per la sua scomodità, e per l’alto livello dei dibattiti che vi si svolsero. L’edificio che oggi ammiriamo fu iniziato nel 1840, occupato – ma solo in parte – nel 1852; e nel 1860, quando mori l’architetto, era ancora incompleto. Prese l’aspetto che ha oggi verso il 1868. Ora (e non ci si venga più a dire che si tratta di coincidenze) il declino del nostro parlamento risale, senza dubbio, al Reform Act, che è del 1867. Con l’anno successivo tutte le iniziative di carattere legislativo passarono dal Parlamento al Gabinetto. Il prestigio che si collegava alle due fatidiche lettere, M.P., e cioè Membro del Parlamento, cominciò rapidamente a declinare. Da allora si può dire, al massimo, che “ ai singoli membri restava tuttavia un compito, per quanto umile fosse”. Eran finiti i giorni belli.
Lo stesso può dirsi dei vari ministeri, che acquistarono importanza man mano che ne perdeva il Parlamento. Fatte le debite ricerche, si è appurato che il Ministero per le Indie raggiunse il massimo della sua efficienza quando era sistemato a Palazzo Westminster, in un’ala di esso. Assai più indicativo il caso del Ministero delle Colonie, nei suoi recenti sviluppi. Infatti gli inglesi si conquistarono un impero mentre il ministero competente (ammesso che ci fosse) era alloggiato in edifici di fortuna, a Downing Street. E quando esso si spostò in palazzi appositi, era già iniziata una fase nuova della nostra politica coloniale. Si era nel 1875 e l’edificio pare progettato apposta per far da sfondo alla disastrosa guerra contro i Boeri. Il Ministero delle Colonie ebbe nuovo impulso di vita durante la seconda guerra mondiale. Spostandosi in una sede provvisoria e scomodissima, a Great Smith Street – sede che fu prestata dalla Chiesa d’Inghilterra e che alla origine doveva servire a tutt’altro scopo – la politica coloniale britannica iniziò una fase nuova, di attività illuminata. Tale fase terminerà con il completamento del nuovo edificio progettato sul posto del vecchio Ospedale di Westminster. Per fortuna i lavori non sono ancora cominciati.
Ma nella storia d’Inghilterra non c’è esempio più illuminante di quello che ci offre Nuova Delhi. In nessun altro luogo gli architetti britannici si son visti affidare l’incarico di progettare una capitale altrettanto grande, come centro di un paese altrettanto popoloso. L’intenzione di fondare Nuova Delhi fu annunziata al Durbar Imperiale del 1911; a quell’epoca Giorgio V era successore del Mogul sul trono che si era chiamato, un tempo, del Pavone. Sir Edwin Lutyens si accinse allora a disegnare i progetti della Versailles britannica, un complesso splendido nella concezione, minuzioso nei particolari, magistrale nell’elaborazione e di proporzioni eroiche. I vari stadi dei lavori corrispondono ad altrettanti passi all’indietro nella politica coloniale. La legge del 1909 era solo il preludio di quel che doveva venire dopo: l’attentato alla vita del viceré (1912), la Dichiarazione del 1917, il Rapporto Montagu-Chelmsford (1918) e la traduzione di esso in legge (1920). Lord Irwin si trasferì nel nuovo palazzo nell’anno 1929, l’anno in cui il Congresso Indiano chiedeva l’indipendenza, Fanno in cui si aprì la Conferenza della Tavola Rotonda, l’anno prima dell’inizio della campagna per la Disobbedienza Civile. Se non fosse per il timore di annoiare chi legge, potremmo seguire l’intera storia fino al giorno in cui gli inglesi finalmente se ne andarono. Risulterebbe che ad ogni tappa della ritirata si accompagno la realizzazione di un’altra trionfale impresa urbanistica. Il risultato finale altro non fu, grosso modo, che un mausoleo.
Il (declino dell’imperialismo britannico cominciò di fatto con le elezioni del 1906 e con la vittoria di ideologie liberali e semisocialiste. Non c’è quindi da sorprendersi se proprio “1906” troviamo scolpito in pietra imperitura, a significare la fine dei lavori, sul portale del Ministero della Guerra. Forse la battaglia di Waterloo fu diretta da qualche oscuro ufficetto ricavato nelle caserme della cavalleria. Invece gli sciagurati piani di attacco ai Dardanelli furono emanati da un ambiente quanto mai decoroso. Non può darsi che i complessi edifici del Pentagono, ad Arligton in Virginia, debbano significare qualcosa per chi li ha progettati? Sarebbe ingiusto, certo, cercare un rapporto logico fra il Pentagono e il Cimitero Nazionale, che sorgono vicinissimi. Ma è un argomento che andrebbe preso in considerazione.
Non è affatto certo che un lettore di questo capitolo (ove ne abbia il mezzo) possa prolungare la vita di un istituto morente togliendolo dalla sua bella sede. Tuttavia noi possiamo sperare di impedire che una determinata organizzazione si strangoli con le proprie mani, nascendo. Abbiamo sott’occhio numerosissimi «esempi di istituti che vengono al mondo con un apparato completo di dirigenti, consulenti, funzionari, per i quali tutti c’è un edificio progettato appositamente. L’esperienza dimostra che l’istituto morirà, soffocato dalla propria perfezione, incapace di mettere radici per mancanza di terreno, impossibilitato a crescere perché è nato già grande, inetto a dare frutti e perfino fiori. L’esperto, di fronte a un esempio di simile progettazione – si veda a questo proposito il palazzo delle Nazioni Unite – scuoterà tristemente il capo, stenderà un lenzuolo sopra il cadavere e in punta di piedi uscirà all’aria aperta.
INCOMPOSITE
ovvero
DELLA PARALISI PROGRESSIVA
Ovunque si trovano organizzazioni (di tipo amministrativo, commerciale, accademico) nelle quali i funzionari più alti in grado sono lenti e ottusi, quelli sotto di loro attivi solo nel farsi le scarpe l’uno con l’altro, mentre i giovani sono psicologicamente frustati o poco seri. Poco si tenta di fare, meno ancora si conclude. E di fronte a questo quadro così triste, l’osservatore è indotto a credere che i responsabili hanno fatto del loro meglio, hanno lottato contro le avversità ed infine si son dichiarati sconfitti. Ma i risultati di certe recenti inchieste dimostrano che non necessariamente c’è stata la sconfitta. In parecchie istituzioni moribonde da noi esaminate, lo stato finale di coma è un obiettivo perseguito e raggiunto dopo sforzi prolungati. Lo stato di coma è palesemente conseguenza di una malattia, ma di una malattia che in larga misura il paziente ha provocato da sé. Appena essa si manifesta, il paziente ne favorisce il progresso, ne aggrava le cause, ne accoglie i sintomi con gioia. È una malattia di inferiorità indotta, e si chiama incomposite. E una infermità più comune di quel che si crede, e la diagnosi di essa è più facile della terapia.
Il nostro studio della paralisi organizzativa comincia ovviamente dalla descrizione del corso della malattia, dai primi sintomi al coma finale. La seconda parte della nostra inchiesta riguarderà i sintomi e la diagnosi. Nella terza fase diremo qualcosa sui possibili rimedi, argomento su cui però non sappiamo nulla. E non è probabile che altre scoperte avvengano nel futuro immediato, perché in Inghilterra la ricerca medica è tradizionalmente contraria a che si parli troppo dell’argomento. Infatti ai medici inglesi di solito basta individuare i sintomi e stabilire le cause. I francesi invece cominciano col parlare della terapia, lasciando la diagnosi (se pure se ne occupano) a più tardi. Questa volta ci sentiamo in obbligo di accettare il metodo inglese, certamente più scientifico anche se non utile al paziente. Meglio viaggiare tranquilli che arrivare alla meta.
Il primo segno di pericolo si ha quando nella gerarchia organizzativa compare un individuo il quale combina in sé in alto grado incompetenza e gelosia. Queste due doti, ciascuna presa da sé, non hanno molto interesse, e quasi tutti le possediamo in certa misura. Ma quando le due doti raggiungono quel certo grado di concentrazione – secondo la formula I3 G5 – avviene una reazione chimica. I due elementi si fondono producendo una sostanza nuova, che si chiama “incomposia”. La presenza di questa sostanza si può dedurre dal comportamento di qualsiasi individuo il quale, non essendo riuscito a far nulla nel suo settore, cerca di continuo di ficcare il naso negli altri settori e di prendere il controllo dell’amministrazione centrale. Lo specialista, osservando questo singolare miscuglio di inefficienza e ambizione, scuoterà il capo, mormorando: “Incomposia primaria o idiopatica.” I sintomi, come vedremo, sono inequivocabili.
Il secondo stadio della malattia si raggiunge quando l’ individuo infetto assume il controllo, parziale o completo, dell’organizzazione centrale. Spesso a tale stadio si giunge senza passare attraverso l’infezione primaria, giacché l’individuo è entrato nell’organizzazione al secondo livello. L’affetto da incomposite si riconosce facilmente, a questo stadio, per la tenacia con cui si batte di continuo per buttar fuori tutti quelli più capaci di lui, ed anche per la resistenza alla nomina o alla promozione di chiunque in seguito possa dimostrarsi più capace di lui. Non osa dire: “Il signor Asterisco è troppo capace.” Dirà: “Asterisco? Capace, certo ma anche quadrato? Io preferirei Virgoletta.” Il nostro uomo non osa nemmeno dire: “Di fronte al signor Asterisco mi sento piccolo.” E perciò dice: “Il signor Virgoletta mi pare più sensato.” “Sensato” è una parola interessante, che, nella frase suddetta, sta a significare l’opposto di intelligente; indica infatti l’individuo che fa come han sempre fatto gli altri. Cosi il signor Virgoletta è promosso e il signor Asterisco si cerca un altro posto. In tal modo l’amministrazione centrale a poco a poco si riempie di gente più stupida del presidente, del direttore, dell’amministratore. Se a capo dell’organizzazione c’è un uomo di second’ordine, costui farà in modo che i suoi subordinati siano individui di terz’ordine; e questi a loro volta vorranno avere dei collaboratori di quart’ordine. Ci sarà insomma una vera e propria gara di stupidità, e alcuni addirittura faranno finta di essere più cretini di quello che sono veramente.
Al terzo e ultimo stadio della malattia si giunge quando non esiste più la menoma scintilla di intelligenza in tutta l’organizzazione, da capo a fondo. È lo stato di coma di cui si è parlato all’inizio. Quando si giunge a questo stadio l’istituzione è praticamente morta. Essa può anche restare in coma per venti anni di seguito, Può disintegrarsi a poco a poco, ma può anche dar segni di miglioramento. I casi di guarigione sono pochissimi. A qualcuno sembrerà impossibile che avvenga guarigione senza terapia. Invece tutto il processo è naturale e rassomiglia molto a un altro processo, quello per cui certi organismi viventi divengono man mano più resistenti a veleni che in condizioni normali sarebbero letali. È come se tutta l’organizzazione fosse stata spruzzata di D.D.T., un D.D.T. capace di eliminare le capacità che incontra sul proprio cammino. Per qualche tempo questo sistema raggiunge i risultati che si volevano raggiungere. Ma poi alcuni individui divengono immuni a quel D.D.T. Essi nascondono tale prerogativa dietro una maschera di stolido buonumore, e gli addetti alle operazioni di spruzzamento, quelli cioè che hanno il compito di eliminare i capaci, non riescono, per stupidità propria, a riconoscere l’individuo capace (e mascherato), quando ne incontrano uno. Così un individuo sveglio riesce a penetrare nelle difese esterne dell’organizzazione e comincia ad avanzare in direzione del vertice. Costui par che non combini mai nulla, parla sempre di golf, ridacchia, perde le carte, dimentica i nomi, ha una faccia in tutto simile a quella degli altri. Solo quando è arrivato in alto getta la maschera all’improvviso ed appare come un demone in una pantomima di fate. Gli alti dirigenti scoprono, con grandi urla di disperazione, che la capacità è riuscita a insinuarsi in mezzo a loro. Ma è troppo tardi e non c’è nulla da fare. Il male è fatto, la malattia indietreggia, ed è anche possibile, entro dieci anni, una guarigione completa. Sia detto tuttavia che son rari questi casi di guarigione spontanea. Molto più spesso la malattia percorre i tre stadi or ora descritti e diviene incurabile.
Abbiamo visto dunque che cos’è questa incomposite. Restano da esaminare i sintomi che la distinguono. Una cosa è descrivere il diffondersi dell’infezione in un caso clinico immaginario, ben classificato sin dal suo inizio. Altra cosa è invece entrare in una fabbrica, in una caserma, in un ufficio, in una università e riconoscere i sintomi a prima vista. Sappiamo come si comporta l’agente immobiliare quando va a visitare una casa in vendita per conto dell’acquirente. Prima o poi lo vedrete aprire una credenza, o prendere a calci lo zoccolo di una parete ed esclamare: “Casca a pezzi!” Quando invece agisce per conto del venditore fa sparire la chiave della credenza, mentre distrae l’attenzione del compratore mostrandogli il panorama. Allo stesso modo lo studioso di scienze politiche può riconoscere i sintomi dell’incomposite, anche nello stadio primario. Sosta, annusa, scuote il capo con aria saputa, ma in modo che sia subito palese che egli sa. Come fa a sapere? Come può dire che l’incomposite si è già insinuata in quell’organismo? Facile sarebbe la diagnosi se egli avesse sott’occhio la sorgente primaria dell’infezione. La cosa diviene impossibile quando il germe è invece in vacanza. La sua influenza va rintracciata. Va rintracciata soprattutto in certe osservazioni che fanno gli altri. Per esempio: “Sarebbe un errore, da parte nostra, azzardar troppo. Non possiamo competere con Ottimania. Qui da noi, in Mediocrizia, noi svolgiamo un’opera assai utile, facciamo fronte alle necessità del paese. Contentiamoci dunque.” Oppure: “Non possiamo pretendere d’essere al primo posto. Assurdo stare a sentire quel che raccontano quelli di Doddaffare. Come se fossero gente di Ottimania.” O ancora: “Certi nostri giovani son stati trasferiti in Ottimania, un paio lavorano a Doddaffare. Facciano loro, e buona fortuna. Buon pro gli faccia. Gli scambi di idee e di personale son cosa ottima, anche se, a dire il vero, quei pochi che ci hanno mandato da Ottimania non eran proprio di prim’ordine. A noi toccano solo gli scarti. Ma non bisogna lamentarsi. Quando e possibile, evitare sempre gli attriti. E modestamente nel nostro piccolo anche noi svolgiamo il nostro lavoro, e bene.”
Cosa significano queste battute? Significano, anzi dimostrano che a questi uomini si è posto un livello di rendimento troppo basso. Si chiede appunto un livello di rendimento basso, e se ne tollera anche uno inferiore. Le direttive di un capo di second’ordine destinate a funzionari di terz’ordine parlano solo di risultati minimi e di mezzi idonei. Non si vuole un maggior livello di competenza perché il capo non riuscirebbe a controllare un’organizzazione efficiente. A lettere d’oro, sulla porta di ingresso, si è scritto: “Terz’ordine, sempre.” Il principio dominante è quello. Bisogna tuttavia riconoscere che si ammette ancora l’esistenza di un secondo e di un prim’ordine. Resta infatti un barlume di colpevolezza, una lieve sensazione di disagio quando qualcuno nomina Ottimania. Colpevolezza e disagio che però non durano a lungo, perchè presto sopravviene il secondo stadio della malattia, quello che ci accingiamo a descrivere.
Il secondo stadio si riconosce da taluni sintomi fondamentali , e uno di essi è il Compiacimento. Essendo limitati gli obiettivi che si posero nella prima fase, tutti son stati ampiamente raggiunti. Con un bersaglio a dieci passi dalla bocca del fucile, il punteggio e stato alto. I dirigenti han fatto quel che dovevano fare, e ciò li riempie di soddisfazione. Hanno eseguito il proprio compito, e dimenticato che lo sforzo è stato esiguo, esiguo essendo il risultato. Essi si accorgono soltanto d’esserci riusciti, a differenza di quei bei tipi di Doddaffare. Sempre più essi si compiacciono del proprio operato, ed il compiacimento si manifesta in frasi come le seguenti: “Il capo è un uomo quadrato, e molto abile, a conoscerlo bene. Non parla mai troppo – non è il tipo – ma di rado sbaglia.” (Queste ultime parole possono esser dette giustamente di uno che non fa mai nulla.) Oppure: “Non ci convincono i tipi cosiddetti brillanti. Gente troppo abile, che può diventare pericolosa, perché sconvolge i sistemi usuali di lavoro, e tira sempre fuori progetti nuovi, mai sperimentati. Noi ci fidiamo solo del buon senso e della collaborazione, con ottimi risultati.” E infine: “Noi siamo orgogliosi della nostra mensa. Chissà come riesce il responsabile a farci mangiare così, ed a quel prezzo. È una fortuna avere un uomo simile! ”Si noti che questa frase vien pronunciata mentre siam tutti seduti a una tavola coperta da un foglio sporco di carta oleata, dinanzi a certa roba immangiabile e innominabile, coi brividi nella schiena, alla vista e all’odore di quello che voglion far passare per caffè. Bisogna dire che la mensa è assai più rivelatrice dell’ufficio in sé. Come per giudicare alla svelta di una casa si va a guardare il gabinetto (e si bada se c’è il rotolo della carta igienica), come per giudicare un ristorante si verifica in che condizioni è l’ampollino dell’olio, allo stesso modo si giudicano queste organizzazioni badando a come funziona la mensa. Se i muri sono marroni o verdi, se le tende sono rosse (oppure non esistono), se nella minestra c’è l’orzo (con o senza mosca), se nella lista ci son polpette o patate, e se i dirigenti si dichiarano soddisfatti di ogni cosa – ebbene, allora l’istituto è in pessime condizioni. Perché il compiacimento, in questo caso, è arrivato a un punto tale che i responsabili non distinguono più fra cibo e spazzatura. Siamo al livello in cui il compiacimento domina assoluto.
Il terzo ed ultimo stadio è quello in cui al compiacimento subentra l’apatia. I dirigenti non si vantano più della loro efficienza, confrontandosi con altri istituti. Anzi, hanno dimenticato che gli altri esistono. Non mangiano più alla mensa, si portano un panino da casa e seminano briciole sul piano della scrivania. Al quadro murale c’è il manifesto di un concerto avvenuto quattro anni or sono. Sulla porta del signor Brown c’è la targa del signor Smith. Sulla porta del signor Smith c’è scritto “Signor Robinson” con inchiostro sbiadito sopra un’etichetta per la spedizione dei bagagli. Al posto dei vetri rotti c’è un pezzo di cartone. L’interruttore della luce dà la scossa, lieve ma dolorosa. Dal soffitto crollano calcinacci e la tappezzeria fa la muffa alle pareti. L’ascensore non funziona e ‘il rubinetto dello spogliatoio non si apre più. Dal lucernario viene acqua, che ha riempito il secchio e trabocca. Dagli scantinati giunge il miagolio di un gatto affamato. L’ultimo stadio della malattia ha portato l’intera organizzazione al collasso. I sintomi della malattia in questa forma acuta sono così numerosi e palesi che l’esperto li scopre anche al telefono, senza bisogno di recarsi di persona in visita. Quando una voce stanca risponde: “Pronto!” (la più inutile delle risposte) l’esperto ha già sentito abbastanza. Dirà fra di sé: “Be”, stadio terziario. Non c’e più nulla da fare.” È troppo tardi per tentare una qualsiasi terapia. In pratica l’istituto è morto.
Abbiamo descritto la malattia vista dal di dentro e vista dal di fuori. Conosciamo l’origine, gli sviluppi, i risultati dell’infezione ed anche i sintomi che ci avvertono della sua presenza. I medici inglesi di rado procedono oltre nella loro ricerca. Una volta che la malattia è identificata, descritta, il medico inglese si ritiene soddisfatto e si accinge a studiare un altro problema. Se gli chiedete quale può essere la cura, egli alza gli occhi sbalordito e suggerisce la penicillina, preceduta o seguita dall’estrazione completa dei denti del malato. Si capisce subito che tale aspetto della questione non gli interessa. Dobbiamo comportarci come lui? Oppure, in quanto studiosi di scienze politiche, considerare se e cosa si possa fare? Certo, sarebbe prematuro discutere nei particolari una possibile terapia, ma sarebbe anche utile indicare le linee generali che possono avviare ad una soluzione. Possiamo almeno esporre alcuni principi. Il primo è questo: un’istituzione ammalata non può cambiarsi da sé. Vi sono esempi, come già abbiamo detto, di malattie guarite senza cura alcuna, malattie che erano comparse senza alcun sintomo. Ma questi son casi rari che lo specialista considera anormali e in fondo nocivi. La cura, qualunque essa sia, deve venire dall’esterno. Un ammalato potrebbe anche dopo l’anestesia locale, operarsi da sé l’appendicite, ma questa è una pratica che molti considerano errata e contro la quale hanno molto da obiettare. Altre operazioni si prestano ancor meno all’abilità manuale del paziente Quando la malattia è in stadio avanzato bisogna ricorrere a uno specialista e in qualche caso addirittura alla massima autorità vivente, cioè a Parkinson. Certo, gli onorari sono altissimi, ma in un caso del genere non ci si può arrestare di fronte alla spesa, perché e questione di vita o di morte.
Il secondo principio potrebbe enunciarsi così: lo stadio primario della malattia si può curare mediante semplici iniezioni; per lo stadio secondario può giovare, in qualche caso, l’intervento chirurgico; lo stadio terziario infine deve considerarsi, almeno per il momento, incurabile. C’è stata una epoca in cui i medici ragionavano sempre di pozioni e di pillole, che ormai però son fuori moda, seguì un’epoca in cui essi parlavano – in termini assai più vaghi – di psicologia; ma anche questa usanza è ormai fuori moda, perché quasi tutti gli psicanalisti si son riconosciuti pazzi. La nostra è un’epoca di iniezioni e di incisioni è quindi necessario che lo studioso di scienze politiche si tenga al passo con gli sviluppi della medicina. Dinanzi a un caso di infezione primaria bisogna subito preparare la siringa, preoccupandoci solo di sapere cosa metterci dentro, oltre l’acqua. In linea di principio la siringa dovrebbe contenere una qualche sostanza attiva: ma dove dobbiamo prenderla? Ci sarebbe una cura del tipo “o la va o la spacca”: mettere nella siringa un’alta dose di Intolleranza, ma questa è una medicina difficile da trovare e troppo drastica. L’intolleranza si trova nelle vene dei sergenti maggiori ed è composta di due elementi chimici, cioè: L’ottimo non è buono abbastanza, e non si accettano scuse in nessun caso. L’ individuo intollerante, iniettato nell’ istituzione ammalata, ha un effetto tonico e può anche spingere l’organismo a ribellarsi contro il germe infettivo. La cura è buona certamente, ma non altrettanto certamente essa è definitiva. Non sappiamo cioè se la sostanza infetta sarà davvero espulsa dal sistema. Le cognizioni che abbiamo ci farebbero credere che in prima istanza la cura è solo palliativa, e la malattia rimane, latente seppur inattiva. Talune autorità ritengono che la cura sarebbe completa con successive iniezioni, ma altre autorità temono che una terapia continuata provocherebbe nuove irritazioni, quasi pericolose quanto la malattia originaria. L’intolleranza perciò è un medicamento da usare con cautela.
C’è un’altra medicina, alquanto più tenue, e si chiama Ridicolo, ma è malsicura, instabile, poco nota nei suoi effetti. Non c’è motivo di temere che una iniezione di Ridicolo possa causare danni allo organismo, ma non è nemmeno certo che essa abbia effetti curativi. ln genere si ritiene che gli individui affetti da incomposite hanno uno spesso strato di pelle e quindi sono insensibili al ridicolo. Può anche darsi che il ridicolo tenda a isolare l’infezione: questo e il massimo che si possa sperare, e finora nessuno ha attribuito al medicamento tanto valore.
Diremo infine che un terzo farmaco, la Punizione – facile a ritrovarsi – e stato sperimentato in casi del genere con qualche effetto. Ma anche qui si presentano certe difficoltà. Questo farmaco dà uno stimolo immediato, ma può anche produrre un risultato diametralmente opposto a quello che si prefiggeva lo specialista. Dopo un momentaneo spasmo d attività, il malato di incomposite ricadrà in uno stato di passività anche maggiore, diventando un pericoloso focolaio di infezione. Se la punizione entrerà nell’uso, vi dovrà entrare come elemento in un preparato che contenga anche intolleranza e ridicolo, e forse altre medicine finora mai sperimentate. Aggiungeremo che questo preparato non esiste ancora.
Riteniamo che al secondo stadio la malattia possa guarirsi con intervento chirurgico. Il lettore che se ne intende avrà certo sentito parlare del Sacco Nuciforme e dei lavori per cui va giustamente famoso il professor Tagliapanza. L’operazione che l’illustre chirurgo ha compiuto per primo consiste, semplicemente, nella rimozione delle parti infette e nella introduzione simultanea di sangue nuovo tratto da un organismo simile. Tale operazione ha avuto a volte successo. Bisogna però aggiungere che in altri casi e fallita, perché essa dà al sistema un urto troppo grave. In qualche caso è impossibile trovare sangue nuovo e può anche darsi che, una volta trovato, esso rifiuti di combinarsi con quello vecchio. D’altro canto questo sistema drastico offre senza dubbio le migliori speranze di guarigione completa.
Al terzo stadio non possiamo fare più nulla. La istituzione è in pratica morta. La si può fondare da capo, ma solo dopo averle cambiato nome, sito e personale. A quelli che badano all’economia verrà la voglia di trapiantare nell’istituzione nuova una parte della vecchia, magari il nome della tradizione. Il trapianto sarebbe mortale, e la tradizione e proprio ciò che bisogna evitare. Non c’è più parte del vecchio organismo ammalato che possa considerarsi immune da infezione. Non bisogna spostare dal luogo originario né il personale, né le attrezzature, né le tradizioni. Occorre una disinfezione completa seguita da un periodo di rigorosa quarantena. Il personale infetto va spedito, con referenze lusinghiere, alle istituzioni concorrenti che si considerino a noi particolarmente ostili. Attrezzature e archivi vanno distrutti senza esitare. In quanto agli edifici, la cosa migliore è contrarre una forte assicurazione e poi farli saltare in aria. Solo quando al posto dell’istituto ci sarà un ammasso di macerie nerastre potremo esser certi che i germi della malattia sono morti.
L’ETÀ DELLA PENSIONE
ovverossia
IL COEFFICIENTE DANZIANITÀ
Fra i molteplici problemi affrontati e risolti in quest’opera, è giusto lasciare per ultimo quello della pensione. Numerose commissioni d’inchiesta hanno studiato il problema, e ci hanno esposto un certo numero di dati tutti però disperatamente contraddittori; mentre i risultati finali sono stati confusi, vaghi e inconcludenti. L’età della pensione è fissata, a seconda dei casi, fra i 55 e i 75 anni con criteri arbitrari e poco scientifici. Qualunque sia l’età della pensione, fissata o a casaccio o secondo una qualche tradizione, è facile poi difenderla, usando sempre le medesime argomentazioni. Nel caso che l’età della pensione sia stabilita ai 65 anni, l’esperienza avrà insegnato che la capacità e l’energia del pensionando cominciano a decadere verso i 62. Sarebbe questa un’utilissima scoperta; purtroppo un fenomeno identico si è osservato in quelle organizzazioni che mandano a riposo i propri dipendenti a 60 anni. Costoro, così ci dicono, cominciano a mollare verso i 57. E ancora: chi deve andare in pensione a 55 anni comincia a non rendere più quando compie i 52. Parrebbe insomma che l’efficienza venga meno alla età di P-3, qualunque sia il valore di P. Il fatto in sé è interessante, ma non ci serve, se dobbiamo stabilire quale dev’essere il valore di P.
Ma se la formula P-3 non ci serve direttamente, può servire invece a stabilire che le indagini sinora svolte erano mal orientate. La vecchia osservazione, secondo la quale certi uomini son vecchi a 50 anni, altri invece ancora in gamba a 80 o 90, può anche esser giusta, ma non ci serve a niente. La verità è che l’età della pensione non deve tenersi in alcun rapporto con l’uomo che stiamo considerando. Bisogna invece badare a un altro uomo, cioè a quello che prenderà il suo posto. Quest’uomo (chiamiamolo Y), destinato a prendere il posto del primo (X) quando costui va ‘in pensione, percorrerà le seguenti fasi, nella sua carriera:
1) |
Età dell’abilitazione |
(A) |
|
|
2) |
Età della discrezione |
(D) |
= |
A + 3 |
3) |
Età della promozione |
(P) |
= |
D + 7 |
4) |
Età della responsabilità |
(R) |
= |
P + 5 |
5) |
Età dell’autorità |
(AA) |
= |
R + 3 |
6) |
Età della realizzazione |
(RR) |
= |
AA + 7 |
7) |
Età della distinzione |
(DD) |
= |
RR + 9 |
8) |
Età della dignità |
(DDD) |
= |
DD + 6 |
9) |
Età della saggezza |
(S) |
= |
DDD + 3 |
10) |
Età dell’ostruzione |
(O) |
= |
S + 7 |
La scala suesposta dipende dal valore numerico di A. Questo A è un termine tecnico. Non significa che un individuo, giunto in A, sappia alcunché delle cose di cui deve occuparsi. Gli architetti, per esempio, superano un certo esame, ma di rado a quel livello (e spesso a qualsiasi livello) sanno fare alcunché di utile. Il termine A indica l’età in cui inizia la carriera di un professionista, o di un uomo d’affari, di solito dopo un complesso periodo di addestramento che è stato fruttuoso solo a quelli che vengon pagati per organizzarlo. Il lettore vedrà che se A = 22, ‘il signor X giungerà in O (cioè nella fase finale, quella dell’ostruzione) a 72 anni. Per quanto riguarda la sua efficienza, non c`è motivo valido per sostituirlo fino a quando non sia giunto ai 71. Ma a noi, come si è detto, non interessa il comportamento di X, bensì quello di Y, il suo successore. In che rapporto stanno le rispettive età di X e di Y? O più precisamente, quanti anni avrà X quando Y sarà assunto nel ministero o nella ditta?
A questo problema si è dedicata attenta e lunga considerazione. Le nostre ricerche parrebbero dimostrare che lo scarto di età fra X ed Y è 15 anni esatti. (Di solito non accade che al padre succeda direttamente il figlio.) Se prendiamo questo scarto medio di 15 anni, e se presupponiamo A = 22, troveremo che Y avrà raggiunto RR (cioè l’età della realizzazione) a 47 anni, quando X ne ha 62. Ed è proprio a questo punto che avviene la crisi. Infatti Y, intralciato nei suoi propositi ambiziosi dal fatto che X controlla ancora la situazione, passa – fatto ormai provato – in una serie di stadi diversi da quelli descritti. Essi sono i seguenti:
6) |
Età della frustrazione |
(F) |
= |
AA + 7 |
7) |
Età della gelosia |
(G) |
= |
F + 4 |
8) |
Età della rassegnazione |
(R) |
= |
G + 9 |
9) |
Età dell’oblio |
(O) |
= |
R+5 |
Cosi quando X avrà raggiunto i 72 anni, Y ne avrà 57, e starà per entrare nell’età della rassegnazione. Se X va in pensione a quell’età, Y non è in grado di prendere il suo posto, poiché è rassegnato (dopo un decennio di frustrazione e di gelosia) a una carriera mediocre. Insomma per Y la buona occasione si presenta con dieci anni di ritardo.
L’età della frustrazione non sarà sempre la stessa, giacché dipende dal fattore A; i sintomi tuttavia son facili da riconoscersi. L’uomo a cui si nega la possibilità di prendere decisioni importanti, comincia a considerare importanti le decisioni che gli lasciano prendere. Diventa pignolo sulla tenuta dell’archivio, attento a che le matite abbiano la punta, preoccupato che le finestre siano aperte (o chiuse), capace di usare due o tre diversi colori d’inchiostro. L’età della gelosia si rivela per il fatto che il Nostro tende a vantarsi della propria anzianità. “Dopo tutto, sono ancora qualcuno,” oppure: “Non mi hanno mai chiesto un parere,” o ancora: “Il Tale non ha grande esperienza.” Ma a questa fase segue quella della rassegnazione: “Io non sono fatto come certi ambiziosi, ”ovvero: “E venga anche Caio in commissione: un altro fastidio che si poteva evitare, credete a me,” o ancora: “Meglio così; se mi avessero promosso, addio tempo libero per giocare a golf.” Qualcuno sostiene che l’età della frustrazione ha per sintomo anche uno spiccato interesse per i fatti politici locali. Ma noi sappiamo invece che questo è sintomo di un’altra malattia; matrimonio mal riuscito. Da questi sintomi, e dagli altri che abbiamo descritto, appar chiaro che l’uomo il quale a 47 anni sia ancora in posizione subordinata, non servirà più a nulla.
Il problema, mi par chiaro, e di fare in modo che X vada in pensione all’età di 60: cioè quando è capace di fare il suo lavoro meglio di chiunque altro. Tale brusco mutamento può essere negativo, ma in caso contrario c’è il rischio di non avere un uomo capace di succedere a X quando costui va in pensione. E quanto più bravo è stato X, quanto più lunga la sua carriera, tanto più disperata la possibilità di trovargli un rimpiazzo. Quelli che hanno un’anzianità di poco inferiore alla sua, sono già troppo vecchi e per troppo tempo son rimasti in posizione subordinata. Essi posson servire solo a sbarrare la strada ai più giovani; compito che certamente svolgeranno da par loro. Per anni non verrà fuori un successore degno, forse non verrà fuori mai, a meno che una crisi repentina abbia. portato alla ribalta un capo nuovo. Cosi bisogna prendere quella grave decisione. Se X non va in pensione presto, tutta l’organizzazione finirà per soffrirne. Ma come si può rimuovere X?
Per far questo (ma anche per molte altre cose) ci viene in soccorso la scienza moderna. Superati ormai i grossolani metodi del passato. Un tempo gli altri dirigenti parlavano a voce bassa, durante le riunioni, in modo da non farsi sentire; qualcuno addirittura apriva e chiudeva la bocca soltanto, mentre gli altri annuivano, così che il presidente doveva convincersi d’essere completamente sordo. Ma c’è una tecnica moderna più efficace e più sicura: si basa sui viaggi in aereo e sulla compilazione dei moduli. Viaggi e moduli, somministrati nella giusta dose, indurranno il dirigente a dimettersi. Certe tribù primitive africane usavano liquidare il re, o comunque il capo, a un certo punto della sua carriera, cioè Q dopo un numero prestabilito di anni, ovvero quando egli cominciava a dar segni di decadenza. La tecnica odierna la possiamo descrivere così: si presenta al grand’uomo un programma di congressi. Uno a Helsinki in giugno, l’altro ad Adelaide in luglio, un altro ancora a Ottawa in agosto: fra un congresso e l’altro tre settimane circa. Gli si fa notare che il prestigio del ministero o della ditta dipende dalla sua presenza in quei luoghi, e che i partecipanti si offenderebbero se egli delegasse qualcun altro a rappresentarlo. Il programma dei viaggi aerei, del resto, gli consente di tornare in ufficio per tre o quattro giorni, fra un congresso e l’altro. Ed ogni volta egli troverà ‘il cestino delle pratiche in arrivo ben colmo di moduli da riempire. Alcuni di questi moduli riguardano i viaggi, altri si riferiscono a richieste di permessi, altri ancora portano l’intestazione “tassa sul reddito”. Riempiti i moduli che aspettavano la sua firma dopo il congresso di Ottawa, subito gli sarà dato il programma di una nuova serie di congressi; uno a Manila in settembre, un altro al Messico in ottobre, un terzo a Quebec in novembre. Il Nostro ammetterà, verso dicembre, che è tempo per lui di andare in pensione. In gennaio lo annunzierà pubblicamente.
In sostanza questa tecnica si basa sull’organizzazione dei congressi in luoghi il più possibile distanti, e con la massima possibile variazione dal clima caldo a quello freddo. Bisogna assolutamente evitare qualsiasi tranquillo viaggio via mare. Aereo soltanto, sempre. Non conta quale sia la rotta, giacché tutte le rotte sono organizzate in vista delle necessità postali, e non di quelle dei passeggeri. Non c’è bisogno di indagini per sapere che, con ogni certezza, ogni volo implicherà la partenza alle 2,50 del mattino: necessario quindi presentarsi all’aeroporto alla 1,30. L’arrivo, così dire l’orario, è previsto per le 3,10 antimeridiane del giorno successivo. Invariabilmente l’aereo giungerà in ritardo, e toccherà terra, di fatto, alle 3,57. Cosi i passeggeri avran terminato di sbrigare le pratiche doganali verso le 4,35. Poiché il viaggio si svolge in una sola direzione, attorno al mondo, è tutt’altro che impossibile che il viaggiatore faccia colazione tre volte. Viaggiando invece nella direzione opposta, il passeggero resterà senza cibo per ore e ore, e si vedrà offrire un bicchierino di sherry proprio quando sta per crollare dallo sfinimento. Gran parte delle ore di viaggio saranno naturalmente occupate dalla compilazione di moduli, circa la valuta e circa le condizioni di salute del passeggero. Che somma si porta dietro, in dollari (USA), sterline, franchi, marchi, fiorini, yen, lire italiane, sterline (australiane); quanto in lettere di credito, quanto in travellers’ cheques, quanto in francobolli, quanto in vaglia postali. Dove ha dormito la notte scorsa, e dove la notte precedente a quella? (Questa È: una domanda facile, perché il viaggiatore d’aereo può in buona fede dichiarare che per una settimana non ha dormito affatto.) Quando è nato e qual è il nome di sua nonna, da ragazza? Quanti figli ha, e perché? Quanto durerà il soggiorno? Dove sarà alloggiato? Qual è lo scopo della sua visita? (C’è uno scopo? Il viaggiatore ormai può anche averlo dimenticato.) Ha avuto la varicella, e in caso negativo perché? Ha il visto per la Patagonia e il permesso di rientro via Hong Kong? Le dichiarazioni false saranno punite con l’ergastolo. Prego allacciare le cinture. Stiamo per atterrare sul campo di Rangoon. Ora locale 2,47 antimeridiane. Temperatura esterna 110° F. Ci fermeremo a Rangoon per un’ora circa. La colazione sarà servita a bordo cinque ore dopo la partenza. Grazie (Dio, di cosa?). Vietato fumare.
Il lettore avrà già capito che il viaggio in aereo, considerato come stimolo al ritiro in pensione, comprende una buona dose di moduli da compilare. Ma tale compilazione costituisce di per sé una prova, non necessariamente connessa col viaggio. L’arte di redigere i moduli da riempire si basa su tre elementi: oscurità, carenza di spazio, gravità delle minacce di ammenda per i trasgressori e gli incapaci. Nell`ufficio che redige i moduli, all’oscurità provvedono vari competenti, dei quali uno bada all’ambiguità, uno all’inutilità, un altro al gergo. Certi espedienti più semplici hanno ormai carattere di automatismo. Prediletta, come mossa iniziale, è quella dello spazio bianco, a destra in alto, su cui sta scritto
Riferimento relativo mese di …
Poiché il modulo è giunto il 16 febbraio, nessuno sa se esso si riferisce al mese scorso, a quello in corso o al prossimo. Lo sa solo chi ha mandato il modulo, ma a lui non si può chiedere l’informazione, perché solo lui ha il diritto di far domande. A questo punto interviene l’esperto in ambiguità, il quale ha chiesto prima il parere al consulente sullo spazio, anzi, sulla carenza di spazio. Ed ecco cosa ne vien fuori:
Cancellare la parola che non interessa
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Nome completo
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Indirizzo
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Domicilio
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Anno e
Motivo della naturalizzazione
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Status
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Sig.
Sig.ra
Sìg.na
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Questo modulo è fatto apposta, naturalmente, per un tale che si chiami Colonnello, oppure Lord, oppure dottore Alexander Winthrop Percival Blenkishop-Fotheringay of Battleaxe Towers, Layer-dela-Haye, presso Newcastle-under-Lyme, provincia di Kesteven, Lancashire (ammesso che queste parole abbiano un significato). Accanto a “indirizzo” figura la parola “domicilio”, che può avere un significato solo per un esperto di diritto internazionale; poi viene quel misterioso accenno alla naturalizzazione. Infine la parola “status” dinanzi alla quale il compilatore si chiede se deve mettere “ammiraglio in pensione”, oppure “sposato”, oppure “cittadino americano”, oppure “direttore generale”.
All’esperto in ambiguità succede ora lo specialista in inutilità, il quale chiede il parere del consulente sullo spazio. Ed ecco cosa mettono insieme:
Numero della carta d’identità o del passaporto
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Nome completo del nonno
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Nome completo della nonna da ragazza
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Se vaccinato quando e perchè
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Altri particolari
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N.B. – La pena per le dichiarazioni false è fissata in 5.000 sterline oppure un anno di prigione, o anche l’uno e l’altro
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Il capolavoro, ormai quasi ultimato, passa allo specialista di gergo, il quale redige quanto segue:
Quali circostanze speciali (253) si adducano per giustificare l’assegnazione convenuta per cui si sia fatta richiesta relativa al periodo a cui si riferisce la precedente domanda (143), prescindendo dalla revisione della precedente quota, e in che senso ed a che fine e se l’attuale o una qualsiasi precedente domanda inoltrata da ogni e qualsiasi altra persona o persone sia stata respinta da qualsivoglia autorità della sottosezione VII (35) o per qualsivoglia altro motivo, indipendentemente da un eventuale ricorso contro detta decisione, di cui si esporrà motivo e risultato. |
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Infine il modulo passa al tecnico che vi aggiunge lo spazio per la firma, cioè il fastigio che corona l’opera:
Io / noi (maiuscolo stampatello) ……………………………………………………………
Dichiaro/iamo sotto mia/nostra responsabilità che le informazioni da me/noi fornite qua sopra sono, per mia/nostra conoscenza, vere, come testimonia la mia/nostra firma apposta addì …………………. del mese di ………… 19 …………
(Firma) ……………………………………………………..
TESTIMONE
Timbro ……………………………………
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nome …………………………….
indirizzo ………………………..
occupazione ………………….
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Fotografia formato passaporto
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Impronta digitale indice
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Quest’ultima parte potrebbe sembrare chiara, se non fosse per un ultimo motivo di incertezza: di chi si richiede la fotografia e l’impronta digitale? Di me/noi o del testimone? Tuttavia questo forse non importa.
Le esperienze sinora fatte dimostrano che un funzionario anziano che occupi un posto di responsabilità, è costretto a dimettersi dopo un congruo numero di moduli da riempire e di viaggi in aereo. Ci sono anche esempi di funzionari che decidono di andare in pensione prima ancora che sia cominciata la cura. Basta parlar loro di un congresso a Stoccolma o a Vancouver, ed essi comprendono che è giunta l’ora. Ai giorni nostri quasi mai occorre adottare metodi drastici. L’ultimo caso di cui si abbia memoria risale all’immediato dopoguerra. Il funzionario in questione era individuo particolarmente robusto, e si dovette ricorrere a un lungo giro, in visita a miniere di stagno e a piantagioni di gomma in Malacca. Tale metodo funziona meglio nel mese di gennaio, e su aerei a reazione, in modo che lo scarto climatico sia più netto. Sceso dall’aereo alle 5,52 (ora di Malacca) il funzionario fu subito trascinato a un cocktail party, poi a un altro ricevimento, che si tenne in una casa distante quindici miglia dall’albergo dove era avvenuto il primo, indi a una cena (altro viaggio di undici miglia, ma in direzione opposta). Andò a letto alle 2,30 del mattino, poi fu a bordo dell’aereo alle 7. Atterrò a Ipoh giusto in tempo per far colazione, poi fu condotto a visitare due piantagioni di gomma, una miniera di stagno, una piantagione di palme da olio e una fabbrica di ananas in scatola. Dopo il pranzo, offerto al Rotary Club, fu condotto a visitare una scuola, una clinica, e un centro comunitario. Seguirono due cocktail party, un banchetto cinese di venti portate, con numerosi brindisi a base di acquavite, servita dentro bicchieroni da acqua. Le discussioni aziendali cominciarono la mattina dopo e proseguirono per tre giorni: fra una riunione e l’altra ricevimenti e banchetti alla maniera indiana e di Sumatra. Al quinto giorno tutti videro che la cura era stata troppo drastica: quel pomeriggio infatti l’illustre ospite riusciva a stare in piedi solo se sostenuto dalla segretaria, a destra, e dal cameriere privato, a sinistra. Al sesto giorno mori, dando conferma alla diffusa opinione secondo la quale egli doveva essere ammalato o stanco. Oggi si sconsigliano metodi siffatti. anche perché non occorrono più. Infatti ormai la gente ha imparato ad andarsene in pensione quando è il momento.
Resta tuttavia un grave problema. Cosa faremo, personalmente, quando si avvicinerà per noi l’età della pensione, già indicata per il nostro prossimo? Il lettore intenderà subito che il caso nostro personale è completamente diverso da tutti quelli sinora considerati. Noi non diremo mai d’essere in alcun modo indispensabili, ma il fatto sta che non si è ancora delineato un possibile successore. Con sincera riluttanza accettiamo di rinviare di qualche anno il ritiro in pensione, e solo per l’interesse del pubblico. E quando un nostro dipendente si presenterà con un programma di congressi a Teheran o a Hobart, noi ci affretteremo a buttar via quel foglio di carta e ad avvertire che i congressi sono tempo perso. “E poi,” continueremo con bonomia, “ho già preso i miei impegni. Nei prossimi due mesi andrò a pesca di salmoni, e sarò di ritorno verso la fine di ottobre. Per quella data voglio che tutti i moduli siano riempiti. Arrivederci ad allora.”
Noi sappiamo i metodi occorrenti per mandare in pensione chi ci precede. Se vogliono che andiamo in pensione anche noi, quelli che ci seguono trovino loro un metodo nuovo.