LA PIANURA PADANA NELLO SMOG

DI PIERLUIGI PENNATI
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Ci risiamo, alta pressione, freddo e zero precipitazioni, anche quest’anno le polveri fini non danno tregua con Como e Cremona in testa per i valori massimi nei primi 25 giorni di gennaio.
I valori rilevati dalle centraline sono almeno tre volte superiori al massimo consentito in tutte le province, con la sola esclusione della provincia di Sondrio, a Como sono stati misurati 213 microgrammi al metro cubo, 50 sopra il limite, e nel centro di Milano si è arrivati 159, mentre a Cremona, in gennaio sono stati già registrati 20 sforamenti sui 35 annui permessi dalla legge e la qualità dell’aria, non è un gran che migliore nemmeno in Piemonte, Veneto ed Emilia-Romagna.
Le piogge sono previste dalla mattina di giovedì, almeno a ridosso delle Alpi e, secondo Fosco Spinedi di MeteoSvizzera, molto attenta alla analoga situazione di smog nell’adiacente Canton Ticino, dovrebbero servire “per far tornare la situazione dell’inquinamento entro valori accettabili” e “far tornare nella norma la situazione”, almeno temporaneamente.
Nonostante la situazione nessuna amministrazione italiana ha ancora adottato alcun provvedimento per contrastare lo smog, mentre la vicina Svizzera ha abbassato i limiti di velocità in autostrada, nelle zone interessate alle alte concentrazioni, a soli 80km/h, bloccato la circolazione dei veicoli diesel più inquinanti, Euro3 e inferiori, ed introdotto il trasporto pubblico gratuito per indurre il maggior numero possibile di automobilisti a lasciare l’auto casa, oltre ad aver diramato l’invito ad abbassare a 18 gradi nelle stanze ed a 21 negli altri locali la temperatura nelle abitazioni e nei luoghi di lavoro.

PALERMO CAPITALE DELLA CULTURA 2018

DI PIERLUIGI PENNATI
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Panormos (παν-όρμος) era l’antico nome greco, ovvero “tutto-porto”, a causa  dei due fiumi, oggi non più visibili, Kemonia e Papireto che creavano un unico enorme approdo naturale intorno alla città, i Romani modificarono solo di poco il suo nome in Panormus, diventato poi Balarm in arabo e Balermus a seguito della conquista normanna.
Già l’etimologia del nome ne denuncia l’intensa storia, dominazioni e conquiste che hanno lasciato un segno indelebile e profondo nella città e che anche senza l’investitura ufficiale del Ministero dei Beni Culturali la collocavano tra le città più attraenti d’Italia sotto il profilo culturale, architettonico, artistico e persino scientifico dell’età antica e moderna.
Oggi l’investitura ufficiale, per tutto il 2018 Palermo sarà sotto i riflettori ed avrà la possibilità di mostrare ancora di più all’Italia ed al mondo tutta la sua bellezza, la sua storia e la sua magia cittadina e culturale.
“La candidatura è sostenuta da un progetto originale, di elevato valore culturale, di grande respiro umanitario, fortemente e generosamente orientato all’inclusione alla formazione permanente, alla creazione di capacità e di cittadinanza, senza trascurare la valorizzazione del patrimonio e delle produzioni artistiche contemporanee. Il progetto è supportato dai principali attori istituzionali e culturali del territorio e prefigura a che interventi infrastrutturali in grado di lasciare un segno duraturo e positivo. Gli elementi di governance, di sinergia pubblico-privato e di contesto economico, poi, contribuiscono a rafforzarne la sostenibilità e la credibilità”.
Questa la motivazione ufficiale letta dal Presidente della Commissione, Stefano Baia Curioni, dopo l’annuncio del Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Dario Franceschini, nel corso della cerimonia di investitura.
Palermo gareggiava, nemmeno a dirlo, con eccellenza italiane di tutto rispetto, ma quest’anno l’ha spuntata Palermo e con tutta probabilità anche per la sua spiccata vocazione multiculturale, colta anche dal Sindaco Leoluca Orlando che  ha dichiarato: “C’è una profonda emozione, ma devo riconoscere che è stata una vittoria di tutti perché siamo stati capaci ognuno di narrare le bellezze dei nostri territori, la cifra culturale più  significativa e che rivendichiamo è la cultura dell’accoglienza. Rivendichiamo il diritto di ogni essere umano di essere e restare diverso ed essere e restare uguale”.
Un milione di euro e esclusione dal patto di stabilità accompagnano il titolo, dando a Palermo l’opportunità di sviluppare programmi di sviluppo della conoscenza del territorio e del turismo per un sempre maggiore rilancio della città all’insegna dell’arte e della cultura, che a Palermo certo non sono mai mancate.
Ma per chi Palermo non la conoscesse bene va detto che oggi è il principale centro urbano della Sicilia e dell’Italia insulare ed è il quinto comune italiano per popolazione e venticinquesimo a livello europeo.
Palermo ha una storia millenaria ed ha avuto sempre un ruolo centrale nel Mediterraneo. Fu fondata dai Fenici tra il VII e il VI secolo a.C., poi conquista dai Saraceni nell’831 e da questi ampliata fino a diventare sotto la dinastia dei Kalbiti la capitale dell’Emirato di Sicilia e poi, con i Normanni, Palermo vide l’incoronazione di numerosi re di Sicilia cha attribuirono alla città il titolo di «Prima Sedes, Corona Regis et Regni Caput».
Fu teatro dei Vespri siciliani nel 1282 contro gli Angioini, dominatori francesi dell’isola, che erano visti come oppressori stranieri, facendo dilagare i moti per tutta l’isola finendo per espellerne la presenza e farla diventare la capitale del Regno delle Due Sicilie. Anche Dante Alighieri cita i Vespri e Palermo nella sua Divina commedia, al canto VIII del Paradiso, «Se mala segnoria, che sempre accora li popoli suggetti, non avesse mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”»
Ma la sua lunga storia e l’avvicendarsi di tante civiltà e popoli hanno lasciato a Palermo un grande ed importante patrimonio artistico ed architettonico riconosciuto anche dall’UNESCO che ha già inserito nella lista dei patrimoni dell’umanità ben sette complessi monumentali: il Palazzo dei Normanni con la Cappella Palatina, la Chiesa di San Giovanni degli Eremiti, la Chiesa della Martorana, la Chiesa di San Cataldo, la Cattedrale, la Zisa ed il Ponte dell’Ammiraglio.
Altri sei sono candidati: il Castello a Mare, la Cuba, la Cubula, il Castello di Maredolce con il Parco della Favara, la Chiesa di Santa Maria della Maddalena e la Chiesa della Magione.
Partendo dall’inizio la presenza umana a Palermo è radicata fin dalla preistoria, all’interno dell’Addaura, sul Monte Pellegrino, sono state scoperte grotte abitate nei periodi paleolitico e mesolitico con ritrovamenti di ossa e strumenti di caccia, oltre a molte incisioni, databili tra l’epigravettiano finale e il mesolitico, raffiguranti figure umane ed animali.
La città vera è propria, però, venne fondata dai Fenici probabilmente con il nome di Zyz, che significa fiore, come porto commerciale d’appoggio per raggiungere la Sicilia nord-occidentale, favorita dalla presenza dei due fiumi, il Kemonia e il Papireto, che, come detto, realizzavano un grande porto naturale.
Solo i greci, maggiormente presenti nella parte orientale sicula, non lasciarono tracce importanti, aggredendo la città solo poche volte e per saccheggiarla.
Verso il 500, dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente e la distruzione dell’isola da parte delle popolazioni dei Vandali nella sua parte occidentale, Palermo fu ricostruita dai Bizantini, che furono presenti per circa trecento anni.
Nel IX secolo la Sicilia fu invasa dagli arabi dal Nordafrica e nell’831 fu presa anche Palermo, convincendo i governatori musulmani a spostare la capitale della Sicilia da Siracusa a Palermo che fu così dotata di tutte le strutture burocratiche di una capitale. Secondo lo storico Teodosio, a Palermo, durante la dominazione araba più di trecento chiese furono trasformate in moschee. Fu questo il periodo in cui il territorio cominciò ad essere intensamente sfruttato ad agrumeti, formando la Conca d’oro, giunta fino a noi, ed aprendo nuove possibilità di sviluppo economico per la città.
Intorno all’anno mille fu la volta dei Normanni, mescolando gli stili islamici in molti edifici religiosi e civili, tra i quali certamente spicca il Ponte dell’Ammiraglio, con le sue dodici arcate nelle vicinanze della stazione centrale della città.
Dopo i normanni, i regnanti siciliani furono gli Svevi, che fecero di Palermo una sede imperiale, gli Angioini, che però spostarono la capitale da Palermo a Napoli e dopo i Vespri, Palermo divenne la capitale del regno cadetto degli aragonesi, per poi perderà l’indipendenza nel XV secolo e diventare un vicereame iberico e sede del Viceré.
Gli spagnoli rivalutarono territorio per il suo valore strategico contro gli Ottomani, rimanendo per circa duecento anni fino al termine della guerra di successione spagnola, dopo di che divenne dominio dei Borboni che mantennero il Regno di Sicilia e di Napoli separati fino al 1816 quando fondarono il Regno delle Due Sicilie e Palermo diventò solo il secondo centro amministrativo dopo Napoli.
Palermo, però, non è mai stata in discussione come capitale siciliana, diventando luogo di incontro e di scontro persino dopo lo sbarco di Garibaldi nel 1860 a seguito del quale, a causa delle rivolte ad esso seguite, avvennero anche alcuni bombardamenti che distrussero molte strutture architettoniche.
La storia artistica ed urbanistica di Palermo, però, ancora una volta non si fermò ed in seguito all’Unità d’Italia, furono realizzate altre importanti opere architettoniche, come il taglio di via Roma e la costruzione del teatro Massimo e del Politeama, i teatri più rappresentativi della città e dell’intera sicilia.
Anche la contaminazione Liberty non risparmiò Palermo all’inizio del secolo scorso, lasciando alcune testimonianze di gusto eclettico e durante la seconda guerra mondiale subì molti bombardamenti finiti con la sua occupata nel luglio 1943 dalle truppe statunitensi del generale George Smith Patton.
Una nota certo non piacevole, ma comunque culturale, fu lo sviluppo, prevalentemente nel secondo Novecento, del fenomeno della mafia che fece molte vittime, il poliziotto Boris Giuliano, il capitano dei Carabinieri Mario D’Aleo, il prefetto di Palermo generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il presidente della Regione Siciliana Pier Santi Mattarella, i magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Gaetano Costa e Rocco Chinnici, il parroco del quartiere di Brancaccio, don Pino Puglisi e giornalisti come Mauro De Mauro e Mario Francese e molti altri meno conosciuti che avevano il solo difetto comune di opporsi alla malavita organizzata.
Dal 2015 Palermo è co-presidente mondiale del programma Safer Cities, lanciato ‘96 dalle Nazioni Unite, ed il suo sindaco, Leoluca Orlando è responsabile del progetto per l’Europa e l’Africa.
Ma Palermo è anche capitale mondiale dell’accoglienza, non a caso citata nel discorso di ringraziamento per il riconoscimento ministeriale a capitale della cultura 2018, la “Carta di Palermo” è un documento sottoscritto nel marzo 2015 da giuristi, attivisti dei diritti umani, amministratori pubblici ed organizzazioni non governative per sollecitare la comunità mondiale ad una revisione della legislazione sul permesso di soggiorno e delle politiche legate ai fenomeni migratori, sostenendo la mobilità umana internazionale come diritto inalienabile della persona.
Se qualcuno pensava potesse essere finita qui, si sbaglia di grosso, il catalogo della cultura di Palermo è pressoché illimitato, se la storia ci dà un’indicazione di quali e quante culture si sono qui incrociate bisogna guardare alla città attuale per scoprire che non è possibile solo visitarla, Palermo è da vivere intensamente ed a lungo, scoprendo aspetti così numerosi ed interessanti da non poterla lasciare senza aver arricchito il nostro bagaglio culturale in modo altrimenti improponibile.
A Palermo ci sono molti monumenti nazionali, edifici religiosi, chiese e moschee, palazzi storici e persino opere imponenti di ingegneria idraulica, come i Qanat, un sistema di canali sotterranei, parzialmente visitabile, per l’intercettazione delle acque sorgive nel sottosuolo della città, costruiti a cavallo tra la dominazione araba e il periodo normanno.
Poi la natura, parchi e giardini, l’antico stabilimento balneare di Mondello, piazze dalla storia intensa ed interessante, numerosi teatri, tra cui il Teatro Massimo Vittorio Emanuele che è il più grande teatro d’Italia ed il terzo tra i teatri lirici d’Europa, dopo l’Opéra National de Paris e la Staatsoper di Vienna, che vanta un’acustica perfetta nella sua sala a ferro di cavallo.
La numerose porte cittadine non sono meno attrattive, così come i mercati storici, quali il Ballarò, reso famoso anche dall’omonima trasmissione televisiva, i parchi archeologici, le catacombe ed le riserve naturali che circondano la città.
Ma non solo turismo, le università a Palermo sono molte ed illustri, come le biblioteche e gli archivi storici, di stato e privati, gli istituti clinici e di ricerca e le scuole: a Palermo sono presenti più di 450 plessi scolastici tra scuole materne, elementari, medie e superiori.
Persino alcune parole fondamentali per la nostra cultura sono nate qui, Philippe Daverio afferma che «La parola algebra proviene da al-ğabr wa’l-muqābala, un libro scritto nell’825 d.C. da Abū Jaʿfar Muhammad ibn Mūsā al-Khwārizmī. Al-Khwarizmi diventerà la parola algoritmo e ci apre la strada verso il curioso rapporto tra il mondo arabo e il mondo occidentale, per il qual rapporto è fondamentale la città di Palermo.»
E poi filosofi, artisti, musicisti, matematici, scienziati, storici, scrittori, sono nati in questa città, dove i musei non mancano e le tracce da questi lasciate sono evidenti.
Che dire, poi, della cucina, a Palermo non mancano anche le prelibatezze, soprattutto dolci, cannoli e cassate, e vanta persino l’inventore del gelato in Francesco Procopio dei Coltelli e la cucina locale, come tutta la cucina siciliana in generale, rientra a pieno nel modello nutrizionale della dieta mediterranea, riconosciuta dall’UNESCO bene protetto nella lista dei patrimoni orali e immateriali dell’umanità nel 2010.
Siamo quello che mangiamo e mangiamo quello che siamo, l’influenza del susseguirsi delle cultura ha lasciato a Palermo anche una varietà gastronomica d’eccezione producendo un risultato finale che è una mescolanza di sapori e profumi unici, con abbondante utilizzo di vegetali, frutta, verdura, ortaggi, pasta, pane, patate e legumi; carni rosse, bovine, ovine e suine; carni bianche e, ovviamente, pesce a volontà, ma anche numerose varietà di formaggi locali ed olio d’oliva, principale condimento e fonte di grassi e gli aromi, basilico, menta, origano, rosmarino, zafferano, alloro, semi di finocchio, che assumono un ruolo decisivo nella caratterizzazione delle preparazioni gastronomiche tipiche di Palermo.
Per finire le minoranze e l’informazione, che a dispetto del fenomeno dell’omertà, a Palermo è invece fiorente, con numerosi giornali locali e radio private che formano il tessuto sociale della città ancora oggi, un tessuto sociale dove le tradizioni hanno ancora il loro posto d’onore ed inorgogliscono la popolazione che non rinuncia ad esse ed al clima di grande abbraccio e fratellanza tra le persone che si genera durante le feste e le ricorrenze locali.
Palermo è tanto ed ancora di più ed il riconoscimento di Capitale della Cultura Italiana è certamente meritato, non solo per il 2018, ma sempre, patrimonio culturale, sociale, architettonico, artistico, etc., italiano e del mondo intero.
La prossima volta che pensate a Palermo non limitatevi ai luoghi comuni.

BELLO FIGO RESTA SENZA MUSICA


DI PIERLUIGI PENNATI
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Alla fine hanno vinto loro ed il concerto romano di Bello FiGo non si terrà.
Gli organizzatori parlano di “minacce inaccettabili” nei confronti di Paul Yeboah, 21 anni, in Italia da 10 e residente a Parma dove paga regolarmente le tasse e produce milioni di visualizzazioni sul web, ma niente da fare se sei ghanese non puoi esibirti.
Responsabile della cancellazione sembra essere la piccola sigla di estrema destra “Azione Frontale” che già qualche giorno fa aveva contestato Bello FiGo con uno striscione appeso all’esterno del locale dove avrebbe dovuto esibirsi con la scritta “Roma non ti vuole” in caratteri gotici, poi una fitta campagna di insulti sul web contro il giovane che gioca spesso sui luoghi comuni della destra che vedono profughi “ricchi” “negli alberghi a 4 stelle” e pretendono cibo speciale e il wi-fi gratuito.
C’erano già stati annullamenti a Brescia, Borgo Virgilio (MN) e Legnano e questo doveva essere il concerto del rilancio, invece, Bello FiGo non si esibirà nemmeno a Roma e gli ex Magazzini generali a Ostiense che dovevano ospitarlo sabato prossimo, 4 febbraio, resteranno vuoti.
Pomo della discordia sarebbe in particolare la hit, “No pago affitto”, che ha già avuto oltre 9 milioni di visualizzazioni su YouTube dopo l’arrivo della notorietà seguita alla partecipazione alla trasmissione di Rete 4 “Dalla vostra parte” di fronte ad Alessandra Mussolini.

UN ATTENTATORE QUASI “NORMALE”

DI PIERLUIGI PENNATI
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Si chiama Alexandre Bissonnette, ha 27 anni, studia scienze politiche all’Università di Laval, apprezza Trump, Marine Le Pen, le forze israeliane ed è apparentemente figlio dell’odio razziale contro il diverso, alimentato dai media e dai populisti.
Un ragazzo quasi normale, che però prendeva informazioni sul terrorismo jihadista finendo per diventare un esperto di attentati islamici e che non lesinava pareri e commenti sul suo profilo FaceBook.
La polizia canadese lo ha arrestato perché è il presunto attentatore della moschea di Quebec City, mentre ha rilasciato l’altro fermato, Mohamed Khadir, 20 anni dI origini marocchine, che, invece, è stato solo sentito e classificato come testimone dell’attacco.
Bissonette, che non era noto alle forze dell’ordine, è stato fermato poco dopo la sparatoria e verificato il suo profilo: vive a Quebec City, nell’area di Cap-Rouge, e studia proprio vicino alla moschea, nella più antica università in lingua francese del Nord America, con circa 42 mila studenti.
L’attenzione delle prime ore, però, era caduta maggiormente sul marocchino, del quale i media locali avevano inizialmente scritto che dopo l’assalto alla moschea aveva chiamato la polizia per arrendersi perché pentito. Nella sua auto gli investigatori hanno trovato un’arma e la macchina è stata bonificata dagli artificieri per timore di una trappola.
L’errore è stato forse indotto dal fatto che i testimoni avevano detto che durante l’assalto due aggressori vestiti di nero avevano gridato “Allah Akbar“, ma questa volta non si trattava di un grido di aggressione, ma di speranza dei fedeli.
Il movente dell’attentato non è ancora dichiarato, ma a questo punto sembra certo trattarsi di un episodio di intolleranza. In attesa di sviluppi i profili e le pagine personali sui social network di entrambi i fermati sono state bloccate dagli inquirenti.

BASTA (CON) LA SALUTE

DI PIERLUIGI PENNATI
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“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”
Questo il testo integrale dell’articolo 32 della nostra Costituzione, ma che nella sanità italiana ci fosse qualcosa che non andava non è certo una scoperta di oggi, l’Albertone nazionale ci aveva ricamato sopra già a fine anni ‘60, prima con “il medico della mutua” e poi con il forse più famoso “prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue”, per finire addirittura con “Il ginecologo della mutua” dieci anni dopo.
La mutua, ovvero l’assistenza sanitaria fornita dallo stato, non è mai stata sinonimo di qualità, ma almeno era sinonimo di gratuità, oggi, invece, sembra non essere più ne l’uno ne l’altro, al punto che secondo il rapporto 2016 sulla povertà sanitaria sono 557mila gli italiani che non riescono a comprare i farmaci e gli italiani poveri sono 4,6 milioni, in crescita del 25% rispetto allo scorso anno, ed i costi dei farmaci per questi soggetti costituiscono una voce particolarmente pesante: tra i poveri quasi 6 euro su 10 finiscono in farmaci, contro una media di meno di 4 euro.
Ma non è tutto qui, le difficoltà non riguardano solo i meno abbienti, oltre 12 milioni di italiani hanno dovuto limitare il numero di visite mediche o gli esami di accertamento per motivazioni di tipo economico ed è stata registrato un aumento della richiesta di farmaci in tre anni del 16%, in conseguenza di un costante aumento di indigenti assistiti.
Il fenomeno ha fatto crescere la necessità di assistenza alternativa tramite il volontariato sviluppando le attività del Banco Farmaceutico che offre il suo aiuto soprattutto attraverso i medicinali raccolti nella Giornata di Raccolta del Farmaco, il 13 febbraio, senza l’aiuto del quale moltissimi non avrebbero avuto la possibilità di curarsi del tutto.
Eppure, come nei film di quaranta anni fa, non tutte le strutture sono al collasso, se negli ospedali pubblici le liste d’attesa sono infinite e l’accesso ai servizi difficile, in molte strutture private le attività sanitarie fioriscono, in ambienti raffinati, con personale cortese e premuroso, quasi sempre in convenzione con il SSN o con costi ormai non troppo distanti a quelli pagati per un ticket presso una struttura pubblica.
Ma non è tutto, a molti sarà capitato il caso, quello degli antibiotici e di alcuni tipi di radiografia ed esami del sangue per esempio, per i quali il costo del ticket, fissato allo stesso modo per tutte le prestazioni, è persino più oneroso del costo del medicinale o dell’esame.
“Vuole il generico?” è la domanda classica del farmacista che propone di pagare meno una medicina, “Preferisce il ticket o pagare la prestazione?” Per una panoramica od un esame del sangue in un centro convenzionato.
Così la sanità che dovrebbe curare i pazienti è la prima a dimostrare di essere ammalata e di una malattia profonda e radicata: l’indifferenza verso il malato. Per far quadrare i conti si aumentano i contributi del paziente fino a rendere non più conveniente la prestazione e “violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, in contrasto con la norma costituzionale.
Specialisti ed economisti si sono alternati da sempre al capezzale della sanità pubblica per trovare un rimedio al suo cattivo stato di salute, persone spesso in conflitto di interesse e che non sono utenti delle strutture che amministrano, finendo con il trattare il caso solo come un problema economico e non umano.
Quante volte abbiamo sentito dire “basta la salute”, “pensa alla salute” o “se c’è la salute c’è tutto”?
Se davvero “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti” allora dovremmo cominciare  a ripensare la sanità mettendo il paziente al centro e non solo l’interesse economico.
La sanità in altri stati funziona benissimo e costa meno, da italiani spesso esportiamo tecnologie e stili di vita, nell’era di internet e della globalizzazione non dovrebbe essere tanto difficile cercare di importare buona gestione ed assistenza, così che un giorno si eviti di dover dire che “l’operazione è riuscita, ma il paziente (la sanità) è morto”.

TRUMP CONTRO TUTTI, TUTTI CONTRO TRUMP

DI PIERLUIGI PENNATI
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È ormai chiaro che Trump non passerà alla storia per essere stato il presidente più amato dagli americani e dal resto del mondo, ma che a pochissimi giorni dal suo insediamento potesse esserci già un così alto numero di contestazioni non era completamente prevedibile.
Trump mette d’accordo tutti contro di lui, al punto che manifestazioni e proteste contro l’ordine esecutivo sull’immigrazione non sembravano bastare,  così persino in Silicon Valley è stata immediata la reazione: Google ha fatto sapere di aver stanziato 4 milioni di dollari, due donati dalla società ed altrettanti dagli impiegati, a favore degli immigrati ed i rifugiati colpiti dalla misura di bando dal territorio americano.
Ma non è la sola grande azienda a reagire contro Trump, un portavoce della catena di caffetterie Starbucks ha dichiarato che assumerà 10.000 rifugiati in tutto il mondo nei prossimi 5 anni e la società degli affitti brevi Airbnb sostiene che metterà a disposizione alloggi gratuiti.
Uber, la contestata società  che attraverso un’applicazione offre un servizio alternativo al taxi, sta creando un fondo di difesa legale da 3 milioni di dollari e la sua rivale Lyft, che durante il week end ha già raccolto una cifra record di oltre 24 milioni di dollari in donazioni, ha annunciato ai suoi iscritti che donerà un milione di dollari all’American Civil Liberties Union (ACLU) per i prossimi 4 anni ed in Gran Bretagna, dove il primo ministro Theresa May ha già confermato l’invito a Trump nonostante il divieto di entrata negli USA imposto ai cittadini di sette paesi musulmani, una petizione contro la visita del presidente americano ha già superato il milione di firme.
Forse Trump non riuscirà a portare a termine il suo mandato, però un risultato certo lo ha già ottenuto: è riuscito a mettere d’accordo tutti, ma proprio tutti, contro di lui. Buongiorno presidente Trump.

I SOCIALISTI FRANCESI SCELGONO IL CANDIDATO PERDENTE

DI PIERLUIGI PENNATI
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“Partita finisce quando arbitro fischia”. È al celebre aforisma di Vujadin Boškov che devono essersi ispirati i quasi due milioni di francesi che ieri hanno votato per il ballottaggio alle primarie della sinistra, preferendo, con oltre un milione di suffragi, il candidato Benoît Hamon al primo ministro uscente Manuel Valls e designando così il candidato socialista alle prossime elezioni presidenziali di aprile.
La corsa all’Eliseo, però, si annuncia difficile: secondo l’ultimo sondaggio dell’istituto francese IPSOS Sopra Steria, al primo turno di elezioni Marine LE PEN potrebbe arrivare al 25%, François FILLON al 23%, Emmanuel MACRON al 17%, Jean-Luc MÉLENCHON al 14% e Benoît HAMON solo al 7%, seguito da François BAYROU al 5%, Nicolas DUPONT-AIGNAN e Yannick JADOT al 2,5%, per finire con Nathalie ARTHAUD e Philippe POUTOU all’ 1%, mentre Jacques CHEMINADE con un risultato inferiore allo 0,5 % non è considerato.
Secondo lo studio, il candidato della sinistra non andrebbe comunque oltre il quinto posto e non avrebbe possibilità di arrivare al ballottaggio finale, ma per citare ancora Boškov “chi non tira in porta non segna”, ed ai socialisti francesi non restava altra prospettiva che scegliere il candidato migliore e, sempre secondo IPSOS Sopra Steria, tra Valls ed Hamon vi era una seppur lieve differenza che porterebbe il voto dei francesi dal 6/7% del secondo al 9/10% del primo, quindi la scelta migliore sarebbe stata all’opposto.
In ogni caso per Hamon, non c’è tempo per esultare, il lavoro per convincere l’elettorato francese a votarlo non sarà semplice, soprattutto non sarà facile sedare l’ondata populista che sta vedendo la Le Pen favorita su Fillon, con i due che dovrebbero essere i veri protagonisti della delicata campagna elettorale che vedrà al suo termine in gioco il futuro dell’Eurozona alle elezioni europee di quest’anno, nelle quali la Francia è una delle protagoniste indiscusse.
Per lo scontro Fillon – Le Pen, IPSOS aveva inizialmente previsto la vittoria del primo, oggi ribalta leggermente i pronostici, ma dopo l’insediamento di Trump e l’inasprirsi delle polemiche populiste in campo internazionale, nel momento del voto reale per il loro presidente, i francesi potrebbero avere un istinto alla prudenza e ribaltare la situazione e quindi anche il candidato socialista, che oggi sembra perdente, potrebbe tentare il recupero.
“Elezioni vince chi prende più voti”, buon lavoro Benoît Hamon.

 

ATTENTATO IN UNA MOSCHEA IN QUEBEC

Sei morti e otto feriti a causa dell’irruzione di tre uomini armati in una moschea di Quebec City durante la preghiera della sera. L’attacco è avvenuto intorno alle 20 ora locale, l’una di notte in Italia, secondo un testimone tre individui armati hanno aperto il fuoco su una quarantina di fedeli presenti nel luogo di culto.
L’azione è stata confermata anche dal primo ministro canadese, Justin Trudeau, che ha definito il gesto “un attacco terroristico contro i musulmani in un centro di preghiera e accoglienza”, mentre la polizia ha reso noto che due persone sono state arrestate e che non ritengono possano esservi altri soggetti in fuga.
Il premier canadese ha anche dichiarato che i “canadesi di fede musulmana sono un importante parte della nostra società”. Ed ha twittato “Tonight, Canadians grieve for those killed in a cowardly attack on a mosque in Quebec City. My thoughts are with victims & their families. – Justin Trudeau (@JustinTrudeau) 30 gennaio 2017 (stasera i canadesi piangono per le persone uccise in un attacco codardo in una moschea a Quebec City. I miei pensieri sono per le vittime e le loro famiglie).
Il presidente del centro islamico, Mohamed Yangui, che al momento dei fatti non era nella moschea, si è dichiarato colto di sorpresa ed ha detto: “Perché sta accadendo qui? È una barbarie”. Yagui ha poi precisato che la zona della moschea attaccata è la sezione maschile, dove oltre agli uomini rimasti uccisi è anche possibile siano stati coinvolti dei bambini. Secondo altri testimoni all’interno del centro durante l’attacco potevano esserci tra le 60 e le 100 persone.
Anche il premier del Quebec, Philippe Coutillard, ha espresso il proprio cordoglio per le vittime e la piena solidarietà ai musulmani presenti in Canada. Il Centro Culturale Islamico era già stato al centro di episodi di intolleranza e lo scorso anno era stata recapitata all’imām una testa di maiale, animale che il Corano definisce impuro, con la scritta “Buon appetito”.

ATTENTATO IN UNA MOSCHEA IN QUEBEC

DI PIERLUIGI PENNATI
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Sei morti e otto feriti a causa dell’irruzione di tre uomini armati in una moschea di Quebec City durante la preghiera della sera. L’attacco è avvenuto intorno alle 20 ora locale, l’una di notte in Italia, secondo un testimone tre individui armati hanno aperto il fuoco su una quarantina di fedeli presenti nel luogo di culto.
L’azione è stata confermata anche dal primo ministro canadese, Justin Trudeau, che ha definito il gesto “un attacco terroristico contro i musulmani in un centro di preghiera e accoglienza”, mentre la polizia ha reso noto che due persone sono state arrestate e che non ritengono possano esservi altri soggetti  in fuga.
Il premier canadese ha anche dichiarato che i “canadesi di fede musulmana sono un importante parte della nostra società”. Ed ha twittato “Tonight, Canadians grieve for those killed in a cowardly attack on a mosque in Quebec City. My thoughts are with victims & their families. – Justin Trudeau (@JustinTrudeau) 30 gennaio 2017 (stasera i canadesi piangono per le persone uccise in un attacco codardo in una moschea a Quebec City. I miei pensieri sono per le vittime e le loro famiglie).
Il presidente del centro islamico, Mohamed Yangui, che al momento dei fatti non era nella moschea, si è dichiarato colto di sorpresa ed ha detto: “Perché sta accadendo qui? È una barbarie”. Yagui ha poi precisato che la zona della moschea attaccata è la sezione maschile, dove oltre agli uomini rimasti uccisi è anche possibile siano stati coinvolti dei bambini. Secondo altri testimoni all’interno del centro durante l’attacco potevano esserci tra le 60 e le 100 persone.
Anche il premier del Quebec, Philippe Coutillard, ha espresso il proprio cordoglio per le vittime e la piena solidarietà ai musulmani presenti in Canada. Il Centro Culturale Islamico era già stato al centro di episodi di intolleranza e lo scorso anno era stata recapitata all’imām una testa di maiale, animale che il Corano definisce impuro, con la scritta “Buon appetito”.

LA LEGA CHIUDE LE SEDI E DIVENTA NOMADE

Il 1° dicembre era toccato al giornale La Padania, responsabili i tagli all’editoria stabiliti dal governo Renzi, anche se il sindacato interno al quotidiano preferiva attaccare la dirigenza di Via Bellerio che “nonostante le prospettive di crescita dei consensi politico-elettorali che tutti i sondaggi le riconoscono, ha deciso di non rinnovare il proprio contributo al bilancio dell’Editoriale Nord.”.

Qualche giorno fa è stata la volta del partito e dopo i primi 71 esuberi del 2014 chiude anche la sede di via Bellerio a Milano, mettendo in mobilità gli ultimi 24 dipendenti.

La decisione mette anche la parola fine al vecchio modo di essere un partito così com’era sempre stato fin dall’inizio e nelle strutture del Carroccio non ci sarà più neanche un funzionario stipendiato dalla casa madre.

Il tesoriere della Lega, Giulio Centemero, dà la colpa al cambio del sistema di finanziamento dei partiti che “ha comportato anche per la Lega una improvvisa e drastica riduzione delle risorse economiche e finanziarie“, “fattori che hanno richiesto drastici interventi di ristrutturazione”.

Dal SINPA, il sindacato della Lega, nessuna nota ufficiale, mentre sono gli altri sindacati a farsi sentire,  Andrea Montagni della Filcams Cgil dice “già nel 2014 la Lega aveva promesso e non mantenuto l’impegno a ricollocare i lavoratori e nel corso della mia esperienza sindacale solo il Carroccio e Forza Italia non si sono mai preoccupati del destino dei propri ex dipendenti. Persino la vecchia Democrazia proletaria si impegnò per trovare una sistemazione. Comunque sia, la Lega che a parole difende i lavoratori poi abbandona i suoi“.

Secondo i dirigenti del partito non è colpa loro, ma ora che la lega non ha più una sede ha dimostrato di non saper governare nemmeno i propri conti, trasformandosi da partito tradizionale in nomade della politica, una sorta di ROM senza fissa dimora costretto a spostarsi di volta involta per rincorrere la propria sopravvivenza.

Chissà se ora che anche Salvini non ha più una sede cambierà atteggiamento anche verso coloro che si spostano nelle roulotte.

LA LEGA CHIUDE LE SEDI E DIVENTA NOMADE

DI PIERLUIGI PENNATI
https://alganews.wordpress.com/
pierluigi-pennati
Il 1° dicembre era toccato al giornale La Padania, responsabili i tagli all’editoria stabiliti dal governo Renzi, anche se il sindacato interno al quotidiano preferiva attaccare la dirigenza di Via Bellerio che “nonostante le prospettive di crescita dei consensi politico-elettorali che tutti i sondaggi le riconoscono, ha deciso di non rinnovare il proprio contributo al bilancio dell’Editoriale Nord.”.
Qualche giorno fa è stata la volta del partito e dopo i primi 71 esuberi del 2014 chiude anche la sede di via Bellerio a Milano, mettendo in mobilità gli ultimi 24 dipendenti.
La decisione mette anche la parola fine al vecchio modo di essere un partito così com’era sempre stato fin dall’inizio e nelle strutture del Carroccio non ci sarà più neanche un funzionario stipendiato dalla casa madre.
Il tesoriere della Lega, Giulio Centemero, dà la colpa al cambio del sistema di finanziamento dei partiti che “ha comportato anche per la Lega una improvvisa e drastica riduzione delle risorse economiche e finanziarie“, “fattori che hanno richiesto drastici interventi di ristrutturazione”.
Dal SINPA, il sindacato della Lega, nessuna nota ufficiale, mentre sono gli altri sindacati a farsi sentire,  Andrea Montagni della Filcams Cgil dice “già nel 2014 la Lega aveva promesso e non mantenuto l’impegno a ricollocare i lavoratori e nel corso della mia esperienza sindacale solo il Carroccio e Forza Italia non si sono mai preoccupati del destino dei propri ex dipendenti. Persino la vecchia Democrazia proletaria si impegnò per trovare una sistemazione. Comunque sia, la Lega che a parole difende i lavoratori poi abbandona i suoi“.
Secondo i dirigenti del partito non è colpa loro, ma ora che la lega non ha più una sede ha dimostrato di non saper governare nemmeno i propri conti, trasformandosi da partito tradizionale in nomade della politica, una sorta di ROM senza fissa dimora costretto a spostarsi di volta involta per rincorrere la propria sopravvivenza.
Chissà se ora che anche Salvini non ha più una sede cambierà atteggiamento anche verso coloro che si spostano nelle roulotte.

UN MURO DA ABBATTERE? PEÑA NIETO CANCELLA L’INCONTRO CON TRUMP

Era stato per primo Trump a suggerire al presidente messicano Peña Nieto di annullare il viaggio previsto a Washington per la prossima settimana, ieri sera la decisione: “Esta mañana hemos informado a la Casa Blanca que no asistiré a la reunión de trabajo programada para el próximo martes con el @POTUS.”

Il dialogo a distanza era nato a causa della divergenza di idee sul muro che Trump andrà a completare, “If Mexico is unwilling to pay for the badly needed wall, then it would be better to cancel the upcoming meeting” (Se il Messico non è disposto a pagare per il muro di cui c’è disperato bisogno, allora sarebbe meglio cancellare l’incontro), aveva scritto Trump ed a bordo dell’Air Force One il suo portavoce, Sean Spicer, aveva dichiarato ai giornalisti che la Casa Bianca avrebbe cercato comunque “una data futura per fissare qualcosa” e che sarebbero state mantenute “aperte le linee di comunicazione” con il Messico.

L’incontro era previsto per martedì, ma dopo la firma di Trump sotto il decreto per la continuazione del muro lungo il confine con il Messico, Enrique Peña Nieto aveva subito affermato che il suo stato non avrebbe contribuito finanziariamente alla sua realizzazione, provocando la replica di Trump.

Il professor Michael Dear, docente alla California University di Berkeley, che da anni studia le relazioni tra sviluppo urbano, aspetti socio-economici e geografici al confine tra Stati Uniti e Messico, aveva già dichiarato che “il muro non ferma i traffici”, “i dati dimostrano che le barriere non aumentano la sicurezza tra USA e Messico” ed ancora “invece di costruire più muri, dovremmo creare maggiori connessioni. Sarebbero importanti per i nostri scambi commerciali ma anche per la nostra sicurezza”.

Ma il muro alla frontiera meridionale era una delle promesse elettorali che avevano  portato voti a Donald Trump che, diventato presidente, ne ha immediatamente approvato la costruzione con un ordine esecutivo, anche se i fondi non sono ancora stati approvati dal Congresso, e questo, secondo il professor Dear, non risolverà i problemi di sicurezza.

Nel suo libro intitolato “Perché i muri non funzionano” il professore spiega la sua teoria, basata su osservazioni reali del muro che già esiste tra i due stati, costruito negli ultimi 10 anni e lungo quasi mille chilometri. Secondo i dati raccolti “questo muro ha avuto un impatto nullo o comunque è stato minimo”, perché attraverso quel confine non passano solo quelli che negli Stati Uniti cercano lavoro, ma esiste un fiorente traffico di esseri umani, armi, droga, oltre a scambi legali commerciali “per oltre 1,4 miliardi di dollari ogni giorno”, facendo registrare proprio a cavallo del confine la più rapida crescita economica su entrambi i lati della frontiera.

Inoltre “il muro ha reso finora più facile l’attività dei cartelli messicani della droga. I narco-trafficanti conoscono quali punti di ingresso usare e il tipo di controlli effettuati dalla polizia di confine” ed i 3000 chilometri di confine col Messico che il presidente Trump vorrebbe sigillare sono per lo più in zone desertiche, mentre a ridosso del confine ci sono anche grandi città, che in alcuni casi sono proprio a cavallo della frontiera, come in California, Arizona, Texas, etc.

Alcune città-gemelle tra Stati Uniti e Messico, come San Diego, Tijuana, El Paso e Ciudad Juarez, costituiscono una sola comunità che non tiene conto della frontiera che le separa e secondo il professore “Invece di costruire più muri, dovremmo creare maggiori connessioni. Sarebbero importanti per i nostri scambi commerciali ma anche per la nostra sicurezza”.

Nel 2013, con una lettera aperta pubblicata da New York Times, il professor Michael Dear già aveva chiesto all’allora presidente Barack Obama di eliminare le barriere esistenti tra i due paesi, dopo il passaggio di consegne la richiesta resta valida, sebbene le speranze che l’amministrazione Trump decida di valutare metodi alternativi di controllo delle frontiere al momento sembrano davvero scarse.

UN MURO DA ABBATTERE? PEÑA NIETO CANCELLA L’INCONTRO CON TRUMP

DI PIERLUIGI PENNATI
https://alganews.wordpress.com/
pierluigi-pennati
Era stato per primo Trump a suggerire al presidente messicano Peña Nieto di annullare il viaggio previsto a Washington per la prossima settimana, ieri sera la decisione: “Esta mañana hemos informado a la Casa Blanca que no asistiré a la reunión de trabajo programada para el próximo martes con el @POTUS.”
Il dialogo a distanza era nato a causa della divergenza di idee sul muro che Trump andrà a completare, “If Mexico is unwilling to pay for the badly needed wall, then it would be better to cancel the upcoming meeting” (Se il Messico non è disposto a pagare per il muro di cui c’è disperato bisogno, allora sarebbe meglio cancellare l’incontro), aveva scritto Trump ed a bordo dell’Air Force One il suo portavoce, Sean Spicer, aveva dichiarato ai giornalisti che la Casa Bianca avrebbe cercato comunque “una data futura per fissare qualcosa” e che sarebbero state mantenute “aperte le linee di comunicazione” con il Messico.
L’incontro era previsto per martedì, ma dopo la firma di Trump sotto il decreto per la continuazione del muro lungo il confine con il Messico, Enrique Peña Nieto aveva subito affermato che il suo stato non avrebbe contribuito finanziariamente alla sua realizzazione, provocando la replica di Trump.
Il professor Michael Dear, docente alla California University di Berkeley, che da anni studia le relazioni tra sviluppo urbano, aspetti socio-economici e geografici al confine tra Stati Uniti e Messico, aveva già dichiarato che “il muro non ferma i traffici”, “i dati dimostrano che le barriere non aumentano la sicurezza tra USA e Messico” ed ancora “invece di costruire più muri, dovremmo creare maggiori connessioni. Sarebbero importanti per i nostri scambi commerciali ma anche per la nostra sicurezza”.
Ma il muro alla frontiera meridionale era una delle promesse elettorali che avevano  portato voti a Donald Trump che, diventato presidente, ne ha immediatamente approvato la costruzione con un ordine esecutivo, anche se i fondi non sono ancora stati approvati dal Congresso, e questo, secondo il professor Dear, non risolverà i problemi di sicurezza.
Nel suo libro intitolato “Perché i muri non funzionano” il professore spiega la sua teoria, basata su osservazioni reali del muro che già esiste tra i due stati, costruito negli ultimi 10 anni e lungo quasi mille chilometri. Secondo i dati raccolti “questo muro ha avuto un impatto nullo o comunque è stato minimo”, perché attraverso quel confine non passano solo quelli che negli Stati Uniti cercano lavoro, ma esiste un fiorente traffico di esseri umani, armi, droga, oltre a scambi legali commerciali “per oltre 1,4 miliardi di dollari ogni giorno”, facendo registrare proprio a cavallo del confine la più rapida crescita economica su entrambi i lati della frontiera.
Inoltre “il muro ha reso finora più facile l’attività dei cartelli messicani della droga. I narco-trafficanti conoscono quali punti di ingresso usare e il tipo di controlli effettuati dalla polizia di confine” ed i 3000 chilometri di confine col Messico che il presidente Trump vorrebbe sigillare sono per lo più in zone desertiche, mentre a ridosso del confine ci sono anche grandi città, che in alcuni casi sono proprio a cavallo della frontiera, come in California, Arizona, Texas, etc.
Alcune città-gemelle tra Stati Uniti e Messico, come San Diego, Tijuana, El Paso e Ciudad Juarez, costituiscono una sola comunità che non tiene conto della frontiera che le separa e secondo il professore “Invece di costruire più muri, dovremmo creare maggiori connessioni. Sarebbero importanti per i nostri scambi commerciali ma anche per la nostra sicurezza”.
Nel 2013, con una lettera aperta pubblicata da New York Times, il professor Michael Dear già aveva chiesto all’allora presidente Barack Obama di eliminare le barriere esistenti tra i due paesi, dopo il passaggio di consegne la richiesta resta valida, sebbene le speranze che l’amministrazione Trump decida di valutare metodi alternativi di controllo delle frontiere al momento sembrano davvero scarse.

QUANDO IL SAGGIO MOSTRA IL DITO, LO STOLTO GUARDA LA LUNA

Alla fine il pasticcio è diventato il problema ed il problema si è definitivamente perso di vista.

Già, perché ormai in Italia per governare serve solo una legge elettorale e non degli amministratori onesti e capaci, quindi puntiamo tutto su come li eleggiamo e non su come governano.

Nel testo di proprio pugno del 1936 Mussolini scriveva che “La democrazia è un regime senza re, ma con moltissimi re talora più esclusivi, tirannici e rovinosi che un solo re che sia tiranno” e per questa ragione ingovernabile, tanto è vero che non riteneva la forma dello stato preminente, ma bensì la sua possibilità di essere governato, spiegando benissimo che “il Fascismo, pur avendo prima del 1922 – per ragioni di contingenza – assunto un atteggiamento di tendenzialità repubblicana, vi rinunciò prima della marcia su Roma”.

La questione della governabilità è un problema da sempre e la repubblica Italiana sorta sulle ceneri dello stato fascista la ritenne secondaria rispetto alla democrazia, proprio per evitare che la repubblica diventasse quello stesso stato fascista che governava al posto degli italiani, convinto profondamente di un “antiindividualismo” per il quale lo stato e l’individuo coincidevano e dovevano essere posti “contro il liberalismo classico” perché “Il concetto di libertà non è assoluto perché nella vita nulla vi è di assoluto”.

Mussolini riteneva che “La libertà non è un diritto, è un dovere. Non è una elargizione: è una conquista; non è un’eguaglianza: è un privilegio. Il concetto di libertà muta col passare del tempo. C’è una libertà in tempo di pace che non è più la libertà in tempo di guerra. C’è una libertà in tempo di ricchezza che non può essere concessa in tempo di miseria”.

Il governo Renzi ed altri altri prima di lui, hanno fatto di tutto per restaurare almeno in parte, e forse inconsapevolmente, questo stato di cose, noi siamo troppo giovani per ricordare e troppo assorbiti dai moderni doveri per volerlo studiare, ma se la giornata della memoria per lo sterminio ebreo serve a non dimenticare l’olocausto, una giornata della memoria per il periodo fascista dovrebbe essere istituita per non dimenticare quello da cui settanta anni fa siamo fuggiti a gambe levate ed ancora oggi diciamo di rifuggire.

Celebriamo una repubblica che non conosciamo e forse per questo cerchiamo di demolirla restaurando un passato che riaffiora dalla sue braci, perché in fondo noi siamo il nostro passato e prima di fare riforme dovremmo capire meglio la nostra storia per poter evitare gli stessi errori dei nostri antenati.

Così oggi si gioca tutto su di una legge elettorale che dovrebbe limitare l’accesso in parlamento alla democrazia diffusa in nome della governabilità, io, invece credo che dovremmo stabilire regolamenti semplici per ottenere in tempi ragionevoli leggi migliori e più condivise e per questo la prima riforma che credo ci serva dovrebbe riguardare la democrazia diretta, che in Italia è quasi totalmente assente.

Quello che intendo è che nel nostro moderno paese non è possibile introdurre nuove norme e nemmeno proporle senza un relatore in parlamento ed un iter parlamentare completo, così che il popolo può esprimere solo i propri rappresentanti tramite le elezioni e non giudicare il loro operato, se non alle successive elezioni, lasciando un vuoto abissale tra una votazione e l’altra e facendosi sempre gabbare prima di questa.

La possibilità di abrogare una legge, seppur con un iter difficile e complicato, non basta, i referendum dovrebbero poter essere anche propositivi, mentre in parlamento non dovrebbero poter cambiare le coalizioni a proprio piacimento, pena la decadenza dalla posizione.

Altri sistemi democratici prevedono queste norme e funzionano benissimo e le differenze e le distanze tra i politici ed i cittadini non sono così grandi come da noi e tutto è deciso con suffragio popolare: si chiama “democrazia diretta”, non è un assurdo e non è nemmeno complicato o costoso applicarla, serve solo volerla attuare.

Il modo, però, non può essere modificare una legge od un iter legale, il modo deve essere un cambio radicale di impostazione senza rincorrere le cose che già si hanno per stabilire metodi nuovi e semplici: democrazia proporzionale e partecipazione diretta.

Questo è uno stato democratico, gli altri sono solo dei surrogati e le nuove leggi solo stampelle sbilenche di apparati in rovina, ricominciare è possibile, ma va fatto partendo dalla parte giusta, cioè dall’allargamento della democrazia di base e non dalla compressione di quella rappresentativa.

QUANDO IL SAGGIO MOSTRA IL DITO, LO STOLTO GUARDA LA LUNA

DI PIERLUIGI PENNATI
https://alganews.wordpress.com/
pierluigi-pennati
Alla fine il pasticcio è diventato il problema ed il problema si è definitivamente perso di vista.
Già, perché ormai in Italia per governare serve solo una legge elettorale e non degli amministratori onesti e capaci, quindi puntiamo tutto su come li eleggiamo e non su come governano.
Nel testo di proprio pugno del 1936 Mussolini scriveva che “La democrazia è un regime senza re, ma con moltissimi re talora più esclusivi, tirannici e rovinosi che un solo re che sia tiranno” e per questa ragione ingovernabile, tanto è vero che non riteneva la forma dello stato preminente, ma bensì la sua possibilità di essere governato, spiegando benissimo che “il Fascismo, pur avendo prima del 1922 – per ragioni di contingenza – assunto un atteggiamento di tendenzialità repubblicana, vi rinunciò prima della marcia su Roma”.
La questione della governabilità è un problema da sempre e la repubblica Italiana sorta sulle ceneri dello stato fascista la ritenne secondaria rispetto alla democrazia, proprio per evitare che la repubblica diventasse quello stesso stato fascista che governava al posto degli italiani, convinto profondamente di un “antiindividualismo” per il quale lo stato e l’individuo coincidevano e dovevano essere posti “contro il liberalismo classico” perché “Il concetto di libertà non è assoluto perché nella vita nulla vi è di assoluto”.
Mussolini riteneva che “La libertà non è un diritto, è un dovere. Non è una elargizione: è una conquista; non è un’eguaglianza: è un privilegio. Il concetto di libertà muta col passare del tempo. C’è una libertà in tempo di pace che non è più la libertà in tempo di guerra. C’è una libertà in tempo di ricchezza che non può essere concessa in tempo di miseria”.
Il governo Renzi ed altri altri prima di lui, hanno fatto di tutto per restaurare almeno in parte, e forse inconsapevolmente, questo stato di cose, noi siamo troppo giovani per ricordare e troppo assorbiti dai moderni doveri per volerlo studiare, ma se la giornata della memoria per lo sterminio ebreo serve a non dimenticare l’olocausto, una giornata della memoria per il periodo fascista dovrebbe essere istituita per non dimenticare quello da cui settanta anni fa siamo fuggiti a gambe levate ed ancora oggi diciamo di rifuggire.
Celebriamo una repubblica che non conosciamo e forse per questo cerchiamo di demolirla restaurando un passato che riaffiora dalla sue braci, perché in fondo noi siamo il nostro passato e prima di fare riforme dovremmo capire meglio la nostra storia per poter evitare gli stessi errori dei nostri antenati.
Così oggi si gioca tutto su di una legge elettorale che dovrebbe limitare l’accesso in parlamento alla democrazia diffusa in nome della governabilità, io, invece credo che dovremmo stabilire regolamenti semplici per ottenere in tempi ragionevoli leggi migliori e più condivise e per questo la prima riforma che credo ci serva dovrebbe riguardare la democrazia diretta, che in Italia è quasi totalmente assente.
Quello che intendo è che nel nostro moderno paese non è possibile introdurre nuove norme e nemmeno proporle senza un relatore in parlamento ed un iter parlamentare completo, così che il popolo può esprimere solo i propri rappresentanti tramite le elezioni e non giudicare il loro operato, se non alle successive elezioni, lasciando un vuoto abissale tra una votazione e l’altra e facendosi sempre gabbare prima di questa.
La possibilità di abrogare una legge, seppur con un iter difficile e complicato, non basta, i referendum dovrebbero poter essere anche propositivi, mentre in parlamento non dovrebbero poter cambiare le coalizioni a proprio piacimento, pena la decadenza dalla posizione.
Altri sistemi democratici prevedono queste norme e funzionano benissimo e le differenze e le distanze tra i politici ed i cittadini non sono così grandi come da noi e tutto è deciso con suffragio popolare: si chiama “democrazia diretta”, non è un assurdo e non è nemmeno complicato o costoso applicarla, serve solo volerla attuare.
Il modo, però, non può essere modificare una legge od un iter legale, il modo deve essere un cambio radicale di impostazione senza rincorrere le cose che già si hanno per stabilire metodi nuovi e semplici: democrazia proporzionale e partecipazione diretta.
Questo è uno stato democratico, gli altri sono solo dei surrogati e le nuove leggi solo stampelle sbilenche di apparati in rovina, ricominciare è possibile, ma va fatto partendo dalla parte giusta, cioè dall’allargamento della democrazia di base e non dalla compressione di quella rappresentativa.

10 EURO PER UNA NOTTE AL CLOCHARD HOTEL LINATE

Il racket della disperazione colpisce i senzatetto all’aeroporto di Milano Linate: da quanto appreso sembra che la società di gestione aeroportuale consenta tacitamente, quando l’aeroporto è vuoto nelle ore notturne e di minor traffico, ai clochard di poter dormire in esso senza rischiare l’assideramento e qualcuno riesce persino ad approfittarne.

I senzatetto che dormono per terra possono non piacere ai pochissimi passeggeri di passaggio nella notte, ma è certamente un bel gesto altruista da non sottovalutare da parte della società che gestisce l’aeroporto, la sorpresa, però, arriva quando qualcuno scopre che, per poter dormire in una zona pubblica, un clochard deve addirittura pagare il pizzo ad una banda organizzata che ha preso possesso illegalmente degli spazi riscaldati e gestisce il pavimento come se ci si trovasse in un vero hotel e vende persino le coperte.

Quattro i sospetti “gestori”, tre donne ed un uomo probabilmente di nazionalità ROM, che non solo stazionavano permanentemente in aerostazione, ma addirittura facevano le ronde per organizzare i “posti letto” affinchè nessuno sfuggisse al controllo.

20 euro una coperta e 10 euro anticipati a notte, che fanno circa 300 euro al mese, praticamente un affitto in nero, pagato per avere qualcosa che in altre parti della città è possibile avere gratuitamente affidandosi ai servizi di ospitalità notturna gestiti da Comune di Milano ed associazioni varie di volontariato. Il più famoso tra tutti quello fondato da Fratel Ettore Boschini, da sempre un punto di riferimento metropolitano per tutti i clochard.

Ma altre mille domande affiorano: come è possibile che una banda di persone qualsiasi possa controllare un’area che dovrebbe già essere sotto controllo delle istituzioni per ragioni di sicurezza, vale a dire un aeroporto, obiettivo sensibile, sorvegliato e presidiato per impedire attentati e crimini di ogni genere.

Come avviene l’esodo, gli aeroporti non sono mai in aree cittadine ed in qualche modo i senzatetto devono potersi spostare e sopravvivere durante il giorno, possibile che questi vivessero tutto il giorno nell’edificio senza che nessuno si accorgesse della cosa?

Cosa spinge i senzatetto a fasi spillare quattrini da una banda di senza cuore e senza scrupoli che, smascherati dal cronista, dichiarano che l’Italia è una m.rda, dimostrando tutta l’attenzione che possono avere perso le persone e l’ambiente che li accoglie.

Risposte difficili da fornire, resta il fatto che siamo tutti ormai così insensibili alla disperazione che lo scandalo vero arriva solo quando al povero si chiede il pizzo, perché se non fosse successa questa cosa, oggi non sapremmo nemmeno che l’aeroporto di Linate, decisamente fuori mano per un clochard, in questi giorni di freddo intenso stava probabilmente salvando la vita a molti di loro.

La prossima volta che leggeremo di un barbone morto assiderato, cosa che capita almeno una volta all’anno a Milano, non stupiamoci ancora per l’accaduto, piuttosto chiediamoci cosa abbiamo fatto noi per evitarlo.

10 EURO PER UNA NOTTE AL CLOCHARD HOTEL LINATE

DI PIERLUIGI PENNATI
https://alganews.wordpress.com/
pierluigi-pennati
Il racket della disperazione colpisce i senzatetto all’aeroporto di Milano Linate: da quanto appreso sembra che la società di gestione aeroportuale consenta tacitamente, quando l’aeroporto è vuoto nelle ore notturne e di minor traffico, ai clochard di poter dormire in esso senza rischiare l’assideramento e qualcuno riesce persino ad approfittarne.
I senzatetto che dormono per terra possono non piacere ai pochissimi passeggeri di passaggio nella notte, ma è certamente un bel gesto altruista da non sottovalutare da parte della società che gestisce l’aeroporto, la sorpresa, però, arriva quando qualcuno scopre che, per poter dormire in una zona pubblica, un clochard deve addirittura pagare il pizzo ad una banda organizzata che ha preso possesso illegalmente degli spazi riscaldati e gestisce il pavimento come se ci si trovasse in un vero hotel e vende persino le coperte.
Quattro i sospetti “gestori”, tre donne ed un uomo probabilmente di nazionalità ROM, che non solo stazionavano permanentemente in aerostazione, ma addirittura facevano le ronde per organizzare i “posti letto” affinchè nessuno sfuggisse al controllo.
20 euro una coperta e 10 euro anticipati a notte, che fanno circa 300 euro al mese, praticamente un affitto in nero, pagato per avere qualcosa che in altre parti della città è possibile avere gratuitamente affidandosi ai servizi di ospitalità notturna gestiti da Comune di Milano ed associazioni varie di volontariato. Il più famoso tra tutti quello fondato da Fratel Ettore Boschini, da sempre un punto di riferimento metropolitano per tutti i clochard.
Ma altre mille domande affiorano: come è possibile che una banda di persone qualsiasi possa controllare un’area che dovrebbe già essere sotto controllo delle istituzioni per ragioni di sicurezza, vale a dire un aeroporto, obiettivo sensibile, sorvegliato e presidiato per impedire attentati e crimini di ogni genere.
Come avviene l’esodo, gli aeroporti non sono mai in aree cittadine ed in qualche modo i senzatetto devono potersi spostare e sopravvivere durante il giorno, possibile che questi vivessero tutto il giorno nell’edificio senza che nessuno si accorgesse della cosa?
Cosa spinge i senzatetto a fasi spillare quattrini da una banda di senza cuore e senza scrupoli che, smascherati dal cronista, dichiarano che l’Italia è una m.rda, dimostrando tutta l’attenzione che possono avere perso le persone e l’ambiente che li accoglie.
Risposte difficili da fornire, resta il fatto che siamo tutti ormai così insensibili alla disperazione che lo scandalo vero arriva solo quando al povero si chiede il pizzo, perché se non fosse successa questa cosa, oggi non sapremmo nemmeno che l’aeroporto di Linate, decisamente fuori mano per un clochard, in questi giorni di freddo intenso stava probabilmente salvando la vita a molti di loro.
La prossima volta che leggeremo di un barbone morto assiderato, cosa che capita almeno una volta all’anno a Milano, non stupiamoci ancora per l’accaduto, piuttosto chiediamoci cosa abbiamo fatto noi per evitarlo.

QUANDO LA CRONACA FA SCIOPERO, LO SCIOPERO NON FA CRONACA

DI PIERLUIGI PENNATI
https://alganews.wordpress.com/
pierluigi-pennati
Di solito sono chiamati a fare le cronache degli scioperi, questa volta, invece, tocca a loro scioperare e se anche la cronaca sciopera lo sciopero non fa più cronaca.
Già, perché se è il cronista a scioperare chi ne parla?
Nell’indifferenza più totale degli altri media l’assemblea dei giornalisti di Sky TG24 ha prima votato all’unanimità uno sciopero di 24 ore contro il piano di licenziamenti e trasferimenti comunicato dall’azienda e poi eseguito dalle 12 di oggi, martedì 24 gennaio, fino alla stessa ora di domani.
Quello che succede è ormai storia nota in molti ambienti, un piano di licenziamenti e trasferimenti mina l’organizzazione del lavoro e la stabilità delle famiglie coinvolte, le rivendicazioni sono altrettanto banali, qualità e credibilità del servizio in testa.
Il problema, però, non è se questi lavoratori siano stati fino ad ora dei privilegiati, se comunque sopravvivranno ai trasferimenti o se il loro servizio sia così importante da doverlo cristallizzare così com’è nei secoli dei secoli, il problema è che queste cose avvengono ormai in ogni situazione aziendale senza nemmeno più fare notizia, nemmeno quando sono coloro che diffondono le notizie ad esserne colpiti.
Le ragioni della ristrutturazione non sono state diffuse con il comunicato di sciopero, ma a questi professionisti deve andare la solidarietà che dovrebbe essere data a tutti i lavoratori onesti che si guadagnano da vivere, invece, giorno per giorno, perdiamo la sensibilità a qualsiasi notizia che non ci faccia saltare letteralmente dalla sedia e così perdiamo a poco a poco non solo pezzi di società e di cultura, ma la nostra identità e la nostra dignità: con tutti quelli che perdono il lavoro oggi, cosa vuoi che siano quattro spostamenti e/o licenziamenti.
Alla fine molti diranno che è colpa loro, non si sono mossi in tempo, non sanno gestire la cosa ed in fondo erano dei privilegiati.
Non lasciamoci sopraffare dall’indifferenza e dall’analfabetismo funzionale, salviamo la nostra società, per intero: solidarietà ai giornalisti di Sky TG24, che possano tornare a raccontare la loro avventura al passato e quella di quanti, come loro, la vivranno in futuro, purtroppo al presente. Senza discriminazioni.

LA CONSULTA PERDE LA PAZIENZA

DI PIERLUIGI PENNATI
https://alganews.wordpress.com/
pierluigi-pennati
È caldo fin dal principio il clima all’udienza della Corte Costituzionale dedicata ai cinque ricorsi contro l’Italicum, la legge elettorale varata dal governo Renzi, l’avvocato dei ricorrenti, Vincenzo Palumbo, attacca a tutto campo ed accusa che ci sono voluti «8 anni per bocciare il Porcellum, col quale si è fatto in tempo ad eleggere 3 Parlamenti…e adesso l’Avvocatura generale dello Stato ci dice che non si può valutare la costituzionalità dell’Italicum perché è una legge che non è mai stata applicata!»
L’avvocato Palumbo è prolisso e non risparmia accuse, tanto che Presidente della Corte, Paolo Grossi, prima invita alla brevità, poi chiede di concludere per «non esasperare la Corte» arrivando fino alle minacce dicendo «state abusando della nostra pazienza».
Grossi ripete anche più volte di non fare «considerazioni che esorbitano dal piano giuridico della questione: evitiamo concioni (riunioni n.d.r.) politiche e limitiamo a questioni giuridiche», e chiede di rispettare due principi: «Primo, le esposizioni in quest’aula devono essere orali, le memorie sono agli atti. Secondo, siccome, parleranno altri cinque avvocati, invito a non esporre argomentazioni. Auspichiamo che avvenga presto la possibilità di sedere in camera di consiglio e poter deliberare», «tenete conto che la Corte deve lavorare non solo in udienza. Auspichiamo di poter lavorare presto anche in camera di consiglio».
L’udienza è durata dalle 9:30 alle 13, nel corso della quale la Corte, tredici giudici presenti, essendo dimissionario Giuseppe Frigo e assente Alessandro Criscuolo, ha per prima cosa ritenuto inammissibile l’intervento del Codacons perché tardivo, essendo giunto oltre i termini di tempo prestabiliti, e dopo aver letto le motivazioni della decisione, la seconda parte della seduta pubblica è stata dedicata alle questioni di merito con il relatore Nicolò Zanon chiamato a illustrare le posizioni dei tribunali ricorrenti e dell’Avvocatura dello Stato, che rappresenta la presidenza del Consiglio dei ministri.
Dalla parte del fronte anti Italicum l’avvocato Felice Besostri ha chiesto ai giudici di valutare che l’approvazione dell’Italicum avvenne col voto di fiducia mentre le leggi elettorali dovrebbero figurare nei regolamenti parlamentari tra quelle per cui la modalità dovrebbe essere esclusa: «Se questo è il ragionamento, questo vuol dire lasciare aperta per il legislatore la possibilità di approvare con la fiducia norme incostituzionali». Inoltre Besostri ha ricordato che il Porcellum, pur essendo incostituzionale, fu già usato in ben tre tornate elettorali e «questo non deve accadere più, «se le prossime elezioni dovessero essere fatte con legge incostituzionale, la democrazia sarebbe in pericolo», ha detto.
Nel dibattito spunta anche il parere del barbiere dell’avvocato Lorenzo Acquarone che, replicando alla posizione dell’Avvocatura di Stato di non poter valutare se l’Italicum abbia arrecato o meno danni ai cittadini visto che non è ancora entrata in vigore, ha replicato: “Il mio barbiere mi ha chiesto: Dunque, se si fa una legge sulla pena capitale, per sapere se è costituzionale bisogna prima aspettare che sia applicata la pena di morte e poi, una volta che il condannato è morto, decidere se era o no costituzionale ucciderlo? Mi pare un ottimo esempio”.
La seduta è stata aggiornata alle 16 di oggi pomeriggio e dopo i legali dei ricorrenti sarà la volta dell’avvocatura dello Stato esporre le sue tesi, per concludere con repliche, al termine delle quali i giudici si chiuderanno in camera di consiglio per la decisione finale.
Il verdetto è atteso al massimo entro mercoledì, per raggiungere il quale la corte ha già rinviato tutte le udienze in calendario per i prossimi due giorni, mentre le motivazioni saranno emesse entro i 30 giorni successivi.

QUANDO LA CRONACA FA SCIOPERO, LO SCIOPERO NON FA CRONACA

Di solito sono chiamati a fare le cronache degli scioperi, questa volta, invece, tocca a loro scioperare e se anche la cronaca sciopera lo sciopero non fa più cronaca.

Già, perché se è il cronista a scioperare chi ne parla?

Nell’indifferenza più totale degli altri media l’assemblea dei giornalisti di Sky TG24 ha prima votato all’unanimità uno sciopero di 24 ore contro il piano di licenziamenti e trasferimenti comunicato dall’azienda e poi eseguito dalle 12 di oggi, martedì 24 gennaio, fino alla stessa ora di domani.

Quello che succede è ormai storia nota in molti ambienti, un piano di licenziamenti e trasferimenti mina l’organizzazione del lavoro e la stabilità delle famiglie coinvolte, le rivendicazioni sono altrettanto banali, qualità e credibilità del servizio in testa.

Il problema, però, non è se questi lavoratori siano stati fino ad ora dei privilegiati, se comunque sopravvivranno ai trasferimenti o se il loro servizio sia così importante da doverlo cristallizzare così com’è nei secoli dei secoli, il problema è che queste cose avvengono ormai in ogni situazione aziendale senza nemmeno più fare notizia, nemmeno quando sono coloro che diffondono le notizie ad esserne colpiti.

Le ragioni della ristrutturazione non sono state diffuse con il comunicato di sciopero, ma a questi professionisti deve andare la solidarietà che dovrebbe essere data a tutti i lavoratori onesti che si guadagnano da vivere, invece, giorno per giorno, perdiamo la sensibilità a qualsiasi notizia che non ci faccia saltare letteralmente dalla sedia e così perdiamo a poco a poco non solo pezzi di società e di cultura, ma la nostra identità e la nostra dignità: con tutti quelli che perdono il lavoro oggi, cosa vuoi che siano quattro spostamenti e/o licenziamenti.

Alla fine molti diranno che è colpa loro, non si sono mossi in tempo, non sanno gestire la cosa ed in fondo erano dei privilegiati.

Non lasciamoci sopraffare dall’indifferenza e dall’analfabetismo funzionale, salviamo la nostra società, per intero: solidarietà ai giornalisti di Sky TG24, che possano tornare a raccontare la loro avventura al passato e quella di quanti, come loro, la vivranno in futuro, purtroppo al presente. Senza discriminazioni.

LA CONSULTA PERDE LA PAZIENZA

È caldo fin dal principio il clima all’udienza della Corte Costituzionale dedicata ai cinque ricorsi contro l’Italicum, la legge elettorale varata dal governo Renzi, l’avvocato dei ricorrenti, Vincenzo Palumbo, attacca a tutto campo ed accusa che ci sono voluti «8 anni per bocciare il Porcellum, col quale si è fatto in tempo ad eleggere 3 Parlamenti…e adesso l’Avvocatura generale dello Stato ci dice che non si può valutare la costituzionalità dell’Italicum perché è una legge che non è mai stata applicata!»

L’avvocato Palumbo è prolisso e non risparmia accuse, tanto che Presidente della Corte, Paolo Grossi, prima invita alla brevità, poi chiede di concludere per «non esasperare la Corte» arrivando fino alle minacce dicendo «state abusando della nostra pazienza».

Grossi ripete anche più volte di non fare «considerazioni che esorbitano dal piano giuridico della questione: evitiamo concioni (riunioni n.d.r.) politiche e limitiamo a questioni giuridiche», e chiede di rispettare due principi: «Primo, le esposizioni in quest’aula devono essere orali, le memorie sono agli atti. Secondo, siccome, parleranno altri cinque avvocati, invito a non esporre argomentazioni. Auspichiamo che avvenga presto la possibilità di sedere in camera di consiglio e poter deliberare», «tenete conto che la Corte deve lavorare non solo in udienza. Auspichiamo di poter lavorare presto anche in camera di consiglio».

L’udienza è durata dalle 9:30 alle 13, nel corso della quale la Corte, tredici giudici presenti, essendo dimissionario Giuseppe Frigo e assente Alessandro Criscuolo, ha per prima cosa ritenuto inammissibile l’intervento del Codacons perché tardivo, essendo giunto oltre i termini di tempo prestabiliti, e dopo aver letto le motivazioni della decisione, la seconda parte della seduta pubblica è stata dedicata alle questioni di merito con il relatore Nicolò Zanon chiamato a illustrare le posizioni dei tribunali ricorrenti e dell’Avvocatura dello Stato, che rappresenta la presidenza del Consiglio dei ministri.

Dalla parte del fronte anti Italicum l’avvocato Felice Besostri ha chiesto ai giudici di valutare che l’approvazione dell’Italicum avvenne col voto di fiducia mentre le leggi elettorali dovrebbero figurare nei regolamenti parlamentari tra quelle per cui la modalità dovrebbe essere esclusa: «Se questo è il ragionamento, questo vuol dire lasciare aperta per il legislatore la possibilità di approvare con la fiducia norme incostituzionali». Inoltre Besostri ha ricordato che il Porcellum, pur essendo incostituzionale, fu già usato in ben tre tornate elettorali e «questo non deve accadere più, «se le prossime elezioni dovessero essere fatte con legge incostituzionale, la democrazia sarebbe in pericolo», ha detto.

Nel dibattito spunta anche il parere del barbiere dell’avvocato Lorenzo Acquarone che, replicando alla posizione dell’Avvocatura di Stato di non poter valutare se l’Italicum abbia arrecato o meno danni ai cittadini visto che non è ancora entrata in vigore, ha replicato: “Il mio barbiere mi ha chiesto: Dunque, se si fa una legge sulla pena capitale, per sapere se è costituzionale bisogna prima aspettare che sia applicata la pena di morte e poi, una volta che il condannato è morto, decidere se era o no costituzionale ucciderlo? Mi pare un ottimo esempio”.

La seduta è stata aggiornata alle 16 di oggi pomeriggio e dopo i legali dei ricorrenti sarà la volta dell’avvocatura dello Stato esporre le sue tesi, per concludere con repliche, al termine delle quali i giudici si chiuderanno in camera di consiglio per la decisione finale.

Il verdetto è atteso al massimo entro mercoledì, per raggiungere il quale la corte ha già rinviato tutte le udienze in calendario per i prossimi due giorni, mentre le motivazioni saranno emesse entro i 30 giorni successivi.

PER FORTUNA HA VINTO TRUMP

Chi pensa che Trump mi possa piacere si sbaglia di grosso, però devo ammettere che nemmeno la Clinton mi faceva impazzire e tra i due, alla fine, il meno peggio a me è sembrato fin dall’inizio proprio Trump.

Perché? Semplice, è un populista di destra riconosciuto e queste sono due garanzie non da poco.

Mi spiego meglio, da mio punto di osservazione mi è sembrato di capire che la destra non ha mai avuto vita di governo facile in nessun stato democratico e solo quando si trasforma in dittatura è in grado di nuocere, altrimenti gli attivisti di sinistra, che sono sempre più numerosi ed attivi di quelli di destra, gli impediscono, o quasi, qualsiasi attività che sia contraria al benessere della nazione e del popolo.

Al contrario la sinistra, che non gode di questa opposizione decisa, si prende più spesso delle libertà.

Un esempio su tutti potrebbe venire dall’impegno politico e di governo di Silvio Berlusconi che, dichiaratosi di centro destra, ad ogni sua affermazione provocava, ed in fondo ancora oggi provoca, sollevazioni popolari, così che la maggior parte dei suoi provvedimenti non sono mai riusciti a toccare davvero profondamente i diritti fondamentali degli italiani, pensioni, retribuzioni e precarietà davanti a tutti, che semmai sono leggermente lievitati “quando c’era lui” e che sono stati, invece, ripetutamente e duramente colpiti durante i governi “tecnici” o di centro sinistra, pensioni, retribuzione e precarietà davanti a tutti.

Così, senza analizzare a fondo il fenomeno, se oggi ringraziamo genericamente Renzi, Monti e Fornero per i tagli economici ed il precariato, non facciamo altrettanto con Berlusconi per le pensioni minime innalzate e l’incremento, seppur minimo, del welfare da lui realizzato.

A questo punto dovrei dire che mi piace Berlusconi: ma nemmeno per sogno!

Dico, però, che se ho di fronte un avversario che riconosco come tale lo tengo sotto controllo e lo pedino passo passo, mentre se ho al governo un “amico” mi distraggo facilmente, così l’amico può danneggiarmi, se vuole, più del nemico.

Inoltre se critico la destra, tutti penseranno che è perché ricorda in qualche modo il fascismo, ma se critico la sinistra con gli stessi argomenti il fascista lo divento io, eppure ho fatto la stesse critiche ma evidentemente è l’obiettivo a determinare la posizione e non l’oratore.

Così l’America Federale moderna tra la moglie di colui che ha costruito il muro al confine con il Messico e portato avanti una politica economica a favore delle grandi lobby economiche e di potere e l’industriale che si è fatto da sé, simbolo da sempre del “sogno americano”, che dà lavoro a moltissime persone e non ha necessità di arricchire ancora ha scelto il secondo, forse anche nella speranza che possa liberarla dalla morsa delle banche e del potere fittizio che oggi la attanaglia.

Bene, quindi, che vi sia un’opposizione forte in quello stato, bene che vi sia un presidente da osteggiare e bene che vi sia un sistema democratico a garanzia, altrimenti gli USA ed il mondo continuerebbero la loro corsa scellerata verso il nulla speculativo e la povertà globale.

Francamente non credo che Trump sarà in grado di relegare tutte le donne a fare la calza o stiparle in postriboli, così come non potrà chiudere le frontiere e non riuscirà ad imporre alcuna dittatura interna o dichiarare guerra a qualche stato, solo od al fianco di altre potenze mondiali, al contrario, proprio perché sarà costantemente sotto osservazione, Trump rischia di essere il miglior presidente degli Stati Uniti degli ultimi anni, anche se non ci è tanto simpatico.

L’insediamento ha già promesso bene, evidenziando le prime contraddizioni, il concerto disertato dai grandi nomi ed un discorso di insediamento apparso a tutti ancora da campagna elettorale, con quel “Make America Great Again”, abbreviato alle volte in MAGA, ripetuto fino alla fine.

Quella di non mollare mai deve essere una mania dei miliardari, anche il Silvio nazionale durante il suo governo continuava a rimarcare i successi e le prospettive, confermando che l’imprenditoria e la politica hanno spesso attitudini opposte, una tende a svilupparsi senza fine, l’altra a fermarsi ai risultati ottenuti.

Solo il tempo ci dirà come andrà a finire, ma se questi sono i presupposti forse non faremmo così male a dire anche noi: benvenuto presidente Trump!

PER FORTUNA HA VINTO TRUMP

DI PIERLUIGI PENNATI
https://alganews.wordpress.com/
pierluigi-pennati
Chi pensa che Trump mi possa piacere si sbaglia di grosso, però devo ammettere che nemmeno la Clinton mi faceva impazzire e tra i due, alla fine, il meno peggio a me è sembrato fin dall’inizio proprio Trump.
Perché? Semplice, è un populista di destra riconosciuto e queste sono due garanzie non da poco.
Mi spiego meglio, da mio punto di osservazione mi è sembrato di capire che la destra non ha mai avuto vita di governo facile in nessun stato democratico e solo quando si trasforma in dittatura è in grado di nuocere, altrimenti gli attivisti di sinistra, che sono sempre più numerosi ed attivi di quelli di destra, gli impediscono, o quasi, qualsiasi attività che sia contraria al benessere della nazione e del popolo.
Al contrario la sinistra, che non gode di questa opposizione decisa, si prende più spesso delle libertà.
Un esempio su tutti potrebbe venire dall’impegno politico e di governo di Silvio Berlusconi che, dichiaratosi di centro destra, ad ogni sua affermazione provocava, ed in fondo ancora oggi provoca, sollevazioni popolari, così che la maggior parte dei suoi provvedimenti non sono mai riusciti a toccare davvero profondamente i diritti fondamentali degli italiani, pensioni, retribuzioni e precarietà davanti a tutti, che semmai sono leggermente lievitati “quando c’era lui” e che sono stati, invece, ripetutamente e duramente colpiti durante i governi “tecnici” o di centro sinistra, pensioni, retribuzione e precarietà davanti a tutti.
Così, senza analizzare a fondo il fenomeno, se oggi ringraziamo genericamente Renzi, Monti e Fornero per i tagli economici ed il precariato, non facciamo altrettanto con Berlusconi per le pensioni minime innalzate e l’incremento, seppur minimo, del welfare da lui realizzato.
A questo punto dovrei dire che mi piace Berlusconi: ma nemmeno per sogno!
Dico, però, che se ho di fronte un avversario che riconosco come tale lo tengo sotto controllo e lo pedino passo passo, mentre se ho al governo un “amico” mi distraggo facilmente, così l’amico può danneggiarmi, se vuole, più del nemico.
Inoltre se critico la destra, tutti penseranno che è perché ricorda in qualche modo il fascismo, ma se critico la sinistra con gli stessi argomenti il fascista lo divento io, eppure ho fatto la stesse critiche ma evidentemente è l’obiettivo a determinare la posizione e non l’oratore.
Così l’America Federale moderna tra la moglie di colui che ha costruito il muro al confine con il Messico e portato avanti una politica economica a favore delle grandi lobby economiche e di potere e l’industriale che si è fatto da sé, simbolo da sempre del “sogno americano”, che dà lavoro a moltissime persone e non ha necessità di arricchire ancora ha scelto il secondo, forse anche nella speranza che possa liberarla dalla morsa delle banche e del potere fittizio che oggi la attanaglia.
Bene, quindi, che vi sia un’opposizione forte in quello stato, bene che vi sia un presidente da osteggiare e bene che vi sia un sistema democratico a garanzia, altrimenti gli USA ed il mondo continuerebbero la loro corsa scellerata verso il nulla speculativo e la povertà globale.
Francamente non credo che Trump sarà in grado di relegare tutte le donne a fare la calza o stiparle in postriboli, così come non potrà chiudere le frontiere e non riuscirà ad imporre alcuna dittatura interna o dichiarare guerra a qualche stato, solo od al fianco di altre potenze mondiali, al contrario, proprio perché sarà costantemente sotto osservazione, Trump rischia di essere il miglior presidente degli Stati Uniti degli ultimi anni, anche se non ci è tanto simpatico.
L’insediamento ha già promesso bene, evidenziando le prime contraddizioni, il concerto disertato dai grandi nomi ed un discorso di insediamento apparso a tutti ancora da campagna elettorale, con quel “Make America Great Again”, abbreviato alle volte in MAGA, ripetuto fino alla fine.
Quella di non mollare mai deve essere una mania dei miliardari, anche il Silvio nazionale durante il suo governo continuava a rimarcare i successi e le prospettive, confermando che l’imprenditoria e la politica hanno spesso attitudini opposte, una tende a svilupparsi senza fine, l’altra a fermarsi ai risultati ottenuti.
Solo il tempo ci dirà come andrà a finire, ma se questi sono i presupposti forse non faremmo così male a dire anche noi: benvenuto presidente Trump!

STATO DI EMERGENZA O EMERGENZA DI STATO?

DI PIERLUIGI PENNATI
https://alganews.wordpress.com/
pierluigi-pennati
Ricordo che molti anni fa discutendo degli orari e dei turni di lavoro di un servizio di emergenza per il quale servivano al minimo due persone per fronteggiare efficacemente gli eventuali interventi, la soluzione fu trovata osservando che se durante gli eventi avversi servivano almeno due persone e nei periodi di attesa nessuna, la media matematica era di una persona permanentemente in servizio, e così fu, nonostante il mio deciso disaccordo.
La fortuna ha sempre voluto che non succedesse mai nulla di veramente grave da dover rimpiangere la decisione, mai cambiata, dimostrando che la scelta fu giusta perché alla fine la buona volontà, l’intraprendenza e qualche piccola polemica presto dimenticata risolvono tutte le situazioni. Economicamente è conveniente, ma il problema permane.
Il problema sono i conti che non quadrano mai, quello che manca, spesso, non sono i soldi, ma la volontà di investire in sicurezza e prevenzione, complice la bassa incidenza degli eventi avversi. Facciamo un esempio: che io ricordi ad Alghero nevicò per davvero una sola volta nel corso del secolo scorso, quindi aveva senso avere un servizio di spazzaneve in quel luogo? Forse no, ma in Abruzzo, dove la neve cade sempre abbondantemente, forse si, almeno per centri di competenza territoriale che possano intervenire in caso di emergenza.
Non dico questo per polemizzare coi soccorsi, ma è davvero possibile che, a parte lo scetticismo iniziale che ha fatto partire gli uomini con molto ritardo, in Abruzzo non abbiano una motoslitta, tanto che il soccorso alpino abruzzese ha dovuto raggiungere la struttura rimasta sotto la neve con gli sci alpinismo e le pelli di foca?
Eppure, quando mio figlio si storse una caviglia sciando, nonostante il brutto tempo, fu portato al pronto soccorso in motoslitta a tempo di record. Per raggiungere l’hotel Rigopiano di Farindola, invece, la colonna dei soccorsi parte in macchina e si impantana quasi subito ed addirittura si dice che gli spazzaneve abbiano terminato il gasolio a metà del percorso, rendendo necessario recuperarlo a piedi da parte dei vigili del fuoco, e che successivamente la cupa notte e poi il guasto dell’unica turbina durante le operazioni abbiano “rallentato” ulteriormente la marcia dei volonterosi.
Mi scuso con tutti i volontari coinvolti, ma più che la cronaca di una squadra di soccorso sembra la storia dell’armata Brancaleone. Possibile che in tutta la zona non ci fosse nemmeno una motoslitta? Possibile che nel 2017 in una delle potenze economiche riconosciute del mondo moderno i soccorsi debbano arrivare a piedi con le pelli di foca? Possibile che i guai capitino davvero tutti insieme e per caso?
Se devo fare una polemica la faccio certamente con coloro che pensano al salvataggio delle banche e non alle vite umane e se devo fare un elogio questo va sicuramente agli uomini del soccorso, che, nonostante sembrino abbandonati dalle istituzioni italiane, non si fermano davanti a nulla ed invece di lamentarsi per i pochi mezzi prendono le pelli di foca e proseguono a piedi.
Questo, però, non è uno stato di emergenza casuale, questa è una vera e propria emergenza di stato voluta e non mi riferisco solo ad un terremoto od ad una valanga, ma all’incapacità delle istituzioni di guardare alla persona, considerando sempre e solo l’interesse economico ed i bilanci.
Se in tempo di attesa non servono motoslitte ed in emergenza ne occorrono molte, forse vale la pena di comprarne almeno una, ma sappiamo bene che le casette di legno per i terremotati di Amatrice (forse) arriveranno solo oggi, a distanza di mesi dalle prime scosse e senza sapere se per “merito” del nuovo sisma che ha accelerato le consegne, quindi non facciamoci illusioni, la prevenzione costa denaro quando viene fatta e vite umane quando si fanno solo statistiche.
Preferisco vivere … con meno banche magari, ma vivere.

STATO DI EMERGENZA O EMERGENZA DI STATO?

Ricordo che molti anni fa discutendo degli orari e dei turni di lavoro di un servizio di emergenza per il quale servivano al minimo due persone per fronteggiare efficacemente gli eventuali interventi, la soluzione fu trovata osservando che se durante gli eventi avversi servivano almeno due persone e nei periodi di attesa nessuna, la media matematica era di una persona permanentemente in servizio, e così fu, nonostante il mio deciso disaccordo.
La fortuna ha sempre voluto che non succedesse mai nulla di veramente grave da dover rimpiangere la decisione, mai cambiata, dimostrando che la scelta fu giusta perché alla fine la buona volontà, l’intraprendenza e qualche piccola polemica presto dimenticata risolvono tutte le situazioni. Economicamente è conveniente, ma il problema permane.
Il problema sono i conti che non quadrano mai, quello che manca, spesso, non sono i soldi, ma la volontà di investire in sicurezza e prevenzione, complice la bassa incidenza degli eventi avversi. Facciamo un esempio: che io ricordi ad Alghero nevicò per davvero una sola volta nel corso del secolo scorso, quindi aveva senso avere un servizio di spazzaneve in quel luogo? Forse no, ma in Abruzzo, dove la neve cade sempre abbondantemente, forse si, almeno per centri di competenza territoriale che possano intervenire in caso di emergenza.
Non dico questo per polemizzare coi soccorsi, ma è davvero possibile che, a parte lo scetticismo iniziale che ha fatto partire gli uomini con molto ritardo, in Abruzzo non abbiano una motoslitta, tanto che il soccorso alpino abruzzese ha dovuto raggiungere la struttura rimasta sotto la neve con gli sci alpinismo e le pelli di foca?
Eppure, quando mio figlio si storse una caviglia sciando, nonostante il brutto tempo, fu portato al pronto soccorso in motoslitta a tempo di record. Per raggiungere l’hotel Rigopiano di Farindola, invece, la colonna dei soccorsi parte in macchina e si impantana quasi subito ed addirittura si dice che gli spazzaneve abbiano terminato il gasolio a metà del percorso, rendendo necessario recuperarlo a piedi da parte dei vigili del fuoco, e che successivamente la cupa notte e poi il guasto dell’unica turbina durante le operazioni abbiano “rallentato” ulteriormente la marcia dei volonterosi.
Mi scuso con tutti i volontari coinvolti, ma più che la cronaca di una squadra di soccorso sembra la storia dell’armata Brancaleone. Possibile che in tutta la zona non ci fosse nemmeno una motoslitta? Possibile che nel 2017 in una delle potenze economiche riconosciute del mondo moderno i soccorsi debbano arrivare a piedi con le pelli di foca? Possibile che i guai capitino davvero tutti insieme e per caso?
Se devo fare una polemica la faccio certamente con coloro che pensano al salvataggio delle banche e non alle vite umane e se devo fare un elogio questo va sicuramente agli uomini del soccorso, che, nonostante sembrino abbandonati dalle istituzioni italiane, non si fermano davanti a nulla ed invece di lamentarsi per i pochi mezzi prendono le pelli di foca e proseguono a piedi.
Questo, però, non è uno stato di emergenza casuale, questa è una vera e propria emergenza di stato voluta e non mi riferisco solo ad un terremoto od ad una valanga, ma all’incapacità delle istituzioni di guardare alla persona, considerando sempre e solo l’interesse economico ed i bilanci.
Se in tempo di attesa non servono motoslitte ed in emergenza ne occorrono molte, forse vale la pena di comprarne almeno una, ma sappiamo bene che le casette di legno per i terremotati di Amatrice (forse) arriveranno solo oggi, a distanza di mesi dalle prime scosse e senza sapere se per “merito” del nuovo sisma che ha accelerato le consegne, quindi non facciamoci illusioni, la prevenzione costa denaro quando viene fatta e vite umane quando si fanno solo statistiche.
Preferisco vivere … con meno banche magari, ma vivere.

VOLO MALAYSIAN MH370: GLI INVESTIGATORI SI ARRENDONO

DI PIERLUIGI PENNATI
https://alganews.wordpress.com/
pierluigi-pennati
Circa 150 milioni di dollari spesi  e tre anni di ricerche infruttuose da parte di tre stati, Malaysia, Cina ed ed Australia (la più vicina al punto delle ricerche) che hanno ammesso questa mattina la loro sconfitta attraverso un comunicato dell’agenzia che ha coordinato la task force e che ha perlustrato senza alcun risultato oltre 120.000 chilometri quadrati di oceano.
La Cina fu la più colpita, con oltre 150 passeggeri scomparsi sul totale di 239 persone a bordo, i parenti dei quali si dichiarano oggi disperati, ma il testo diramato dall’agenzia non lascia speranze: «La decisione di sospendere le ricerche subacquee non è stata presa alla leggera, né senza tristezza».
Nel marzo del 2014, il Ministro dei Trasporti Malese, Hishammuddin Hussein, aveva già dichiarato in conferenza stampa che il volo MH370 era “svanito”, aggiungendo “Non vi è alcuna reale precedente situazione come questa”.
Ma la definitiva rinuncia alle ricerche fa diventare il caso della sparizione anche il più grande mistero mai risolto della storia dell’aviazione, nonostante le promesse ripetute negli anni dai politici dei Paesi coinvolti.
L’investigazione era iniziata cercando di calcolare l’area più probabile del disastro, poi la ricerca fallita delle scatole nere ed alla fine l’estensione dell’area di ricerca sulla base di sempre nuove analisi dei dati disponibili.
L’unica certezza che rimane è che il Boeing sia precipitato nell’Oceano Indiano, alcuni detriti ad esso attribuiti sono arrivati fino all’isola di Reunion, migliaia di chilometri distante dall’area di ricerca ad est del Madagascar, e più di venti altri piccoli resti compatibili con l’MH 370 ritrovati in altre spiagge.
Le ricerche sospese lasciano aperto un nuovo interrogativo arrivato solo poche settimane fa da altri analisti australiani secondo i quali il punto dell’impatto nell’oceano potrebbe essere più a nord.
Ma il denaro stanziato è terminato insieme all’interesse dei governi, anche se il Ministro dei Trasporti Australiano Darren Chester ha dichiarato che i costi non sono stati un fattore importante per la sospensione delle ricerche e che ogni decisione per continuare gli sforzi sottomarini resta principalmente nella responsabilità del governo Malese che, dal canto suo, dice di considerare il fermo delle indagini un’umiliazione, ma che la totale inutilità delle ricerche ha fatto prendere la decisione definitiva.
L’area perlustrata passando al setaccio fondali fino a 6 mila metri ed in condizioni atmosferiche con onde alte fino 20 metri è ampia come quasi la metà della nostra penisola.
Le polemiche con i parenti delle vittime avevano persino anche incrinato i rapporti tra Malesia e Cina ed oggi, alla notizia della cessazione delle ricerche, la reazione non è stata ancora una volta tenera: la figlia di una vittima ha detto che «Non è una situazione accettabile. Come si può permettere che accada una cosa del genere e lasciarla insoluta?» e Voice 370, un gruppo nato per il sostegno ai parenti, ha affermato in un comunicato che «fermare le ricerche a questo punto è a dir poco irresponsabile».
Nessuna sicura ipotesi anche per i motivi del disastro, gli investigatori avevano accertato che l’aereo aveva eseguito una virata volontaria verso sud-ovest, precipitando poi a causa del carburante esaurito dopo sette ore di volo, quindi restano aperte tutte le ipotesi, dal suicidio di almeno uno dei piloti a quella del dirottamento che, come per il luogo dove si trova l’aereo, rimarranno per ora avvolte nel mistero.

VOLO MALAYSIAN MH370: GLI INVESTIGATORI SI ARRENDONO

Circa 150 milioni di dollari spesi  e tre anni di ricerche infruttuose da parte di tre stati, Malaysia, Cina ed ed Australia (la più vicina al punto delle ricerche) che hanno ammesso questa mattina la loro sconfitta attraverso un comunicato dell’agenzia che ha coordinato la task force e che ha perlustrato senza alcun risultato oltre 120.000 chilometri quadrati di oceano.

La Cina fu la più colpita, con oltre 150 passeggeri scomparsi sul totale di 239 persone a bordo, i parenti dei quali si dichiarano oggi disperati, ma il testo diramato dall’agenzia non lascia speranze: «La decisione di sospendere le ricerche subacquee non è stata presa alla leggera, né senza tristezza».

Nel marzo del 2014, il Ministro dei Trasporti Malese, Hishammuddin Hussein, aveva già dichiarato in conferenza stampa che il volo MH370 era “svanito”, aggiungendo “Non vi è alcuna reale precedente situazione come questa”.

Ma la definitiva rinuncia alle ricerche fa diventare il caso della sparizione anche il più grande mistero mai risolto della storia dell’aviazione, nonostante le promesse ripetute negli anni dai politici dei Paesi coinvolti.

L’investigazione era iniziata cercando di calcolare l’area più probabile del disastro, poi la ricerca fallita delle scatole nere ed alla fine l’estensione dell’area di ricerca sulla base di sempre nuove analisi dei dati disponibili.

L’unica certezza che rimane è che il Boeing sia precipitato nell’Oceano Indiano, alcuni detriti ad esso attribuiti sono arrivati fino all’isola di Reunion, migliaia di chilometri distante dall’area di ricerca ad est del Madagascar, e più di venti altri piccoli resti compatibili con l’MH 370 ritrovati in altre spiagge.

Le ricerche sospese lasciano aperto un nuovo interrogativo arrivato solo poche settimane fa da altri analisti australiani secondo i quali il punto dell’impatto nell’oceano potrebbe essere più a nord.

Ma il denaro stanziato è terminato insieme all’interesse dei governi, anche se il Ministro dei Trasporti Australiano Darren Chester ha dichiarato che i costi non sono stati un fattore importante per la sospensione delle ricerche e che ogni decisione per continuare gli sforzi sottomarini resta principalmente nella responsabilità del governo Malese che, dal canto suo, dice di considerare il fermo delle indagini un’umiliazione, ma che la totale inutilità delle ricerche ha fatto prendere la decisione definitiva.

L’area perlustrata passando al setaccio fondali fino a 6 mila metri ed in condizioni atmosferiche con onde alte fino 20 metri è ampia come quasi la metà della nostra penisola.

Le polemiche con i parenti delle vittime avevano persino anche incrinato i rapporti tra Malesia e Cina ed oggi, alla notizia della cessazione delle ricerche, la reazione non è stata ancora una volta tenera: la figlia di una vittima ha detto che «Non è una situazione accettabile. Come si può permettere che accada una cosa del genere e lasciarla insoluta?» e Voice 370, un gruppo nato per il sostegno ai parenti, ha affermato in un comunicato che «fermare le ricerche a questo punto è a dir poco irresponsabile».

Nessuna sicura ipotesi anche per i motivi del disastro, gli investigatori avevano accertato che l’aereo aveva eseguito una virata volontaria verso sud-ovest, precipitando poi a causa del carburante esaurito dopo sette ore di volo, quindi restano aperte tutte le ipotesi, dal suicidio di almeno uno dei piloti a quella del dirottamento che, come per il luogo dove si trova l’aereo, rimarranno per ora avvolte nel mistero.

LA BREXIT RISCHIA DI RIACCENDERE IL CONFLITTO IN IRLANDA DEL NORD

La situazione è calda in Irlanda del Nord, le dimissioni del primo ministro irlandese, il repubblicano cattolico Martin McGuinnes, hanno automaticamente provocato la caduta anche della prima ministra unionista protestante Arlene Foster, poiché in base all’accordo di pace fra protestanti e cattolici le due comunità devono governare assieme spartendosi contemporaneamente i poteri.

L’accusa è ufficialmente di conflitto di interessi in un affare legato alla gestione sbagliata di un programma di incentivi a fonti di energia rinnovabili, ma nella realtà come si è potuto giungere ad una così profonda crisi dopo tanti anni di stabilità politica sembra essere dovuto ai contrasti sempre più profondi ed incolmabili tra unionisti e repubblicani seguiti al voto sull’Unione Europea che ha diviso le due comunità: i protestanti sono convinti di voler uscire dall’Europa, mentre i nazionalisti cattolici vorrebbero fare di tutto per restarvi.

Oggi la premier Inglese Theresa May esporrà il piano di Londra per affrontare la Brexit, un piano in 12 punti che secondo le indiscrezioni porterà al divorzio netto da Bruxelles e dal mercato unico europeo. L’attesa per il suo intervento è alta anche in Irlanda del nord e comunque si risolverà la crisi sarà davvero difficile ricucire la spaccatura nonostante le elezioni anticipate al 2 marzo decise dal governo centrale di londra.

Mentre unionisti e repubblicani litigano potrebbe aumentare il pericolo delle frange estremiste, dato che le ferite lasciate da trent’anni di guerra settaria non si sono ancora del tutto rimarginate ed i fanatici da ambo le parti potrebbero tornare attivi e riprendere a colpire in un’Irlanda del nord ancora molto fragile.

LA BREXIT RISCHIA DI RIACCENDERE IL CONFLITTO IN IRLANDA DEL NORD

DI PIERLUIGI PENNATI
https://alganews.wordpress.com/
pierluigi-pennati
La situazione è calda in Irlanda del Nord, le dimissioni del primo ministro irlandese, il repubblicano cattolico Martin McGuinnes, hanno automaticamente provocato la caduta anche della prima ministra unionista protestante Arlene Foster, poiché in base all’accordo di pace fra protestanti e cattolici le due comunità devono governare assieme spartendosi contemporaneamente i poteri.
L’accusa è ufficialmente di conflitto di interessi in un affare legato alla gestione sbagliata di un programma di incentivi a fonti di energia rinnovabili, ma nella realtà come si è potuto giungere ad una così profonda crisi dopo tanti anni di stabilità politica sembra essere dovuto ai contrasti sempre più profondi ed incolmabili tra unionisti e repubblicani seguiti al voto sull’Unione Europea che ha diviso le due comunità: i protestanti sono convinti di voler uscire dall’Europa, mentre i nazionalisti cattolici vorrebbero fare di tutto per restarvi.
Oggi la premier Inglese Theresa May esporrà il piano di Londra per affrontare la Brexit, un piano in 12 punti che secondo le indiscrezioni porterà al divorzio netto da Bruxelles e dal mercato unico europeo. L’attesa per il suo intervento è alta anche in Irlanda del nord e comunque si risolverà la crisi sarà davvero difficile ricucire la spaccatura nonostante le elezioni anticipate al 2 marzo decise dal governo centrale di londra.
Mentre unionisti e repubblicani litigano potrebbe aumentare il pericolo delle frange estremiste, dato che le ferite lasciate da trent’anni di guerra settaria non si sono ancora del tutto rimarginate ed i fanatici da ambo le parti potrebbero tornare attivi e riprendere a colpire in un’Irlanda del nord ancora molto fragile.

ALLE IMPRESE SVIZZERE PIACE LA DEMOCRAZIA

DI PIERLUIGI PENNATI
https://alganews.wordpress.com/
pierluigi-pennati
Gli esempi di democrazia diretta nelle imprese non mancano certo nel mondo ed in Germania, lo stato già definito come “la locomotiva d’Europa”, questo si chiama “cogestione”, fornisce stabilità all’impiego ed avviene addirittura per legge, mentre da noi passa nel silenzio generale degli economisti italiani al governo che invece tendono a ridurre i diritti dei lavoratori e la loro stabilità.
Tutti sanno bene che la Germania è passata indenne, o quasi, anche alla riunificazione a seguito della quale è stato cambiato il Marco Tedesco dell’est, che non valeva la carta su cui era stampato, alla pari con quello dell’Ovest, da sempre tradizionalmente forte, eppure in questo paese così economicamente solito i lavoratori non sono hanno più diritti, ma le rappresentanze sindacali hanno persino un potere significativo nella gestione dell’azienda, anche se la giurisprudenza in materia di cogestione prevede il diritto di sola informazione, consultazione diretta e rappresentanza dei lavoratori nei processi decisionali, indicando precisamente quali siano gli ambiti decisionali per i quali i lavoratori devono essere informati, devono dare un’approvazione mediante votazione e quelli per i quali operano i loro rappresentanti.
Anche nella fredda e pragmatica Svezia, i lavoratori eleggono due o tre rappresentanti nel Comitato Esecutivo, ed hanno eventualmente altri referenti nell’audit aziendale, in Svizzera, invece, ultimamente c’è persino chi rivendica la democrazia diretta anche  sul posto di lavoro.
La Svizzera che tutti conoscono meglio per essere stata, ed in parte ancora esserlo, un paradiso fiscale, patria del formaggio e degli orologi, viene sperimentato da anni un modello di gestione aziendale per il quale i dipendenti possono nominare i loro superiori e se non sono contenti del loro operato, sfiduciarli.
Il tutto non in un’azienda famigliare, ma in una società che sviluppa software con più di 200 dipendenti nel Cantone San Gallo.
I titolari della società Umantis, dichiarano che il loro obiettivo è quello di migliorare l’ambiente lavorativo ma anche la produttività, per questo i loro dipendenti non si limitano ad eseguire gli ordini impartiti dai superiori ma vengono anche coinvolti in modo attivo in tutte le decisioni centrali per l’azienda.
Alla microfoni di Radio Svizzera Italiana il co-fondatore e presidente del consiglio di amministrazione di Umantis, Hermann Arnold, racconta che quattro anni fa aveva deciso di lasciare la direzione dell’azienda a favore del suo vice, “gli ho detto ti vedrei bene come mio successore, entrambi abbiamo però anche ritenuto che questo cambiamento doveva essere approvato dai collaboratori ai quali avrei potuto dire ‘ecco mi dimetto e questo è il vostro nuovo direttore’ ma non ci sembrava giusto ed abbiamo voluto sentire il parere del personale” e così, per la prima volta nel 2013, i dipendenti di Umantis hanno potuto designare il loro nuovo direttore. Da allora la nomina si ripete ogni anno e la prossima si terrà a fine mese.
Ma i dipendenti di Umantis non scelgono solo i membri della direzione, ma anche i responsabili delle varie divisioni e sono già capitate mancate riconferme: “anche per i dipendenti a volte non è facile togliere la fiducia ad un capo che si apprezza come persona ma che si ritiene non sia al posto giusto”, racconta Cornelia Huber del reparto vendite, aggiungendo che chi non viene rieletto solitamente rientra nel suo vecchio team.
Inoltre il personale,  fin dalla nascita dell’azienda avvenuta nel 2000, si esprime anche sulle nuove assunzioni, Arnold ha sempre sottoposto le decisioni strategiche agli impiegati ed afferma: “nel 2007/2008 anche noi siamo stati travolti dalla crisi e siamo stati costretti a risparmiare abbiamo proposto di ridurre lo stipendio dei membri della direzione del 20% e del 10% per tutti gli altri c’è stata una votazione e tutti hanno detto si”.
Il manager è un grande ammiratore della democrazia diretta elvetica e sostiene che strutture meno verticistiche e più democratiche rafforzano la motivazione e migliorano l’ambiente di lavoro e per questo ha recentemente deciso di estendere ulteriormente i diritti dei dipendenti introducendo in azienda il diritto di iniziativa e di referendum. “C’è ancora tanto da imparare e da fare, il mio obiettivo è quello di mettere a punto un modello di gestione aziendale che permette di creare un buon clima di lavoro per spronare tutti quanti a dare il meglio di se”.
Ma non sono solo rose e fiori, secondo il manager i dipendenti non hanno solo più diritti ma anche più responsabilità, “tentiamo di distribuire in modo equo i frutti del nostro lavoro, ma pretendiamo anche di più dai collaboratori visto che vengono coinvolti nel processo decisionale se c’è qualcosa che non funziona non possono semplicemente lamentarsi ed addossare tutte le colpe ai superiori il concetto piace ai dipendenti ciò che si ripercuote anche sull’andamento degli affari di Umantis nel 2000 quando è stata fondata l’azienda contava 4 collaboratori, oggi sono più di 200.”
Che dire, se la democrazia in azienda vale più della dittatura, forse varrebbe la pena di fare qualche riflessione anche nel nostro paese.

ALLE IMPRESE SVIZZERE PIACE LA DEMOCRAZIA

Gli esempi di democrazia diretta nelle imprese non mancano certo nel mondo ed in Germania, lo stato già definito come “la locomotiva d’Europa”, questo si chiama “cogestione”, fornisce stabilità all’impiego ed avviene addirittura per legge, mentre da noi passa nel silenzio generale degli economisti italiani al governo che invece tendono a ridurre i diritti dei lavoratori e la loro stabilità.

Tutti sanno bene che la Germania è passata indenne, o quasi, anche alla riunificazione a seguito della quale è stato cambiato il Marco Tedesco dell’est, che non valeva la carta su cui era stampato, alla pari con quello dell’Ovest, da sempre tradizionalmente forte, eppure in questo paese così economicamente solito i lavoratori non sono hanno più diritti, ma le rappresentanze sindacali hanno persino un potere significativo nella gestione dell’azienda, anche se la giurisprudenza in materia di cogestione prevede il diritto di sola informazione, consultazione diretta e rappresentanza dei lavoratori nei processi decisionali, indicando precisamente quali siano gli ambiti decisionali per i quali i lavoratori devono essere informati, devono dare un’approvazione mediante votazione e quelli per i quali operano i loro rappresentanti.

Anche nella fredda e pragmatica Svezia, i lavoratori eleggono due o tre rappresentanti nel Comitato Esecutivo, ed hanno eventualmente altri referenti nell’audit aziendale, in Svizzera, invece, ultimamente c’è persino chi rivendica la democrazia diretta anche  sul posto di lavoro.

La Svizzera che tutti conoscono meglio per essere stata, ed in parte ancora esserlo, un paradiso fiscale, patria del formaggio e degli orologi, viene sperimentato da anni un modello di gestione aziendale per il quale i dipendenti possono nominare i loro superiori e se non sono contenti del loro operato, sfiduciarli.

Il tutto non in un’azienda famigliare, ma in una società che sviluppa software con più di 200 dipendenti nel Cantone San Gallo.

I titolari della società Umantis, dichiarano che il loro obiettivo è quello di migliorare l’ambiente lavorativo ma anche la produttività, per questo i loro dipendenti non si limitano ad eseguire gli ordini impartiti dai superiori ma vengono anche coinvolti in modo attivo in tutte le decisioni centrali per l’azienda.

Alla microfoni di Radio Svizzera Italiana il co-fondatore e presidente del consiglio di amministrazione di Umantis, Hermann Arnold, racconta che quattro anni fa aveva deciso di lasciare la direzione dell’azienda a favore del suo vice, “gli ho detto ti vedrei bene come mio successore, entrambi abbiamo però anche ritenuto che questo cambiamento doveva essere approvato dai collaboratori ai quali avrei potuto dire ‘ecco mi dimetto e questo è il vostro nuovo direttore’ ma non ci sembrava giusto ed abbiamo voluto sentire il parere del personale” e così, per la prima volta nel 2013, i dipendenti di Umantis hanno potuto designare il loro nuovo direttore. Da allora la nomina si ripete ogni anno e la prossima si terrà a fine mese.

Ma i dipendenti di Umantis non scelgono solo i membri della direzione, ma anche i responsabili delle varie divisioni e sono già capitate mancate riconferme: “anche per i dipendenti a volte non è facile togliere la fiducia ad un capo che si apprezza come persona ma che si ritiene non sia al posto giusto”, racconta Cornelia Huber del reparto vendite, aggiungendo che chi non viene rieletto solitamente rientra nel suo vecchio team.

Inoltre il personale,  fin dalla nascita dell’azienda avvenuta nel 2000, si esprime anche sulle nuove assunzioni, Arnold ha sempre sottoposto le decisioni strategiche agli impiegati ed afferma: “nel 2007/2008 anche noi siamo stati travolti dalla crisi e siamo stati costretti a risparmiare abbiamo proposto di ridurre lo stipendio dei membri della direzione del 20% e del 10% per tutti gli altri c’è stata una votazione e tutti hanno detto si”.

Il manager è un grande ammiratore della democrazia diretta elvetica e sostiene che strutture meno verticistiche e più democratiche rafforzano la motivazione e migliorano l’ambiente di lavoro e per questo ha recentemente deciso di estendere ulteriormente i diritti dei dipendenti introducendo in azienda il diritto di iniziativa e di referendum. “C’è ancora tanto da imparare e da fare, il mio obiettivo è quello di mettere a punto un modello di gestione aziendale che permette di creare un buon clima di lavoro per spronare tutti quanti a dare il meglio di se”.

Ma non sono solo rose e fiori, secondo il manager i dipendenti non hanno solo più diritti ma anche più responsabilità, “tentiamo di distribuire in modo equo i frutti del nostro lavoro, ma pretendiamo anche di più dai collaboratori visto che vengono coinvolti nel processo decisionale se c’è qualcosa che non funziona non possono semplicemente lamentarsi ed addossare tutte le colpe ai superiori il concetto piace ai dipendenti ciò che si ripercuote anche sull’andamento degli affari di Umantis nel 2000 quando è stata fondata l’azienda contava 4 collaboratori, oggi sono più di 200.”

Che dire, se la democrazia in azienda vale più della dittatura, forse varrebbe la pena di fare qualche riflessione anche nel nostro paese.

PER FASSINA MEGLIO SOLI CHE MALE ACCOMPAGNATI

Il congresso di fondazione del partito non si è ancora tenuto, ma la discussione è già accesa all’interno di Sinistra Italiana, tanto che Stefano Fassina ha deciso persino di autosospendersi dal già nato gruppo parlamentare SI, ma avverte che non vuole strumentalizzazioni: “La discussione interna non può diventare occasione di battaglia congressuale. Dobbiamo trovare una posizione comune e costruttiva”.

La polemica sembra nascere dalla lettera inviata alla stampa dal capogruppo Arturo Scotto ed altri 15 parlamentari di Si a Giuliano Pisapia: “Quella lettera individua un problema vero, quello relativo al nostro posizionamento e al rapporto con il Pd, che però non può essere trasformato in un’iniziativa di battaglia congressuale. Di offese ne sono arrivate a valanga anche al sottoscritto, penso ad esempio a quando ero candidato a sindaco di Roma, ma un gruppo parlamentare serio ne discute e trova una posizione comune”.

L’on. Giovanni Paglia aveva definito sui social network gli estensori della lettera come “maggiordomi di Renzi” ed a chi chiede a Fassina se dopo il Pd voglia ora lasciare anche Sinistra Italiana, risponde: “Assolutamente no, il mio impegno continua sia nel partito che per il congresso fondativo di Sinistra Italiana a febbraio. Il punto è che dobbiamo imparare a discutere al nostro interno in modo più rispettoso”.

Dunque il congresso non sembra essere in discussione, infatti Fassina afferma che “il congresso si farà e servirà a fondare il partito e a chiarire da che parte stiamo, liberandoci da ogni ambiguità”,  il suo scopo, quindi è quello di chiarire le posizioni prima di cominciare con il piede sbagliato e prosegue dicendo “penso che si debba portare avanti una posizione di autonomia rispetto al Pd con un programma di profonda discontinuità programmatica sia dalla famiglia socialista europea dell’ultimo quarto di secolo e sia da quanto ha fatto il governo di Matteo Renzi in Italia”.

Non è quindi disponibile a diventare “la compagnia low cost del Pd”, preferendo uno stacco netto con il passato, “per ricostruire la rappresentanza del mondo del lavoro e del vasto e contraddittorio popolo delle periferie non è praticabile un rapporto con i democratici e nemmeno con l’area Campo progressista”.

Secondo Fassina  si deve stare “con quel popolo che reclama rappresentanza e che si è manifestato al referendum del 4 dicembre dicendo No. Propongo una politica di alleanze basata sui programmi, che non si preclude il rapporto con nessuno, nemmeno con il M5S”.

Sulla legge elettorale  si esprime considerando “meglio l’impianto proporzionale”, perché “garantisce i cittadini su chi li rappresenta” considerando la posizione di Matteo Renzi sulla scelta di un modello con il ballottaggio “una mossa tattica per poi arrivare a una mediazione”.

Per lui Renzi non ha cambiato direzione ,”il segretario PD rimuove la profondità dei problemi e conferma la linea di accreditamento del suo partito verso l’establishment. È surreale che Renzi continui a trovare di sinistra il Jobs act, penso che sia una scappatoia senza respiro il suo tentativo di motivare la valanga di No ricevuti dai giovani al referendum con l’eccesso di slide e la scarsa presenza di cuore: lui il cuore ce l’ha messo, ma batteva a destra”.

I sostenitori di Renzi non hanno tardato a reagire nel tentativo di alimentare la polemica e l’Unità ha subito titolato “Sinistra italiana, neanche è nata e già è divisa.”, ma per Fassina, che non vuole polemiche, è meglio soli che male accompagnati e, soprattutto, per il partito che sta per nascere sono necessarie chiarezza di azione ed iniziative.

TRUMP: INFANGANDO GLI ALTRI SI SEMBRA PIÙ PULITI

Sembra essere questa la strategia di insediamento del neoeletto presidente Trump, allontanare dall’America l’attenzione: in fondo se gli altri sono sporchi anche i nostri problemi sembreranno macchioline.

Così parlando con i quotidiani Bild (Germania) e Times (Inghilterra), attacca l’Europa, ed Angela Merkel in particolare, dicendo di lei «la rispetto e mi piace, ma credo che abbia fatto un errore catastrofico, lasciando entrare nel paese tutti questi illegali, nessuno sa da dove vengono, e lo scoprirete», e considerando l’Europa «un mezzo per raggiungere i fini della Germania», ha elogiato la Brexit, sostenendo che i Britannici sono stati pronti a reagire alla situazione ed anche la NATO non è stata risparmiata e definita «obsoleta».

Il segretario di Stato uscente John Kerry, però, ha difeso la Merkel definendo «coraggiose» le sue scelte sui profughi e preso le distanze da Trump definendo «inopportune» le sue parole.

Anche le risposte europee non si sono fatte attendere, senza però cadere troppo nella provocazione, Merkel risponde senza esitazione che «noi europei siamo padroni del nostro destino» e senza perdere la calma afferma anche che «quando Trump sarà in carica vedremo come potremo collaborare», nel frattempo dice di pensare «che noi europei abbiamo il nostro destino nelle nostre mani» e di continuare ad impegnarsi «affinché i 27 Stati membri collaborino in modo intenso e soprattutto rivolto al futuro».

La cancelliera aggiunge anche di voler aspettare l’insediamento del presidente americano per poter cooperare con la nuova amministrazione e vedere «che tipo di intese possiamo raggiungere», per Merkel la lotta al terrorismo è «una sfida globale», ma da tener nettamente separata dalla questione dei rifugiati.

Sulla NATO, Martin Schaefer, portavoce del ministero degli Esteri tedesco, ha detto in conferenza stampa che non è obsoleta ma un’istituzione «di grande significato per l’Europa e per tutti», mentre sul «dominio tedesco in Europa» di cui parla Trump ha voluto sottolineare che «l’Ue non è mai stata per la Germania uno strumento per raggiungere degli scopi, ma il destino di una comunità, rispetto al quale ci riconosciamo oggi più che mai».

Anche il presidente francese Hollande ha detto la sua e risposto che «l’Europa sarà sempre pronta a proseguire la cooperazione transatlantica ma questa si determinerà in funzione dei suoi interessi e dei suoi valori. Non ha bisogno di consigli dall’esterno che le dicano cosa fare».

Anche la Nato non tace, la portavoce Oana Lungescu afferma che «l’Alleanza è completamente fiduciosa sul fatto che la nuova amministrazione americana resti impegnata nella Nato», forte delle parole del segretario generale Jens Stoltenberg, che il 6 dicembre scorso ha dichiarato fiducia assoluta e garantita da un colloquio avuto con Trump poco dopo l’elezione, che «gli Stati Uniti vogliano conservare il loro impegno forte nella Nato, nei legami transatlantici e le garanzie di sicurezza per l’Europa».

È favorevole, invece, il parere di Dmitri Peskov, portavoce di Putin, che si è dichiarato d’accordo con Trump nel definire la Nato «una reliquia che difficilmente può essere definita moderna e in linea con le idee di stabilità e sicurezza», in quanto a sua parere avrebbe «come obiettivo sistemico lo scontro» ed affermato che non è attualmente in corso nessun negoziato sul disarmo nucleare.

Trump non sembra voler aspettare ad ingranare le marce alte e date le responsabilità che avrà da presidente americano speriamo che la sua partenza non sia subito “col botto”.

PER FASSINA MEGLIO SOLI CHE MALE ACCOMPAGNATI

DI PIERLUIGI PENNATI
https://alganews.wordpress.com/
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Il congresso di fondazione del partito non si è ancora tenuto, ma la discussione è già accesa all’interno di Sinistra Italiana, tanto che Stefano Fassina ha deciso persino di autosospendersi dal già nato gruppo parlamentare SI, ma avverte che non vuole strumentalizzazioni: “La discussione interna non può diventare occasione di battaglia congressuale. Dobbiamo trovare una posizione comune e costruttiva”.
La polemica sembra nascere dalla lettera inviata alla stampa dal capogruppo Arturo Scotto ed altri 15 parlamentari di Si a Giuliano Pisapia: “Quella lettera individua un problema vero, quello relativo al nostro posizionamento e al rapporto con il Pd, che però non può essere trasformato in un’iniziativa di battaglia congressuale. Di offese ne sono arrivate a valanga anche al sottoscritto, penso ad esempio a quando ero candidato a sindaco di Roma, ma un gruppo parlamentare serio ne discute e trova una posizione comune”.
L’on. Giovanni Paglia aveva definito sui social network gli estensori della lettera come “maggiordomi di Renzi” ed a chi chiede a Fassina se dopo il Pd voglia ora lasciare anche Sinistra Italiana, risponde: “Assolutamente no, il mio impegno continua sia nel partito che per il congresso fondativo di Sinistra Italiana a febbraio. Il punto è che dobbiamo imparare a discutere al nostro interno in modo più rispettoso”.
Dunque il congresso non sembra essere in discussione, infatti Fassina afferma che “il congresso si farà e servirà a fondare il partito e a chiarire da che parte stiamo, liberandoci da ogni ambiguità”,  il suo scopo, quindi è quello di chiarire le posizioni prima di cominciare con il piede sbagliato e prosegue dicendo “penso che si debba portare avanti una posizione di autonomia rispetto al Pd con un programma di profonda discontinuità programmatica sia dalla famiglia socialista europea dell’ultimo quarto di secolo e sia da quanto ha fatto il governo di Matteo Renzi in Italia”.
Non è quindi disponibile a diventare “la compagnia low cost del Pd”, preferendo uno stacco netto con il passato, “per ricostruire la rappresentanza del mondo del lavoro e del vasto e contraddittorio popolo delle periferie non è praticabile un rapporto con i democratici e nemmeno con l’area Campo progressista”.
Secondo Fassina  si deve stare “con quel popolo che reclama rappresentanza e che si è manifestato al referendum del 4 dicembre dicendo No. Propongo una politica di alleanze basata sui programmi, che non si preclude il rapporto con nessuno, nemmeno con il M5S”.
Sulla legge elettorale  si esprime considerando “meglio l’impianto proporzionale”, perché “garantisce i cittadini su chi li rappresenta” considerando la posizione di Matteo Renzi sulla scelta di un modello con il ballottaggio “una mossa tattica per poi arrivare a una mediazione”.
Per lui Renzi non ha cambiato direzione ,”il segretario PD rimuove la profondità dei problemi e conferma la linea di accreditamento del suo partito verso l’establishment. È surreale che Renzi continui a trovare di sinistra il Jobs act, penso che sia una scappatoia senza respiro il suo tentativo di motivare la valanga di No ricevuti dai giovani al referendum con l’eccesso di slide e la scarsa presenza di cuore: lui il cuore ce l’ha messo, ma batteva a destra”.
I sostenitori di Renzi non hanno tardato a reagire nel tentativo di alimentare la polemica e l’Unità ha subito titolato “Sinistra italiana, neanche è nata e già è divisa.”, ma per Fassina, che non vuole polemiche, è meglio soli che male accompagnati e, soprattutto, per il partito che sta per nascere sono necessarie chiarezza di azione ed iniziative.

TRUMP: INFANGANDO GLI ALTRI SI SEMBRA PIÙ PULITI

DI PIERLUIGI PENNATI
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Sembra essere questa la strategia di insediamento del neoeletto presidente Trump, allontanare dall’America l’attenzione: in fondo se gli altri sono sporchi anche i nostri problemi sembreranno macchioline.
Così parlando con i quotidiani Bild (Germania) e Times (Inghilterra), attacca l’Europa, ed Angela Merkel in particolare, dicendo di lei «la rispetto e mi piace, ma credo che abbia fatto un errore catastrofico, lasciando entrare nel paese tutti questi illegali, nessuno sa da dove vengono, e lo scoprirete», e considerando l’Europa «un mezzo per raggiungere i fini della Germania», ha elogiato la Brexit, sostenendo che i Britannici sono stati pronti a reagire alla situazione ed anche la NATO non è stata risparmiata e definita «obsoleta».
Il segretario di Stato uscente John Kerry, però, ha difeso la Merkel definendo «coraggiose» le sue scelte sui profughi e preso le distanze da Trump definendo «inopportune» le sue parole.
Anche le risposte europee non si sono fatte attendere, senza però cadere troppo nella provocazione, Merkel risponde senza esitazione che «noi europei siamo padroni del nostro destino» e senza perdere la calma afferma anche che «quando Trump sarà in carica vedremo come potremo collaborare», nel frattempo dice di pensare «che noi europei abbiamo il nostro destino nelle nostre mani» e di continuare ad impegnarsi «affinché i 27 Stati membri collaborino in modo intenso e soprattutto rivolto al futuro».
La cancelliera aggiunge anche di voler aspettare l’insediamento del presidente americano per poter cooperare con la nuova amministrazione e vedere «che tipo di intese possiamo raggiungere», per Merkel la lotta al terrorismo è «una sfida globale», ma da tener nettamente separata dalla questione dei rifugiati.
Sulla NATO, Martin Schaefer, portavoce del ministero degli Esteri tedesco, ha detto in conferenza stampa che non è obsoleta ma un’istituzione «di grande significato per l’Europa e per tutti», mentre sul «dominio tedesco in Europa» di cui parla Trump ha voluto sottolineare che «l’Ue non è mai stata per la Germania uno strumento per raggiungere degli scopi, ma il destino di una comunità, rispetto al quale ci riconosciamo oggi più che mai».
Anche il presidente francese Hollande ha detto la sua e risposto che «l’Europa sarà sempre pronta a proseguire la cooperazione transatlantica ma questa si determinerà in funzione dei suoi interessi e dei suoi valori. Non ha bisogno di consigli dall’esterno che le dicano cosa fare».
Anche la Nato non tace, la portavoce Oana Lungescu afferma che «l’Alleanza è completamente fiduciosa sul fatto che la nuova amministrazione americana resti impegnata nella Nato», forte delle parole del segretario generale Jens Stoltenberg, che il 6 dicembre scorso ha dichiarato fiducia assoluta e garantita da un colloquio avuto con Trump poco dopo l’elezione, che «gli Stati Uniti vogliano conservare il loro impegno forte nella Nato, nei legami transatlantici e le garanzie di sicurezza per l’Europa».
È favorevole, invece, il parere di Dmitri Peskov, portavoce di Putin, che si è dichiarato d’accordo con Trump nel definire la Nato «una reliquia che difficilmente può essere definita moderna e in linea con le idee di stabilità e sicurezza», in quanto a sua parere avrebbe «come obiettivo sistemico lo scontro» ed affermato che non è attualmente in corso nessun negoziato sul disarmo nucleare.
Trump non sembra voler aspettare ad ingranare le marce alte e date le responsabilità che avrà da presidente americano speriamo che la sua partenza non sia subito “col botto”.

LUXOTTICA: NON È PIÙ SOLO UNA MONTATURA

Leonardo Del Vecchio, “patron” di Luxottica non ha bisogno di occhiali, ci vede sempre bene, da quando ha iniziato la sua avventura con la società di Agordo.

Oggi lo scopo è fondere il leader delle montature con quello delle lenti. Perché? La risposta è nel comunicato del gruppo che dice che con questa operazione nascerà «un player integrato dedicato alla cura della vista e a creare un’esperienza di livello superiore per il consumatore. Insieme, Essilor e Luxottica saranno in una posizione migliore per offrire una risposta ai bisogni relativi alla vista di 7,2 miliardi di persone, 2,5 miliardi delle quali non hanno ancora accesso a una correzione visiva».

La stima del nuovo gruppo è di generare nel medio termine sinergie di ricavi e di costi per un ammontare tra i 400 e i 600 milioni di euro e di sviluppare ulteriormente l’integrazione ed i ricavi nel lungo termine.

La fusione ha un valore di 50 miliardi e si prospetta come la seconda operazione di fusione più importante cross border in Europa.

Del Vecchio dichiara di aver sognato questa fusione “da 50 anni”, aggiungendo che «Con questa operazione si concretizza il mio sogno di dare vita ad un campione nel settore dell’ottica totalmente integrato ed eccellente in ogni sua parte. Sapevamo da tempo che questa era la soluzione giusta ma solo ora sono maturate le condizioni che l’hanno resa possibile».

Per il presidente e CEO di Essilor, Hubert Sagnières, il progetto «si basa su una motivazione semplice: rispondere meglio ai bisogni di un’immensa popolazione mondiale relativi alla correzione e alla protezione della vista, unendo due grandi società, una dedicata alle lenti e l’altra alle montature».

Insomma il mercato degli occhiali è ancora grande ed il gruppo punta diritto ad esso, il termine dell’operazione è stimato per fine 2017, sapremo allora se si sia trattato solo di una “montatura”.

LUXOTTICA: NON È PIÙ SOLO UNA MONTATURA

DI PIERLUIGI PENNATI
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Leonardo Del Vecchio, “patron” di Luxottica non ha bisogno di occhiali, ci vede sempre bene, da quando ha iniziato la sua avventura con la società di Agordo.
Oggi lo scopo è fondere il leader delle montature con quello delle lenti. Perché? La risposta è nel comunicato del gruppo che dice che con questa operazione nascerà «un player integrato dedicato alla cura della vista e a creare un’esperienza di livello superiore per il consumatore. Insieme, Essilor e Luxottica saranno in una posizione migliore per offrire una risposta ai bisogni relativi alla vista di 7,2 miliardi di persone, 2,5 miliardi delle quali non hanno ancora accesso a una correzione visiva».
La stima del nuovo gruppo è di generare nel medio termine sinergie di ricavi e di costi per un ammontare tra i 400 e i 600 milioni di euro e di sviluppare ulteriormente l’integrazione ed i ricavi nel lungo termine.
La fusione ha un valore di 50 miliardi e si prospetta come la seconda operazione di fusione più importante cross border in Europa.
Del Vecchio dichiara di aver sognato questa fusione “da 50 anni”, aggiungendo che «Con questa operazione si concretizza il mio sogno di dare vita ad un campione nel settore dell’ottica totalmente integrato ed eccellente in ogni sua parte. Sapevamo da tempo che questa era la soluzione giusta ma solo ora sono maturate le condizioni che l’hanno resa possibile».
Per il presidente e CEO di Essilor, Hubert Sagnières, il progetto «si basa su una motivazione semplice: rispondere meglio ai bisogni di un’immensa popolazione mondiale relativi alla correzione e alla protezione della vista, unendo due grandi società, una dedicata alle lenti e l’altra alle montature».
Insomma il mercato degli occhiali è ancora grande ed il gruppo punta diritto ad esso, il termine dell’operazione è stimato per fine 2017, sapremo allora se si sia trattato solo di una “montatura”.

CEDRIC HERROU, QUANDO TI PORTA IL CUORE

DI PIERLUIGI PENNATI
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Può capitare che alla notizia che vi sono dei migranti che affrontano migliaia di chilometri in condizioni al limite della sopravvivenza, soffrendo in modo indicibile e rischiando la propria vita per un futuro non migliore, ma solo per un futuro che dove vivevano prima in qualche modo gli era negato, qualcuno di noi pensi che questo sia ingiusto, qualcun altro voglia fare qualcosa e pochi davvero la facciano, ma spingersi a sfidare da soli la legge perché il nostro cuore non sopporta la vista di tanta disperazione, capita davvero raramente.
Eppure a Cedric Herrou, una persona normale, giovane, barba, occhiali, un basco sempre in testa ed uno sguardo pulito, questa cosa è capitata qualche tempo fa e non guardando la TV, leggendo i giornali o navigando in rete, a lui è capitato lavorando.
Cedric Herrou è un contadino che coltiva olivi al confine tra Italia e Francia, lui le persone non le ha viste da dietro uno schermo, lui le ha incontrate, ha constatato che dormivano all’aperto, in condizioni disumane e che la loro disperazione era così grande da superare la paura di morire per strada.
Ecco che il suo cuore è scoppiato e lo ha costretto a fare qualcosa e per lui quel qualcosa è stato aiutare di persona quegli esseri umani abbandonati dagli stati più potenti del mondo, quegli stati che si incontrano per discutere del destino delle persone usando come sigla la lettera G maiuscola: Grandi.
Grandi davanti al mondo economico e piccoli, piccolissimi davanti all’umanità che soffre.
Cedric Herrou probabilmente non sa nulla di questo, lui ha 37 anni ed è un contadino che lavora la sua terra a Breil-sur-Roya, a pochi chilometri da Ventimiglia: uova, olio e olive che produce da solo.
Cedric Herrou, però, ha un cuore, un cuore che pulsa forte e che non ha retto davanti a tanto orrore e lo ha spinto a fare quello che, forse, non avrebbe mai pensato di fare: agire senza pensare, aiutare l’umano senza tener conto delle leggi degli uomini potenti. Dare una mano a quelle persone a sopravvivere.
Così dallo scorso marzo in poi ha aiutato almeno duecento migranti ad attraversare il confine tra Italia e Francia ed istigato 57 ad occupare un edificio in disuso delle SNCF per ripararsi dal freddo, solo che queste cose sono dichiarate illegali dal governo francese che lo ha posto adesso sotto processo per “aiuto all’ingresso, alla circolazione e al soggiorno di stranieri irregolari”. La pena prevede fino a 5 anni di reclusione e 30 mila euro di multa, ma la Procura di Nizza ha chiesto solo 8 mesi di carcere e la confisca del suo furgone.
Fuori dal tribunale il 4 gennaio scorso c’era una folla che lo acclamava come un eroe, dentro il palazzo il suo avvocato, Zia Oloumi, sosteneva che il suo assistito stava solo applicando uno dei valori fondamentali della repubblica francese, la fratellanza.
Ma le gesta di Cedric non sono passate inosservate, i lettori del quotidiano Nice Matin lo hanno eletto “Cittadino dell’anno della Costa Azzurra”, mentre il presidente del dipartimento Alpi Marittime del Partito Repubblicano Francese, Eric Ciotti, sostiene che quella di Herrou sia una «falsa generosità» e che le sue azioni siano «un insulto alle forze dell’ordine, ai doganieri e ai militari».
Dal canto suo Cedric Herrou ha già spiegato benissimo la cosa, ha detto «Mi metto fuori dalla legge per aiutare i minori. Non voglio dovermi vergognare, tra vent’anni». Quello che fa, perciò, lo fa per se stesso, per il suo cuore grande e debole di fronte alla miseria del mondo.
A chi lo intervista risponde «Io non sono mica un filantropo. Anzi, ero andato a vivere in campagna per starmene per conto mio! E so che se un giorno avrò dei figli, e tra 20 o 30 anni mi domanderanno da che parte ero, non avrò nulla da vergognarmi a rispondere. Del resto, per noi della Roya questa è una tradizione, ormai: ai tempi della Seconda guerra mondiale abbiamo nascosto gli ebrei, negli anni Trenta abbiamo aiutato gli italiani a passare il confine, per fuggire dal regime, compresa mia nonna… E poi, con questa legge che cosa dovrei fare, chiedere i documenti a qualcuno prima di aiutarlo? Sento la gente dire cose realmente ridicole: “Aiuti solo i neri, quando aiuti i bianchi?”. Beh, scusate tanto se nella mia vallata non abbiamo i barboni per le strade. Non ce li abbiamo bianchi. E neanche neri. Mi dispiace!»
Rabbia, indignazione ed incapacità distare fermo, fuori legge ma non contro la legge, Cedric non è un criminale, collabora persino con la Polizia, specie quando si tratta di minorenni, «molti passano dalla ferrovia – dice – e arrivano direttamente a casa mia. Io li sistemo, li faccio riposare, per loro faccio le carte per il Tribunale dei minori e poi li accompagno dalla polizia.», «Io ho un rapporto molto cordiale con la polizia della Valle. Non sono contro la polizia, sono contro il sistema che li costringe a obbedire a ordini illegali. E loro lo fanno, perché sono formati per eseguire, senza stare troppo a riflettere.»
Cedric Herrou non è un eroe e non vuole diventarlo, Cedric Herrou è una persona normale, tanto normale che fa sentire noi diversi, e forse lo siamo, incapaci di fare ancora come lui, andare dove ci porta il cuore.

POCA TRASPARENZA PER MOODY'S, MA UNA MULTA NON BASTA

DI PIERLUIGI PENNATI
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Che Moody’s si appresti a pagare una multa per aver gonfiato i rating fa certamente scalpore, sia per l’entità della cifra, 864 milioni di dollari, sia per il fatto che un’agenzia dalla quale dipende l’economia americana ed in parte quella mondiale possa aver agito in cattiva fede.
Il tema dovrebbe essere quindi chi controlla i controllori, ma questo farebbe passare in secondo piano il fatto che i rating gonfiati hanno provocato la crisi dei subprime ed il collasso del mercato immobiliare americano, che a cascata innescò il più grande terremoto finanziario ed economico del dopoguerra con ripercussioni in tutto il mondo ed è costata alle famiglie americane colpite dalla recessione circa 11 mila miliardi di dollari.
Davanti a questa cifra irrecuperabile 864 milioni di dollari sono certamente ben poca cosa, anche perché distribuiti tra il Dipartimento di giustizia, per 437,5 milioni di dollari, e le autorità giudiziarie di 21 stati Usa più il District of Columbia, in più la multa sembra costituire solo un terzo dei 2,5 miliardi di dollari guadagnati dall’agenzia negli anni precedenti alla crisi.
Creo la catastrofe, sopravvivo e tengo parte del malloppo, non male.
Ma Moody’s non è sola e nemmeno la prima, un anno fa Standard & Poor’s fu costretta a pagare 1,5 miliardi di dollari e le grandi banche di Wall Street in totale hanno già versato allo stato americano circa 162 miliardi di dollari in multe e sanzioni per la vendita di prodotti finanziari rischiosi ed il loro contribuito al caos scatenato sui mercati.
Ma se secondo l’accusa “Moody’s ha fallito nell’osservanza dei suoi standard di rating e ha tradito la missione della trasparenza” e l’agenzia riconosce “in parte” la colpa, la domanda è come controllare: chi controlla i mercati, banche comprese?
Se volto lo sguardo un poco più indietro, tutto sembra essere cominciato quando Bill Clinton, si quello che costruì anche il muro tra USA e Messico, nel 1999, come ultimo atto formale prima di lasciare la Casa Bianca, promulgò una legge chiamata Gramm-Leach-Bliley Act con la quale abrogò le disposizioni della Legge Glass-Steagall, detta anche “legge della separazione bancaria”, che imponeva la divisione delle banche ‘universali’ in due grandi gruppi: le banche commerciali e le banche d’affari.La differenza è grande, perché dal giugno 1933, per volere dell’allora Presidente degli Stati Uniti F.D. Roosevelt, con la Legge Glass-Steagall da lui promulgata le banche non potevano perdere il denaro dei correntisti, a meno che questi non si assumessero direttamente il rischio, infatti le banche commerciali erano dedicate solo al credito per famiglie e imprese, mentre le banche che giocavano in borsa con i soldi degli investitori privati, che si assumono il rischio di poter perdere tutti i propri soldi, non avevano alcuna possibilità di salvataggio dello Stato.
Negli anni successivi all’iniziativa americana del 1933, praticamente in tutto il mondo, si era sviluppata questa barriera la cui abrogazione ha favorito la costituzione di gruppi bancari che esercitano entrambe le attività e la trasformazione delle banche in generale che, svolgendo sia l’attività bancaria tradizionale che quella di banca d’investimento e assicurativa, hanno portato alla modifica del mercato globale delle valute del quale oggi siamo prigionieri.
Ma gli usa non furono i primi, in Italia Mario Draghi anticipò Clinton nel 1993 con il Testo Unico Bancario che, di fatto, apriva già alla commistione fra banche commerciali e banche d’affari in quanto aboliva la Legge bancaria italiana del 1936 che introdusse nel nostro paese lo standard americano della Legge Glass-Steagall.
Oggi ci stupiamo dei rating gonfiati e la soluzione pare essere una maggiore trasparenza e controllo, ma sappiamo bene che quando il saggio indica la luna lo stolto guarda il dito ed i grandi gruppi finanziari sanno bene come rendere molto interessante il dito del saggio.

CEDRIC HERROU, QUANDO TI PORTA IL CUORE

Può capitare che alla notizia che vi sono dei migranti che affrontano migliaia di chilometri in condizioni al limite della sopravvivenza, soffrendo in modo indicibile e rischiando la propria vita per un futuro non migliore, ma solo per un futuro che dove vivevano prima in qualche modo gli era negato, qualcuno di noi pensi che questo sia ingiusto, qualcun altro voglia fare qualcosa e pochi davvero la facciano, ma spingersi a sfidare da soli la legge perché il nostro cuore non sopporta la vista di tanta disperazione, capita davvero raramente.

Eppure a Cedric Herrou, una persona normale, giovane, barba, occhiali, un basco sempre in testa ed uno sguardo pulito, questa cosa è capitata qualche tempo fa e non guardando la TV, leggendo i giornali o navigando in rete, a lui è capitato lavorando.

Cedric Herrou è un contadino che coltiva olivi al confine tra Italia e Francia, lui le persone non le ha viste da dietro uno schermo, lui le ha incontrate, ha constatato che dormivano all’aperto, in condizioni disumane e che la loro disperazione era così grande da superare la paura di morire per strada.

Ecco che il suo cuore è scoppiato e lo ha costretto a fare qualcosa e per lui quel qualcosa è stato aiutare di persona quegli esseri umani abbandonati dagli stati più potenti del mondo, quegli stati che si incontrano per discutere del destino delle persone usando come sigla la lettera G maiuscola: Grandi.

Grandi davanti al mondo economico e piccoli, piccolissimi davanti all’umanità che soffre.

Cedric Herrou probabilmente non sa nulla di questo, lui ha 37 anni ed è un contadino che lavora la sua terra a Breil-sur-Roya, a pochi chilometri da Ventimiglia: uova, olio e olive che produce da solo.

Cedric Herrou, però, ha un cuore, un cuore che pulsa forte e che non ha retto davanti a tanto orrore e lo ha spinto a fare quello che, forse, non avrebbe mai pensato di fare: agire senza pensare, aiutare l’umano senza tener conto delle leggi degli uomini potenti. Dare una mano a quelle persone a sopravvivere.

Così dallo scorso marzo in poi ha aiutato almeno duecento migranti ad attraversare il confine tra Italia e Francia ed istigato 57 ad occupare un edificio in disuso delle SNCF per ripararsi dal freddo, solo che queste cose sono dichiarate illegali dal governo francese che lo ha posto adesso sotto processo per “aiuto all’ingresso, alla circolazione e al soggiorno di stranieri irregolari”. La pena prevede fino a 5 anni di reclusione e 30 mila euro di multa, ma la Procura di Nizza ha chiesto solo 8 mesi di carcere e la confisca del suo furgone.

Fuori dal tribunale il 4 gennaio scorso c’era una folla che lo acclamava come un eroe, dentro il palazzo il suo avvocato, Zia Oloumi, sosteneva che il suo assistito stava solo applicando uno dei valori fondamentali della repubblica francese, la fratellanza.

Ma le gesta di Cedric non sono passate inosservate, i lettori del quotidiano Nice Matin lo hanno eletto “Cittadino dell’anno della Costa Azzurra”, mentre il presidente del dipartimento Alpi Marittime del Partito Repubblicano Francese, Eric Ciotti, sostiene che quella di Herrou sia una «falsa generosità» e che le sue azioni siano «un insulto alle forze dell’ordine, ai doganieri e ai militari».

Dal canto suo Cedric Herrou ha già spiegato benissimo la cosa, ha detto «Mi metto fuori dalla legge per aiutare i minori. Non voglio dovermi vergognare, tra vent’anni». Quello che fa, perciò, lo fa per se stesso, per il suo cuore grande e debole di fronte alla miseria del mondo.

A chi lo intervista risponde «Io non sono mica un filantropo. Anzi, ero andato a vivere in campagna per starmene per conto mio! E so che se un giorno avrò dei figli, e tra 20 o 30 anni mi domanderanno da che parte ero, non avrò nulla da vergognarmi a rispondere. Del resto, per noi della Roya questa è una tradizione, ormai: ai tempi della Seconda guerra mondiale abbiamo nascosto gli ebrei, negli anni Trenta abbiamo aiutato gli italiani a passare il confine, per fuggire dal regime, compresa mia nonna… E poi, con questa legge che cosa dovrei fare, chiedere i documenti a qualcuno prima di aiutarlo? Sento la gente dire cose realmente ridicole: “Aiuti solo i neri, quando aiuti i bianchi?”. Beh, scusate tanto se nella mia vallata non abbiamo i barboni per le strade. Non ce li abbiamo bianchi. E neanche neri. Mi dispiace!»

Rabbia, indignazione ed incapacità distare fermo, fuori legge ma non contro la legge, Cedric non è un criminale, collabora persino con la Polizia, specie quando si tratta di minorenni, «molti passano dalla ferrovia – dice – e arrivano direttamente a casa mia. Io li sistemo, li faccio riposare, per loro faccio le carte per il Tribunale dei minori e poi li accompagno dalla polizia.», «Io ho un rapporto molto cordiale con la polizia della Valle. Non sono contro la polizia, sono contro il sistema che li costringe a obbedire a ordini illegali. E loro lo fanno, perché sono formati per eseguire, senza stare troppo a riflettere.»

Cedric Herrou non è un eroe e non vuole diventarlo, Cedric Herrou è una persona normale, tanto normale che fa sentire noi diversi, e forse lo siamo, incapaci di fare ancora come lui, andare dove ci porta il cuore.

POCA TRASPARENZA PER MOODY’S, MA UNA MULTA NON BASTA

Che Moody’s si appresti a pagare una multa per aver gonfiato i rating fa certamente scalpore, sia per l’entità della cifra, 864 milioni di dollari, sia per il fatto che un’agenzia dalla quale dipende l’economia americana ed in parte quella mondiale possa aver agito in cattiva fede.

Il tema dovrebbe essere quindi chi controlla i controllori, ma questo farebbe passare in secondo piano il fatto che i rating gonfiati hanno provocato la crisi dei subprime ed il collasso del mercato immobiliare americano, che a cascata innescò il più grande terremoto finanziario ed economico del dopoguerra con ripercussioni in tutto il mondo ed è costata alle famiglie americane colpite dalla recessione circa 11 mila miliardi di dollari.

Davanti a questa cifra irrecuperabile 864 milioni di dollari sono certamente ben poca cosa, anche perché distribuiti tra il Dipartimento di giustizia, per 437,5 milioni di dollari, e le autorità giudiziarie di 21 stati Usa più il District of Columbia, in più la multa sembra costituire solo un terzo dei 2,5 miliardi di dollari guadagnati dall’agenzia negli anni precedenti alla crisi.

Creo la catastrofe, sopravvivo e tengo parte del malloppo, non male.

Ma Moody’s non è sola e nemmeno la prima, un anno fa Standard & Poor’s fu costretta a pagare 1,5 miliardi di dollari e le grandi banche di Wall Street in totale hanno già versato allo stato americano circa 162 miliardi di dollari in multe e sanzioni per la vendita di prodotti finanziari rischiosi ed il loro contribuito al caos scatenato sui mercati.

Ma se secondo l’accusa “Moody’s ha fallito nell’osservanza dei suoi standard di rating e ha tradito la missione della trasparenza” e l’agenzia riconosce “in parte” la colpa, la domanda è come controllare: chi controlla i mercati, banche comprese?

Se volto lo sguardo un poco più indietro, tutto sembra essere cominciato quando Bill Clinton, si quello che costruì anche il muro tra USA e Messico, nel 1999, come ultimo atto formale prima di lasciare la Casa Bianca, promulgò una legge chiamata Gramm-Leach-Bliley Act con la quale abrogò le disposizioni della Legge Glass-Steagall, detta anche “legge della separazione bancaria”, che imponeva la divisione delle banche ‘universali’ in due grandi gruppi: le banche commerciali e le banche d’affari.La differenza è grande, perché dal giugno 1933, per volere dell’allora Presidente degli Stati Uniti F.D. Roosevelt, con la Legge Glass-Steagall da lui promulgata le banche non potevano perdere il denaro dei correntisti, a meno che questi non si assumessero direttamente il rischio, infatti le banche commerciali erano dedicate solo al credito per famiglie e imprese, mentre le banche che giocavano in borsa con i soldi degli investitori privati, che si assumono il rischio di poter perdere tutti i propri soldi, non avevano alcuna possibilità di salvataggio dello Stato.

Negli anni successivi all’iniziativa americana del 1933, praticamente in tutto il mondo, si era sviluppata questa barriera la cui abrogazione ha favorito la costituzione di gruppi bancari che esercitano entrambe le attività e la trasformazione delle banche in generale che, svolgendo sia l’attività bancaria tradizionale che quella di banca d’investimento e assicurativa, hanno portato alla modifica del mercato globale delle valute del quale oggi siamo prigionieri.

Ma gli usa non furono i primi, in Italia Mario Draghi anticipò Clinton nel 1993 con il Testo Unico Bancario che, di fatto, apriva già alla commistione fra banche commerciali e banche d’affari in quanto aboliva la Legge bancaria italiana del 1936 che introdusse nel nostro paese lo standard americano della Legge Glass-Steagall.

Oggi ci stupiamo dei rating gonfiati e la soluzione pare essere una maggiore trasparenza e controllo, ma sappiamo bene che quando il saggio indica la luna lo stolto guarda il dito ed i grandi gruppi finanziari sanno bene come rendere molto interessante il dito del saggio.

BENVENUTO COLLEGA FACEBOOK

DI PIERLUIGI PENNATI
© https://alganews.wordpress.com/
pierluigi-pennati
Già, ormai tutti hanno un blog e sono diventati “giornalisti” e che FaceBook, che pubblica miliardi di “articoli” al giorno non lo fosse ancora diventato ufficialmente più che stupire fa emettere un sospiro di sollievo, finalmente getta la maschera e si impegna seriamente nel suo lavoro.
Si, perché cos’è oggi un “social network” se non una grande bacheca ed un immenso giornale delle opinioni, emozioni, immagini dei suoi utenti?
In fondo lo era fin dall’inizio, Zuckerberg cercava spazio all’università ed è nato FaceBook, oggi lo spazio è tutto suo, in tutto il mondo, e FaceBook diventa quello che è da sempre: in incredibile ed immenso giornale.
Ormai Google e FaceBook hanno il controllo delle informazioni in rete ed è quindi giusto che si dotino di regolamenti per il controllo almeno delle mistificazioni e, per fare ciò, fa la cosa giusta: vuole coinvolgere gli editori per provare a mettere in un angolo le fake news.
Come prendere la notizia?
Bene, perché il buon giornalismo ne gioverà certamente.
Male, perché il controllo di FaceBook su tutti noi aumenterà in modo esponenziale, se ve ne fosse ancora bisogno.
Le bufale, ormai virali, sono un danno anche per gli affari del network, quindi prenderne il controllo è indispensabile, non si tratta di un’apertura, ma di un’autodifesa con opportunità di sviluppo per se stessi.
Secondo il Wall Street Journal, la strada di Facebook appare ormai delineata ed il primo passo sarà quello di avere un ruolo sempre più attivo nella gestione dei contenuti coinvolgendo sempre più le grandi aziende editoriali.
L’iniziativa di oggi si chiama “alfabetizzazione alle notizie”, il cui intento sarebbe quello di proseguire più incisivamente gli sforzi degli ultimi mesi per spazzare dal newsfeed principale i post ad alto indice di disinformazione, ma per far ciò serve anche la partecipazione diretta delle grandi aziende editoriali, che potrebbero svolgere un’azione di controllo guadagnando a loro volta visibilità su Facebook ed allargando il loro business.
Il primo passo sarebbe l’inserimento di pubblicità nei video postati su Facebook iniziando da quelli degli inserzionisti e delle pagine pubbliche, per proseguire probabilmente con quelli degli utenti.
Secondo Fidji Simo, manager del gruppo, il “Progetto Giornalismo Facebook” vorrebbe produrre “informazioni di cui fidarsi”, sostenendo di avere “molto a cuore” questo obiettivo, essendo “sicuri che le persone vogliano essere informate”, ma senza che Facebook stesso diventi un vero e proprio “arbitro della verità”, secondo il volere di Mark Zuckerberg che esclude che FaceBook possa avere tra i suoi obiettivi quello di scegliere i contenuti destinati alla lettura da parte dei suoi iscritti.
Le fake news ed il sempre più importante peso del network nella vita delle persone in tutto il mondo avrebbero fatto pensare ad una propria responsabilità anche per come esso venga utilizzato dai suoi iscritti, senza rinunciare al dominio nella pubblicità digitale.
Come reagiranno le aziende editoriali che proprio nei giganteschi ricavi degli inserzionisti su Facebook vedrebbero una delle ragioni del loro declino lo sapremo presto, il fenomeno digitale è veloce come la rete, se sarà un “benvenuto collega” non tarderà a farsi sentire.

BENVENUTO COLLEGA FACEBOOK

Già, ormai tutti hanno un blog e sono diventati “giornalisti” e che FaceBook, che pubblica miliardi di “articoli” al giorno non lo fosse ancora diventato ufficialmente più che stupire fa emettere un sospiro di sollievo, finalmente getta la maschera e si impegna seriamente nel suo lavoro.

Si, perché cos’è oggi un “social network” se non una grande bacheca ed un immenso giornale delle opinioni, emozioni, immagini dei suoi utenti?

In fondo lo era fin dall’inizio, Zuckerberg cercava spazio all’università ed è nato FaceBook, oggi lo spazio è tutto suo, in tutto il mondo, e FaceBook diventa quello che è da sempre: in incredibile ed immenso giornale.

Ormai Google e FaceBook hanno il controllo delle informazioni in rete ed è quindi giusto che si dotino di regolamenti per il controllo almeno delle mistificazioni e, per fare ciò, fa la cosa giusta: vuole coinvolgere gli editori per provare a mettere in un angolo le fake news.

Come prendere la notizia?

Bene, perché il buon giornalismo ne gioverà certamente.

Male, perché il controllo di FaceBook su tutti noi aumenterà in modo esponenziale, se ve ne fosse ancora bisogno.

Le bufale, ormai virali, sono un danno anche per gli affari del network, quindi prenderne il controllo è indispensabile, non si tratta di un’apertura, ma di un’autodifesa con opportunità di sviluppo per se stessi.

Secondo il Wall Street Journal, la strada di Facebook appare ormai delineata ed il primo passo sarà quello di avere un ruolo sempre più attivo nella gestione dei contenuti coinvolgendo sempre più le grandi aziende editoriali.

L’iniziativa di oggi si chiama “alfabetizzazione alle notizie”, il cui intento sarebbe quello di proseguire più incisivamente gli sforzi degli ultimi mesi per spazzare dal newsfeed principale i post ad alto indice di disinformazione, ma per far ciò serve anche la partecipazione diretta delle grandi aziende editoriali, che potrebbero svolgere un’azione di controllo guadagnando a loro volta visibilità su Facebook ed allargando il loro business.

Il primo passo sarebbe l’inserimento di pubblicità nei video postati su Facebook iniziando da quelli degli inserzionisti e delle pagine pubbliche, per proseguire probabilmente con quelli degli utenti.

Secondo Fidji Simo, manager del gruppo, il “Progetto Giornalismo Facebook” vorrebbe produrre “informazioni di cui fidarsi”, sostenendo di avere “molto a cuore” questo obiettivo, essendo “sicuri che le persone vogliano essere informate”, ma senza che Facebook stesso diventi un vero e proprio “arbitro della verità”, secondo il volere di Mark Zuckerberg che esclude che FaceBook possa avere tra i suoi obiettivi quello di scegliere i contenuti destinati alla lettura da parte dei suoi iscritti.

Le fake news ed il sempre più importante peso del network nella vita delle persone in tutto il mondo avrebbero fatto pensare ad una propria responsabilità anche per come esso venga utilizzato dai suoi iscritti, senza rinunciare al dominio nella pubblicità digitale.

Come reagiranno le aziende editoriali che proprio nei giganteschi ricavi degli inserzionisti su Facebook vedrebbero una delle ragioni del loro declino lo sapremo presto, il fenomeno digitale è veloce come la rete, se sarà un “benvenuto collega” non tarderà a farsi sentire.

GLI USA ACCUSANO FCA: "EMISSIONI TRUCCATE". IL TITOLO CROLLA IN BORSA.

 DI PIERLUIGI PENNATI
© https://alganews.wordpress.com/
pierluigi-pennati
L’Environmental Protection Agency, l’agenzia per la protezione ambientale americana, per mesi si è rifiutata di certificare i veicoli a diesel 2017 di FCA in vendita negli Stati Uniti ed la accusa di aver truccato le emissioni di 100mila veicoli, proprio come fece Volkswagen che in questi giorni ha trovato un accordo per il dieselgate, atraverso un patteggiamento, soggetto all’approvazione del consiglio di sorveglianza, di 4,3 miliardi di dollari.
Poco meno della cifra che rischia Fiat Chrysler Automobiles per lo stesso motivo e che ammonterebbe potenzialmente a 4,63 miliardi per avere violato leggi sulle emissioni di ben 104.000 veicoli, tra veicoli pesanti e SUV, prodotti dal 2014 ed equipaggiati con centraline non conformi.
Marchionne, però, contesta i dati con una comunicazione ufficiale ribadendo che che gli standard sulle emissioni nocive sono stati «rispettati» e ritenendo che i sistemi di controllo delle emissioni FCA «rispettino le normative applicabili» e fornendo la propria disponibilità a collaborare con la nuova Amministrazione per «presentare i propri argomenti e risolvere la questione in modo corretto ed equo».
Inoltre, secondo Marchionne, «Non c’è nulla in comune fra il caso Volkswagen e quello Fca» poiché FCA dialoga con l’Epa «da più di un anno» evidenziando come sia curioso e «spiacevole» che l’Agenzia per la Protezione ambientale americana abbia deciso di affrontare il caso FCA pubblicamente.
Secondo i dati sulle vendite diffusi in giornata VW aveva registrato un record di vendite posizionandosi in vetta alla classifica dei costruttori mondiali con 10,3 milioni di veicoli venduti nel 2016, il 3,8% in più rispetto al 2015 nonostante la multa pagata e il blocco delle vendite a gasolio negli Usa ed anche se per Marchionne non ci sono somiglianze, il valore della multa e la dichiarazione che «FCA sopravviverà anche se le dovesse essere comminata una multa di 4,6 miliardi di dollari», non fanno apparire i casi tanto distanti.
Nel frattempo la notizia ha fatto crollare in borsa il titolo FCA che è stato sospeso più volte al ribasso, chiudendo a Piazza Affari con un calo del 16% e trascinando con sé anche la holding della famiglia Exor (-9,3%).

GLI USA ACCUSANO FCA: “EMISSIONI TRUCCATE”. IL TITOLO CROLLA IN BORSA.

L’Environmental Protection Agency, l’agenzia per la protezione ambientale americana, per mesi si è rifiutata di certificare i veicoli a diesel 2017 di FCA in vendita negli Stati Uniti ed la accusa di aver truccato le emissioni di 100mila veicoli, proprio come fece Volkswagen che in questi giorni ha trovato un accordo per il dieselgate, atraverso un patteggiamento, soggetto all’approvazione del consiglio di sorveglianza, di 4,3 miliardi di dollari.

Poco meno della cifra che rischia Fiat Chrysler Automobiles per lo stesso motivo e che ammonterebbe potenzialmente a 4,63 miliardi per avere violato leggi sulle emissioni di ben 104.000 veicoli, tra veicoli pesanti e SUV, prodotti dal 2014 ed equipaggiati con centraline non conformi.

Marchionne, però, contesta i dati con una comunicazione ufficiale ribadendo che che gli standard sulle emissioni nocive sono stati «rispettati» e ritenendo che i sistemi di controllo delle emissioni FCA «rispettino le normative applicabili» e fornendo la propria disponibilità a collaborare con la nuova Amministrazione per «presentare i propri argomenti e risolvere la questione in modo corretto ed equo».

Inoltre, secondo Marchionne, «Non c’è nulla in comune fra il caso Volkswagen e quello Fca» poiché FCA dialoga con l’Epa «da più di un anno» evidenziando come sia curioso e «spiacevole» che l’Agenzia per la Protezione ambientale americana abbia deciso di affrontare il caso FCA pubblicamente.

Secondo i dati sulle vendite diffusi in giornata VW aveva registrato un record di vendite posizionandosi in vetta alla classifica dei costruttori mondiali con 10,3 milioni di veicoli venduti nel 2016, il 3,8% in più rispetto al 2015 nonostante la multa pagata e il blocco delle vendite a gasolio negli Usa ed anche se per Marchionne non ci sono somiglianze, il valore della multa e la dichiarazione che «FCA sopravviverà anche se le dovesse essere comminata una multa di 4,6 miliardi di dollari», non fanno apparire i casi tanto distanti.

Nel frattempo la notizia ha fatto crollare in borsa il titolo FCA che è stato sospeso più volte al ribasso, chiudendo a Piazza Affari con un calo del 16% e trascinando con sé anche la holding della famiglia Exor (-9,3%).

IL POTERE LOGORA CHI NON CE L’HA

Sembra di leggere in un libro di storia sulla rivoluzione industriale: padroni e dirigenti che insultano i dipendenti ed arrivano persino a picchiarli fisicamente. 54 denunce lo scorso febbraio e chissà quanti altri che non hanno ancora parlato per paura di perdere il posto di lavoro.

Mentre al governo si inventano metodi per far emergere il lavoro nero, ma soprattutto far pagare le tasse, dove le tasse si pagano spesso la situazione non è dignitosa, con buona pace di chi vuole abolire anche le tutele di base dei lavoratori.

Alla Gilardoni Raggi X di Mandello del Lario, in provincia di Lecco, le tasse si pagano da sempre e l’azienda è fiorente, dato anche il prodotto di nicchia, chiunque sia stato in un aeroporto, tribunale è passato sotto un metal detector costruito qui, ma anche TAC, radiografie e medicina nucleare, salute, sicurezza pubblica e non solo.

Contratti con le istituzioni, contatti con le autorità, tutto in regola, tranne la dignità e la tutela psicofisica dei lavoratori, così in un’azienda definita “realtà fondamentale per tutto il territorio e strategica per la sicurezza nazionale e non solo” dalla Procura di Lecco, sei persone sono attualmente indagate a vario titolo per reati impensabili nemmeno nelle imprese dove si parla di sfruttamento dei lavoratori.

Il dirigente della squadra mobile di Lecco, Marco Cadeddu, dice che sono state raccolte «direttamente e tramite i dipendenti prove video e audio di concrete violenze psicologiche e fisiche subite dai lavoratori, come morsi, lanci di oggetti, insulti. A essi si aggiungono documentazioni mediche e le risultanze dei controlli del dipartimento di igiene e prevenzione dell’ATS e della Direzione Territoriale del Lavoro».

Lesioni e maltrattamenti riferiti ad episodi verificatisi a partire dal 2012 è il reato ipotizzato a carico della signora Cristina Gilardoni e per l’ex direttore del personale Roberto Redaelli. Il procuratore di Lecco dott. Chiappani aggiunge che «i fatti sono abbastanza evidenti, ma andavano inquadrati in una visione complessiva, di sistematicità. Non essendo il reato di mobbing codificato abbiamo dovuto far riferimento alla giurisprudenza e inquadrare la vicenda come un allargamento al luogo di lavoro dei maltrattamenti in famiglia».

Ma proprietaria e direttore non sono soli , altri quattro gli indagati: il socio di minoranza Andrea Ascani Orsini, nipote della titolare e per il quale viene ipotizzata culpa in vigilando per carenze sulla legge antinfortunistica, Alberto Comi, consulente esterno dell’azienda che non sarebbe iscrizione nell’albo dei consulenti del lavoro ed i medici dell’azienda Stefano Marton e Maria Papagianni per i quali vi sarebbe “inosservanza degli obblighi inerenti alla funzione di medico” in relazione alla tutela della salute dei dipendenti.

La situazione era tanto grave che persino il figlio, Marco Taccani Gilardoni, era in dissenso con i metodi della madre e della dirigenza e che, sulla base delle indagini condotte dalla Procura di Lecco, si era fatto nominare in ottobre dal Tribunale di Milano commissario aziendale, azzerandone il CDA, vista la “complessiva negligente irragionevolezza dell’organo gestorio”.

«Un’indagine delicata, che ha richiesto tatto e sensibilità», secondo il dott. Chiappani, sono stati gli elementi essenziali dell’inchiesta sul “Caso Gilardoni Raggi X” alla quale hanno partecipato Polizia di Stato, il dipartimento igiene e prevenzione ATS Brianza e l’ispettorato del lavoro: «Persone provate, alcune devastate, dalla vita stravolta, senza più percezione di sè», aggiunge Marco Cadeddu che ha coordinato «un costante monitoraggio, calibrando gli interventi in modo da attutire gli attriti».

Nonostante i 22 casi accertati di lesioni, la Procura ha scelto di non ricorrere comunque alla custodia cautelare degli indagati a causa degli interessi in gioco: «La Gilardoni è un’azienda strategica, un intervento traumatico sulla direzione avrebbe condotto al collasso della situazione, ad un black out bancario. Era necessario dare continuità reputazionale e aziendale, garantire i posti di lavoro».

La perfetta sinergia degli organismi, tra i quali il Tribunale delle Imprese di Milano, unico in potere di commissariare la ditta, ed il Prefetto di Lecco, ha permesso di «far cessare la situazione di illegalità diffusa che si era creata».

Pochi tra i dipendenti se ne erano andati, quasi nessuno in questi tempi di crisi e diminuzione delle tutele sul lavoro se lo poteva permettere e così maltrattamenti e soprusi crescevano in un’escalation senza apparente fine in un’azienda modello, fiore all’occhiello della ricerca e della tecnologia italiana, che ha pochi concorrenti al mondo e che tutti ci invidiano. Se così stanno le cose in un’azienda avanzata e sotto la lente di ingrandimento delle istituzioni non oso pensare a cosa possa succedere in realtà meno tutelate o meno esposte.

IL POTERE LOGORA CHI NON CE L’HA

DI PIERLUIGI PENNATI ©
https://alganews.wordpress.com/
pierluigi-pennati
Sembra di leggere in un libro di storia sulla rivoluzione industriale: padroni e dirigenti che insultano i dipendenti ed arrivano persino a picchiarli fisicamente. 54 denunce lo scorso febbraio e chissà quanti altri che non hanno ancora parlato per paura di perdere il posto di lavoro.
Mentre al governo si inventano metodi per far emergere il lavoro nero, ma soprattutto far pagare le tasse, dove le tasse si pagano spesso la situazione non è dignitosa, con buona pace di chi vuole abolire anche le tutele di base dei lavoratori.
Alla Gilardoni Raggi X di Mandello del Lario, in provincia di Lecco, le tasse si pagano da sempre e l’azienda è fiorente, dato anche il prodotto di nicchia, chiunque sia stato in un aeroporto, tribunale è passato sotto un metal detector costruito qui, ma anche TAC, radiografie e medicina nucleare, salute, sicurezza pubblica e non solo.
Contratti con le istituzioni, contatti con le autorità, tutto in regola, tranne la dignità e la tutela psicofisica dei lavoratori, così in un’azienda definita “realtà fondamentale per tutto il territorio e strategica per la sicurezza nazionale e non solo” dalla Procura di Lecco, sei persone sono attualmente indagate a vario titolo per reati impensabili nemmeno nelle imprese dove si parla di sfruttamento dei lavoratori.
Il dirigente della squadra mobile di Lecco, Marco Cadeddu, dice che sono state raccolte «direttamente e tramite i dipendenti prove video e audio di concrete violenze psicologiche e fisiche subite dai lavoratori, come morsi, lanci di oggetti, insulti. A essi si aggiungono documentazioni mediche e le risultanze dei controlli del dipartimento di igiene e prevenzione dell’ATS e della Direzione Territoriale del Lavoro».
Lesioni e maltrattamenti riferiti ad episodi verificatisi a partire dal 2012 è il reato ipotizzato a carico della signora Cristina Gilardoni e per l’ex direttore del personale Roberto Redaelli. Il procuratore di Lecco dott. Chiappani aggiunge che «i fatti sono abbastanza evidenti, ma andavano inquadrati in una visione complessiva, di sistematicità. Non essendo il reato di mobbing codificato abbiamo dovuto far riferimento alla giurisprudenza e inquadrare la vicenda come un allargamento al luogo di lavoro dei maltrattamenti in famiglia».
Ma proprietaria e direttore non sono soli , altri quattro gli indagati: il socio di minoranza Andrea Ascani Orsini, nipote della titolare e per il quale viene ipotizzata culpa in vigilando per carenze sulla legge antinfortunistica, Alberto Comi, consulente esterno dell’azienda che non sarebbe iscrizione nell’albo dei consulenti del lavoro ed i medici dell’azienda Stefano Marton e Maria Papagianni per i quali vi sarebbe “inosservanza degli obblighi inerenti alla funzione di medico” in relazione alla tutela della salute dei dipendenti.
La situazione era tanto grave che persino il figlio, Marco Taccani Gilardoni, era in dissenso con i metodi della madre e della dirigenza e che, sulla base delle indagini condotte dalla Procura di Lecco, si era fatto nominare in ottobre dal Tribunale di Milano commissario aziendale, azzerandone il CDA, vista la “complessiva negligente irragionevolezza dell’organo gestorio”.
«Un’indagine delicata, che ha richiesto tatto e sensibilità», secondo il dott. Chiappani, sono stati gli elementi essenziali dell’inchiesta sul “Caso Gilardoni Raggi X” alla quale hanno partecipato Polizia di Stato, il dipartimento igiene e prevenzione ATS Brianza e l’ispettorato del lavoro: «Persone provate, alcune devastate, dalla vita stravolta, senza più percezione di sè», aggiunge Marco Cadeddu che ha coordinato «un costante monitoraggio, calibrando gli interventi in modo da attutire gli attriti».
Nonostante i 22 casi accertati di lesioni, la Procura ha scelto di non ricorrere comunque alla custodia cautelare degli indagati a causa degli interessi in gioco: «La Gilardoni è un’azienda strategica, un intervento traumatico sulla direzione avrebbe condotto al collasso della situazione, ad un black out bancario. Era necessario dare continuità reputazionale e aziendale, garantire i posti di lavoro».
La perfetta sinergia degli organismi, tra i quali il Tribunale delle Imprese di Milano, unico in potere di commissariare la ditta, ed il Prefetto di Lecco, ha permesso di «far cessare la situazione di illegalità diffusa che si era creata».
Pochi tra i dipendenti se ne erano andati, quasi nessuno in questi tempi di crisi e diminuzione delle tutele sul lavoro se lo poteva permettere e così maltrattamenti e soprusi crescevano in un’escalation senza apparente fine in un’azienda modello, fiore all’occhiello della ricerca e della tecnologia italiana, che ha pochi concorrenti al mondo e che tutti ci invidiano. Se così stanno le cose in un’azienda avanzata e sotto la lente di ingrandimento delle istituzioni non oso pensare a cosa possa succedere in realtà meno tutelate o meno esposte.

REFERENDUM CGIL: TUTTO DA RIFARE?

DI PIERLUIGI PENNATI ©
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Inammissibile la richiesta di referendum denominato “abrogazione delle disposizioni in materia di licenziamenti illegittimi ” (n. 169 Reg. Referendum). Così la consulta ha oggi liquidato il problema e sebbene le altre richieste di referendum denominate “abrogazione disposizioni limitative della responsabilità solidale in materia di appalti” (n. 170 Reg. Referendum) e “abrogazione disposizioni sul lavoro accessorio (voucher)” ( n. 171 Reg. Referendum) siano state dichiarate ammissibili, per la CGIL è un gran smacco.
La causa del rifiuto sarebbe stata determinata dal fatto che, nella formulazione presentata, non ci si voleva limitare a cancellare la norma che ha sostituito il reintegro con l’indennizzo, quindi abrogarla, ma anche a creare di fatto una nuova normativa e dato che i referendum “propositivi” in Italia non sono previsti il quesito non può essere sottoposto a voto popolare per la sua introduzione legale.
Dopo un’udienza di circa un’ora e mezza a porte chiuse sui tre referendum abrogativi, per i quali erano state raccolte dalla CGIL 3,3 milioni di firme, e nella quale il vice avvocato generale Vincenzo Nunziata dell’Avvocatura dello Stato aveva ribadito l’inammissibilità dei quesiti, per altro già presente nelle memorie presentate per conto del Governo, la Corte ha ritenuto ammissibili i referendum sui Vaucher e gli appalti ma non quello sull’articolo 18.
Camusso non rinuncia, «Continueremo la nostra battaglia», afferma già dal pomeriggio, «Valuteremo le motivazioni della Corte e la rispettiamo ma siamo convinti che questa battaglia vada continuata, quindi la continueremo nelle forme che la contrattazione e la legge ci permettono», «Noi siamo convinti che la libertà dei lavoratori passi attraverso la loro sicurezza e quindi continueremo la nostra iniziativa per ristabilire i diritti», quindi, nei prossimi giorni il sindacato valuterà «tutte le possibilità» ancora rimaste, inclusa quella di rivolgersi alla Corte europea in materia di normative sui licenziamenti.
Camusso pensa ad una scelta non solo tecnica ed afferma che «É stato dato per scontato l’intervento del governo e dell’Avvocatura dello Stato, non era dovuto, è stata una scelta politica» e per quanto riguarda gli altri quesiti ammessi si dichiara già in campagna elettorale aggiungendo che sarà «grande e impegnativa».
Ma non è sola nel credere che non si sia trattato solo di diritto, Salvini parla di “sentenza politica, gradita ai poteri forti e al governo come quando bocciò il referendum sulla legge Fornero. Temendo una simile scelta anche sulla legge elettorale il prossimo 24 gennaio, preannunciamo un presidio a oltranza per il voto e la democrazia sotto la sede della Consulta a partire da domenica 22 gennaio”, mentre il 5stelle Danilo Toninelli dice “Non commento il no della Consulta al referendum sull’art.18 ma il Governo non canti vittoria: il Jobs Act è veleno per economia e lo aboliremo”.
Di Maio carica la dose guardando avanti: “Questa primavera saremo chiamati a votare per il referendum che elimina la schiavitù dei voucher. La Corte Costituzionale ha appena dato l’ok. Sarà la spallata definitiva al Pd, a quel partito che ha massacrato i lavoratori più di qualunque altro e mentre lo faceva osava anche definirsi di sinistra!”.
Per la ministra Lorenzin la sentenza non avrà effetti sul governo poiché “non ha niente a che vedere con la durata del governo che è impegnato fuori dal Palazzo a far fronte alle priorità del paese e in Parlamento a fare la legge elettorale”.
Se per la CGIL la battaglia continua o, forse, è persino tutto da rifare sull’articolo 18, per i Voucher e la responsabilità sugli appalti si prospetta vita corta e se anche questa tornata elettorale si concluderà con un rifiuto per i provvedimenti del precedente governo sarà forse compito del prossimo riparare ai suoi fallimenti ed ai danni che avranno nel frattempo procurato.