RENZI CHI?

Ci sono moltissimi motivi per votare NO al referendum, un po’ meno per votare SI e sembrano tutti slogan: cambiamento, risparmio, governabilità, etc. Vi sono ragioni in tutte le direzioni, soprattutto ora che la campagna per il voto volge alla conclusione ed è cruciale che le persone votino coscientemente.

Quello che sento dire un po’ meno e con meno forza è ciò che davvero avverrà dopo lo scrutinio, poche ridondanti ipotesi e spesso affidate ad esperti di settore, economisti allarmati da possibili catastrofi finanziarie e/o fini costituzionalisti preoccupati dell’imminente ingovernabilità permanente del paese.

Ciò che sembra, però, certo e che dopo questo voto dovremo tornare di nuovo alle urne perché le cose possano funzionare, sia che vinca il NO, che farà perdere a Renzi qualsiasi credibilità popolare residua e scatenando le opposizioni interne ed esterne al suo partito, sia che vinca il SI che produrrà un Senato di eletti che resteranno ancora in carica fino a scioglimento delle Camere, ma delegittimati dal nuovo testo costituzionale, che impedirà il proseguimento sereno dell’iter legislativo.

Senza contare la già ingombrante e non dimenticata presenza di ben 148 parlamentari il cui insediamento non è stato mai validato perché eletti con un premio di maggioranza dichiarato incostituzionale.

Ma una cosa che pochi si sono chiesti è cosa sarà di questo primo ministro arrivato al potere come una rock star che azzecca un brano di successo e vola in classifica. Fino a quando vi resterà?
Dopo, cosa ne sarà di lui?

Forse Renzi è l’unico ad essersi posto la domanda, forse ha un piano B che non conosciamo, forse è solo prestato alla politica, fatto sta che era partito da semplice amministratore di provincia lanciando l’idea che svecchiare la politica era la soluzione per permettere uno sviluppo del paese troppe volte imprigionato in se stesso: “il rottamatore”. Una sorta di terminator istituzionale deciso a mandare a casa tutti gli anziani della politica.

Invece i rottamati sono quasi tutti lì, qualcuno è uscito dal partito per sentirsi libero di criticarlo, altri, come D’Alema e Bersani, si sono seduti quieti al loro posto e stanno aspettando che il giovanotto si faccia male da solo per cogliere la giusta opportunità al volo e riprendersi il partito da questi usurpato.

Se Renzi sarà smentito con un NO al referendum il rottamato sarà lui, l’Hit Parade della politica cambierà la sua star di turno ed il Partito Democratico riprenderà il corso interrotto da Renzi due anni fa.

Un nulla di fatto clamoroso, un’altra ragione per respingere il quesito in attesa di uno meglio ragionato, formulato e meno affrettato.

Ma è parlando di storia e di politica con mio figlio di venti anni, che mi rendo conto che non ha idea di chi siano moltissimi uomini politici presenti e passati per me importanti e che in qualche caso hanno accompagnato la mia pubertà e giovinezza, quando nomino i loro nomi mi guarda come se venissi da Marte.

Un atteggiamento che dimostra non solo la costante attualità del del conflitto generazionale con interessi e punti di vista differenti determinato dall’età e dall’esperienza, ma anche il fatto che quello che oggi sembra importante e vitale domani sarà probabilmente dimenticato e più rapidamente è passato tanto meno facilmente sarà ricordato.

Con modi più da sbruffone fiorentino che da primo ministro, Matteo Renzi si era cimentato in un offensivo “Fassina chi?”, per sottolineare la scarsa importanza che dava a chi lo criticava, domani della meteora politica arrivata quasi dal nulla e destinata ad un temporaneo caos istituzionale dopo aver lasciato dietro di se non dei rottamati italiani, ma l’Italia in rottami, molto probabilmente i giovani si chiederanno: “Renzi chi?”

Votare NO non lascerà tutto immutato, votare NO ci permetterà di affrontare successivamente le questioni di una legge elettorale sbagliata e di modifiche costituzionali importanti con la necessaria serenità e responsabilità e non con la scelleratezza di un quasi giovane che per cambiare, in fretta ed a tutti i costi, distrugge irreparabilmente quello che di buono l’Italia orgogliosamente possiede da ben 68 anni: una costituzione antifascista e liberale.

RENZI CHI?

DI PIERLUIGI PENNATI
pierluigi-pennati
Ci sono moltissimi motivi per votare NO al referendum, un po’ meno per votare SI e sembrano tutti slogan: cambiamento, risparmio, governabilità, etc. Vi sono ragioni in tutte le direzioni, soprattutto ora che la campagna per il voto volge alla conclusione ed è cruciale che le persone votino coscientemente.
Quello che sento dire un po’ meno e con meno forza è ciò che davvero avverrà dopo lo scrutinio, poche ridondanti ipotesi e spesso affidate ad esperti di settore, economisti allarmati da possibili catastrofi finanziarie e/o fini costituzionalisti preoccupati dell’imminente ingovernabilità permanente del paese.
Ciò che sembra, però, certo e che dopo questo voto dovremo tornare di nuovo alle urne perché le cose possano funzionare, sia che vinca il NO, che farà perdere a Renzi qualsiasi credibilità popolare residua e scatenando le opposizioni interne ed esterne al suo partito, sia che vinca il SI che produrrà un Senato di eletti che resteranno ancora in carica fino a scioglimento delle Camere, ma delegittimati dal nuovo testo costituzionale, che impedirà il proseguimento sereno dell’iter legislativo.
Senza contare la già ingombrante e non dimenticata presenza di ben 148 parlamentari il cui insediamento non è stato mai validato perché eletti con un premio di maggioranza dichiarato incostituzionale.
Ma una cosa che pochi si sono chiesti è cosa sarà di questo primo ministro arrivato al potere come una rock star che azzecca un brano di successo e vola in classifica. Fino a quando vi resterà?
Dopo, cosa ne sarà di lui?
Forse Renzi è l’unico ad essersi posto la domanda, forse ha un piano B che non conosciamo, forse è solo prestato alla politica, fatto sta che era partito da semplice amministratore di provincia lanciando l’idea che svecchiare la politica era la soluzione per permettere uno sviluppo del paese troppe volte imprigionato in se stesso: “il rottamatore”. Una sorta di terminator istituzionale deciso a mandare a casa tutti gli anziani della politica.
Invece i rottamati sono quasi tutti lì, qualcuno è uscito dal partito per sentirsi libero di criticarlo, altri, come D’Alema e Bersani, si sono seduti quieti al loro posto e stanno aspettando che il giovanotto si faccia male da solo per cogliere la giusta opportunità al volo e riprendersi il partito da questi usurpato.
Se Renzi sarà smentito con un NO al referendum il rottamato sarà lui, l’Hit Parade della politica cambierà la sua star di turno ed il Partito Democratico riprenderà il corso interrotto da Renzi due anni fa.
Un nulla di fatto clamoroso, un’altra ragione per respingere il quesito in attesa di uno meglio ragionato, formulato e meno affrettato.
Ma è parlando di storia e di politica con mio figlio di venti anni, che mi rendo conto che non ha idea di chi siano moltissimi uomini politici presenti e passati per me importanti e che in qualche caso hanno accompagnato la mia pubertà e giovinezza, quando nomino i loro nomi mi guarda come se venissi da Marte.
Un atteggiamento che dimostra non solo la costante attualità del del conflitto generazionale con interessi e punti di vista differenti determinato dall’età e dall’esperienza, ma anche il fatto che quello che oggi sembra importante e vitale domani sarà probabilmente dimenticato e più rapidamente è passato tanto meno facilmente sarà ricordato.
Con modi più da sbruffone fiorentino che da primo ministro, Matteo Renzi si era cimentato in un offensivo “Fassina chi?”, per sottolineare la scarsa importanza che dava a chi lo criticava, domani della meteora politica arrivata quasi dal nulla e destinata ad un temporaneo caos istituzionale dopo aver lasciato dietro di se non dei rottamati italiani, ma l’Italia in rottami, molto probabilmente i giovani si chiederanno: “Renzi chi?”
Votare NO non lascerà tutto immutato, votare NO ci permetterà di affrontare successivamente le questioni di una legge elettorale sbagliata e di modifiche costituzionali importanti con la necessaria serenità e responsabilità e non con la scelleratezza di un quasi giovane che per cambiare, in fretta ed a tutti i costi, distrugge irreparabilmente quello che di buono l’Italia orgogliosamente possiede da ben 68 anni: una costituzione antifascista e liberale.

LA RIVOLUZIONE NON FINISCE CON FIDEL

DI PIERLUIGI PENNATI
pierluigi-pennati
Siamo al dopo, ormai nessuno se lo aspettava più: Fidel Castro era un mortale e come tale ha tenuto fede al suo destino. In fondo la vita è l’unica malattia che porta con certezza alla morte e così è stato.
Si dice che nella storia uno solo sia tornato, unendosi poi al padre celeste, ma sappiamo che moltissimi sono rimasti tra noi, con le loro idee, le opere o soltanto l’esempio.
In perfetta linea con la filosofia del Foscolo sarà tumulato in un luogo fisico, ma il suo sepolcro è già, e sarà per sempre, la trasmissione del patrimonio umano che ha generato e che lo colloca a pieno titolo tra i più grandi eroi della Storia.
Al termine di un lungo percorso terreno, Fidel Castro lascia un’eredità davvero pesante e che, forse, nessun altro potrà raccogliere, né il fratello Raul, né i suoi tanti seguaci. Il Castro che tutti conosciamo era differente da qualsiasi altro uomo, non un vero dittatore ma, che piaccia o meno, un reggente fermo con in mente una sola passione, il suo popolo.
Un padre idealista e forse troppo severo, ma alla fine, io credo, un buon padre per tutti i cubani e non solo per i suoi dieci figli, al punto che, fatta eccezione per Raul, la sua famiglia genetica è quasi sconosciuta ai più.
La morte di Castro accende al contempo miriadi di attese, speranze e dubbi: come sarà la situazione politica dell’isola in futuro? Resterà tutto immutato o, addirittura, Cuba potrebbe persino tornare quella che era prima della rivoluzione a causa di un mondo che nel frattempo si è globalizzato e dipende quasi esclusivamente dall’economia di larga scala?
Castro era cuore ed anima della sua nazione, Castro era Cuba stessa, tanto che tutti, persino noi, lo chiamavamo con il nome di battesimo, Fidel.
Lui era l’ultimo baluardo rivoluzionario delle sue stesse idee, che in ogni caso hanno consentito ad un popolo intero di sopravvivere e persino di eccellere in molte discipline. Arte, medicina e scienze a Cuba sono al massimo dell’espressione umana possibile al netto delle difficoltà economiche, naturalmente, il massimo, ma non i miracoli, impediti da un embargo devastante della maggioranza del resto del mondo.
Oggi è già domani, Cuba è gravida di cultura ed il popolo cubano è eccezionale e pieno di vitalità, se il dopo Fidel sarà ben gestito i popoli di tutto il mondo dovranno temerne la concorrenza, ma anche gioirne per l’apporto formidabile che potrà portare, altrimenti sarà la sua stessa catastrofe.
Alla camera ardente di Fidel si stanno avvicendando migliaia di persone, alla fine, forse, sanno milioni, sinceramente affrante, ipocriti, curiosi e persino narcisisti che potranno dire “io c’ero”, magari con un macabro con un selfie davanti alla bara di un gigante della storia.
Quello che impressiona di più, però, è il saluto affettuoso degli studenti, giovani che non hanno aspettato di potersi mettere in fila e che fin dal principio si sono riuniti davanti alle scuole per manifestare il loro sincero cordoglio.
Può accadere che chi ha vissuto prima della rivoluzione od anche solo nel ricordo dei suoi genitori possa scapparvi, ma chi vi è nato, come i giovani di oggi, testimoniano che quel regime di oppressione condannato da molta parte del mondo è largamente accettato dalle nuove generazioni, senza rassegnazione, per lo più con convinzione e non si dica che hanno tutti, ma proprio tutti, ricevuto il lavaggio del cervello e non possono capire.
Gli studenti di Cuba sono vivaci ed intelligenti e la scuola cubana insegna loro libertà e pluralismo, al contrario della nostra scuola che insegna economia e competizione, eppure noi facciamo le guerre e scappiamo in massa emigrando, i cubani sono in pace con tutti e restano per lo più in patria.
Se oggi è da apprezzare chi, come Obama e pochi altri, non ostenteranno ipocrisia nel fare la fila con il cappello in mano davanti a delle spoglie mortali, dobbiamo sperare che vi sia già chi sta pensando ad un dopo Fidel sostenibile dove lo spirito di democrazie e libertà prevalga, purtroppo, la “normalizzazione” imposta da Raul, con il processo di riforme economiche avviato e l’apertura economica ai capitali Usa e non solo, fanno oggi pensare ad un futuro per Cuba più di tipo Cinese.
Per assurdo, oggi più che ieri il popolo cubano ha bisogno di Fidel Castro, la rivoluzione non è terminata.

LA RIVOLUZIONE NON FINISCE CON FIDEL

Siamo al dopo, ormai nessuno se lo aspettava più: Fidel Castro era un mortale e come tale ha tenuto fede al suo destino. In fondo la vita è l’unica malattia che porta con certezza alla morte e così è stato.

Si dice che nella storia uno solo sia tornato, unendosi poi al padre celeste, ma sappiamo che moltissimi sono rimasti tra noi, con le loro idee, le opere o soltanto l’esempio.

In perfetta linea con la filosofia del Foscolo sarà tumulato in un luogo fisico, ma il suo sepolcro è già, e sarà per sempre, la trasmissione del patrimonio umano che ha generato e che lo colloca a pieno titolo tra i più grandi eroi della Storia.

Al termine di un lungo percorso terreno, Fidel Castro lascia un’eredità davvero pesante e che, forse, nessun altro potrà raccogliere, né il fratello Raul, né i suoi tanti seguaci. Il Castro che tutti conosciamo era differente da qualsiasi altro uomo, non un vero dittatore ma, che piaccia o meno, un reggente fermo con in mente una sola passione, il suo popolo.

Un padre idealista e forse troppo severo, ma alla fine, io credo, un buon padre per tutti i cubani e non solo per i suoi dieci figli, al punto che, fatta eccezione per Raul, la sua famiglia genetica è quasi sconosciuta ai più.

La morte di Castro accende al contempo miriadi di attese, speranze e dubbi: come sarà la situazione politica dell’isola in futuro? Resterà tutto immutato o, addirittura, Cuba potrebbe persino tornare quella che era prima della rivoluzione a causa di un mondo che nel frattempo si è globalizzato e dipende quasi esclusivamente dall’economia di larga scala?

Castro era cuore ed anima della sua nazione, Castro era Cuba stessa, tanto che tutti, persino noi, lo chiamavamo con il nome di battesimo, Fidel.

Lui era l’ultimo baluardo rivoluzionario delle sue stesse idee, che in ogni caso hanno consentito ad un popolo intero di sopravvivere e persino di eccellere in molte discipline. Arte, medicina e scienze a Cuba sono al massimo dell’espressione umana possibile al netto delle difficoltà economiche, naturalmente, il massimo, ma non i miracoli, impediti da un embargo devastante della maggioranza del resto del mondo.

Oggi è già domani, Cuba è gravida di cultura ed il popolo cubano è eccezionale e pieno di vitalità, se il dopo Fidel sarà ben gestito i popoli di tutto il mondo dovranno temerne la concorrenza, ma anche gioirne per l’apporto formidabile che potrà portare, altrimenti sarà la sua stessa catastrofe.

Alla camera ardente di Fidel si stanno avvicendando migliaia di persone, alla fine, forse, sanno milioni, sinceramente affrante, ipocriti, curiosi e persino narcisisti che potranno dire “io c’ero”, magari con un macabro con un selfie davanti alla bara di un gigante della storia.

Quello che impressiona di più, però, è il saluto affettuoso degli studenti, giovani che non hanno aspettato di potersi mettere in fila e che fin dal principio si sono riuniti davanti alle scuole per manifestare il loro sincero cordoglio.

Può accadere che chi ha vissuto prima della rivoluzione od anche solo nel ricordo dei suoi genitori possa scapparvi, ma chi vi è nato, come i giovani di oggi, testimoniano che quel regime di oppressione condannato da molta parte del mondo è largamente accettato dalle nuove generazioni, senza rassegnazione, per lo più con convinzione e non si dica che hanno tutti, ma proprio tutti, ricevuto il lavaggio del cervello e non possono capire.

Gli studenti di Cuba sono vivaci ed intelligenti e la scuola cubana insegna loro libertà e pluralismo, al contrario della nostra scuola che insegna economia e competizione, eppure noi facciamo le guerre e scappiamo in massa emigrando, i cubani sono in pace con tutti e restano per lo più in patria.

Se oggi è da apprezzare chi, come Obama e pochi altri, non ostenteranno ipocrisia nel fare la fila con il cappello in mano davanti a delle spoglie mortali, dobbiamo sperare che vi sia già chi sta pensando ad un dopo Fidel sostenibile dove lo spirito di democrazie e libertà prevalga, purtroppo, la “normalizzazione” imposta da Raul, con il processo di riforme economiche avviato e l’apertura economica ai capitali Usa e non solo, fanno oggi pensare ad un futuro per Cuba più di tipo Cinese.

Per assurdo, oggi più che ieri il popolo cubano ha bisogno di Fidel Castro, la rivoluzione non è terminata.

CHE NE SARA’ DEI CUBANI

Se non siete mai stati a Cuba è più difficile capire, ma anche dopo essere stato a Cuba molto sfugge ancora alla mia comprensione.

Quando ho visitato l’isola, circa venticinque anni fa, Fidel era ancora al potere e quello che ho visto era devastante, una società in contraddizione con se stessa dove orgoglio, apprezzamento rivoluzionario, voglia di evasione e rassegnazione convivevano conflittualmente tra loro e l’aria che si respirava era libera e pesante al tempo stesso.

Turista ignaro, ma curioso, come sono sempre stato, finivo in un villaggio turistico italo-cubano, dove Cuba (Fidel, dicevano tutti) aveva il 51%. A Cuba non era possibile avere qualcosa per più del 49% e Fidel era Cuba stessa, tanto che tutto veniva considerato suo, a partire dal rum invecchiato 15 anni che veniva detto “riserva di Fidel”. Solo lui poteva permetterselo, il solo cubano a possedere tutto, spirito ed anima dell’isola, nazione vivente.

Nel villaggio tutti erano laureati, o quasi, dal personale delle pulizie ai cuochi, tutti giovani, belli ed apparentemente spensierati. Il ragazzo che tagliava la poca frutta disponibile per gli ospiti era un geologo, la splendida ragazza dell’animazione che stava con il cuoco italiano, sposato ma con la famiglia lontana, ingegnere, e così via, fino agli inservienti che avevano frequentato “solo” le scuole superiori. Tutti a pieni voti.

Il perché mi veniva spiegato successivamente, a Cuba vi erano solo due modi vi vivere, rendersi utili o sopravvivere con le razioni statali.

Le razioni statali comprendevano riso, latte e generi alimentari differenziati a seconda dell’età e sempre insufficienti, tanto che la popolazione delle periferie tentava di coltivare qualcosa in segreto, dato che la terra era dello stato e le coltivazioni, fino all’orto di casa, di sua esclusiva pertinenza e sotto autorizzazione.

Solo le sigarette erano abbondanti, marca “Popular”, senza filtro ed in confezioni di sola carta costituita da due involucri a bicchiere rovesciati uno sull’altro. Un pacchetto da venti al giorno per ogni adulto, chi non fumava le rivendeva ai turisti per pochi spiccioli di dollaro, moneta non detenibile dai cubani ma unica veramente utile per fare acquisti, dato che il peso cubano, pur essendo fissato alla pari con il dollaro da Fidel, non veniva scambiato in nessuna altra baca del mondo ed era vietato il possesso da parte dei cittadini dell’isola.

Così, miseria, corruzione, prostituzione, mercato nero ed ogni altro tipo di attività illecite proliferavano sotto un’apparenza completamente pulita all’ombra di una rivoluzione ormai lontana e distante da quei giovani che incontravo.

L’altro modo di vivere era rendersi utili. Il come era davvero variegato, trovare un lavoro difficile, gli stipendi erano unificati, dai due ai tre, massimo cinque pesos al mese a seconda se si facevano le pulizie o si era rettori universitari, la vera differenza consisteva nel benessere dato dal prestigio o dalla possibilità di arrotondare diversamente, così, a parità di stipendio, fare lo steward per la Cubana de Aviacion era meglio che lavorare nella fabbrica di tabacco o le pulizie in un hotel per turisti migliore che il direttore generale delle poste.

La seconda settimana mia moglie veniva colpita da un virus intestinale, tutti ne soffrivano, l’acqua della zona era contaminata e le medicine disponibili il frutto della Guaiava che veniva definito “meglio del Bimixin”, antibiotico contro questo tipo di problemi.

Finivamo in un ospedale dove medici meravigliosi e competenti avevano a disposizione solo acqua e sale, così tenevano mia moglie a digiuno per un giorno con le sole flebo ad alimentarla. Passata la crisi e recuperata la febbre venivamo consigliati di andarcene da lì, non avevano da mangiare per nessuno e, soprattutto, nessun antibiotico da fornirci e l’ospedale “non era il miglior posto per una persona debilitata, dato che tutte le malattie possibili erano lì presenti”.

Eravamo a Moron, cittadina sperduta sull’isola, da soli e non vi erano Taxi, così superate le difficoltà con il telefono, difficile da usare e sotto controllo, dicevano, l’unico albergo locale inviava un cliente italiano, che si era offerto volontario, a prenderci con la sua auto noleggiata all’Avana, mille chilometri distante.

L’italiano aveva famiglia, ma trascorreva da uno a due mesi all’anno a Cuba, dove aveva una fidanzata fissa, una ragazza dall’apparente età di circa vent’anni che per il periodo di permanenza viveva con lui in hotel e con la benedizione della famiglia. Lui, cinquantenne, in cambio portava antibiotici all’ospedale locale, vestiti per la famiglia e comperava generi alimentari per tutti sul posto. Il ricco italiano con la ventenne.

Tutto può sembrare squallido, ma è tipico della povertà, per contro il popolo negava tutto, chi poteva cercava un matrimonio con un turista, uno qualsiasi, maschi, femmina, bello o brutto, bastava andare via, chi restava si ingegnava, più o meno dignitosamente.

Mancava tutto, cibo e materiali, quello che non mancava era l’allegria, lo spirito di rivalsa e la voglia di un futuro migliore sull’isola, amata ed odiata al tempo stesso, ma quasi nessuno osava avanzare ipotesi di morte per Fidel.

Fidel era Cuba, il fratello Raul non era così ben visto, qualcuno diceva che stava preparando il dopo Fidel opzionando l’isola agli stranieri, una sorta di reazionario sotto traccia, ma nessuno osava mettere in dubbio la sua autorità, non con Fidel vivo e saldamente al potere.

I funzionari locali del governo venivano a mangiare a turno nel villaggio, li riconoscevi perché prendevano un tavolo con tutta la numerosa famiglia, erano cubani e non turisti e si servivano abbuffandosi come se non vedessero cibo da anni, ma una volta alla settima facevano il giro, ogni giorno un hotel differente, così erano tutti grassi. La domenica venivano fin dal mattino, dopo pranzo il funzionario prendeva dal bar varie bottiglie di rum invecchiato, offerte dalla direzione, e si ubriacava in spiaggia insieme a degli amici, l’ho visto fare per tre settimane di fila.

Per rientrare al villaggio dovemmo affidarci ad un cubano che aveva un coche, no, non una macchina, un cocchio con un cavallo, a differenza dello spagnolo in cubano l’automobile si chiama carro.

Il padrone del cocchio ci portò a casa sua dove da una sorta di fienile estrasse una vecchia 124, ma di marca russa, ci fece salire ed andò in una strana periferia dove, in un’altra abitazione privata, comprò della benzina al mercato nero.

Cento chilometri ci separavano dal lusso del villaggio, almeno tre volte la macchina si fermò, la benzina non era buona e dovevamo pulire il filtro, ad un posto di blocco dichiarammo di essere amici che andavano a pesca per non essere arrestati e finalmente al villaggio tornammo alla quasi normalità, ma nel frattempo avevamo perso l’unica connessione aerea con l’Italia della settimana, dovendoci fermare un’altra settimana.

Queste non furono le uniche cose negative che vidi, la lista è lunghissima, ricordo che un giorno dissi ad un ragazzo dello staff, con cui disquisivo spesso di cultura, che avevo l’impressione che queste joint venture con soggetti stranieri per il turismo e l’industria stavano facendo cambiare le cose a Cuba, che il vento del cambiamento si sentiva già. Rispose con un lapidario “lo diceva anche mia nonna, ma è morta senza vedere nulla”.

Ma se la povertà ed i regimi sono simili dappertutto, quello che era differente a Cuba era l’impressione diffusa di una giustizia sociale orizzontale e comune, le persone si arrangiavano, però tutto era per tutti, alla sera gli inservienti avevano il diritto di stare con i turisti ed usufruire della discoteca, era normale, non c’erano ceti sociali, delle gerarchie necessarie, ma non ceti sociali. Se il professore universitario guadagnava di più era per il suo ruolo, ma quel “di più” era poca cosa, non il divario sociale che è qui da noi, il professore aveva un po’ di più ma viveva in una casa assegnata da “Fidel”, come tutti e come tutti aveva il cibo razionato.

L’orgoglio di una popolazione che forse non era differente dalle altre era insito in quella giustizia sociale che anche il nostro premier Renzi aveva usato come bandiera, ma Fidel, il vero Fidel, era un’altra cosa.

Forse un sognatore forse un dittatore, forse cieco davanti alla situazione complicata del suo paese, ma un grande padre per tutti, un padre in fondo buono che, come tutti i padri, può sbagliare nell’accudire i propri figli, ma resta il loro padre.

Oggi quel padre amoroso non c’è più, cosa sarà dei suoi figli solo il tempo potrà dirlo, quello che è certo è che con lui se ne è andata la Cuba che conoscevamo, che potevamo criticare, ma che non potevamo fare a meno di amare.

Tu amor revolucionario te conduce a nueva empresa donde esperan la firmeza de tu brazo libertario.

Hasta siempre comandante!

CHE NE SARA' DEI CUBANI

DI PIERLUIGI PENNATI
pierluigi-pennati
Se non siete mai stati a Cuba è più difficile capire, ma anche dopo essere stato a Cuba molto sfugge ancora alla mia comprensione.
Quando ho visitato l’isola, circa venticinque anni fa, Fidel era ancora al potere e quello che ho visto era devastante, una società in contraddizione con se stessa dove orgoglio, apprezzamento rivoluzionario, voglia di evasione e rassegnazione convivevano conflittualmente tra loro e l’aria che si respirava era libera e pesante al tempo stesso.
Turista ignaro, ma curioso, come sono sempre stato, finivo in un villaggio turistico italo-cubano, dove Cuba (Fidel, dicevano tutti) aveva il 51%. A Cuba non era possibile avere qualcosa per più del 49% e Fidel era Cuba stessa, tanto che tutto veniva considerato suo, a partire dal rum invecchiato 15 anni che veniva detto “riserva di Fidel”. Solo lui poteva permetterselo, il solo cubano a possedere tutto, spirito ed anima dell’isola, nazione vivente.
Nel villaggio tutti erano laureati, o quasi, dal personale delle pulizie ai cuochi, tutti giovani, belli ed apparentemente spensierati. Il ragazzo che tagliava la poca frutta disponibile per gli ospiti era un geologo, la splendida ragazza dell’animazione che stava con il cuoco italiano, sposato ma con la famiglia lontana, ingegnere, e così via, fino agli inservienti che avevano frequentato “solo” le scuole superiori. Tutti a pieni voti.
Il perché mi veniva spiegato successivamente, a Cuba vi erano solo due modi vi vivere, rendersi utili o sopravvivere con le razioni statali.
Le razioni statali comprendevano riso, latte e generi alimentari differenziati a seconda dell’età e sempre insufficienti, tanto che la popolazione delle periferie tentava di coltivare qualcosa in segreto, dato che la terra era dello stato e le coltivazioni, fino all’orto di casa, di sua esclusiva pertinenza e sotto autorizzazione.
Solo le sigarette erano abbondanti, marca “Popular”, senza filtro ed in confezioni di sola carta costituita da due involucri a bicchiere rovesciati uno sull’altro. Un pacchetto da venti al giorno per ogni adulto, chi non fumava le rivendeva ai turisti per pochi spiccioli di dollaro, moneta non detenibile dai cubani ma unica veramente utile per fare acquisti, dato che il peso cubano, pur essendo fissato alla pari con il dollaro da Fidel, non veniva scambiato in nessuna altra baca del mondo ed era vietato il possesso da parte dei cittadini dell’isola.
Così, miseria, corruzione, prostituzione, mercato nero ed ogni altro tipo di attività illecite proliferavano sotto un’apparenza completamente pulita all’ombra di una rivoluzione ormai lontana e distante da quei giovani che incontravo.
L’altro modo di vivere era rendersi utili. Il come era davvero variegato, trovare un lavoro difficile, gli stipendi erano unificati, dai due ai tre, massimo cinque pesos al mese a seconda se si facevano le pulizie o si era rettori universitari, la vera differenza consisteva nel benessere dato dal prestigio o dalla possibilità di arrotondare diversamente, così, a parità di stipendio, fare lo steward per la Cubana de Aviacion era meglio che lavorare nella fabbrica di tabacco o le pulizie in un hotel per turisti migliore che il direttore generale delle poste.
La seconda settimana mia moglie veniva colpita da un virus intestinale, tutti ne soffrivano, l’acqua della zona era contaminata e le medicine disponibili il frutto della Guaiava che veniva definito “meglio del Bimixin”, antibiotico contro questo tipo di problemi.
Finivamo in un ospedale dove medici meravigliosi e competenti avevano a disposizione solo acqua e sale, così tenevano mia moglie a digiuno per un giorno con le sole flebo ad alimentarla. Passata la crisi e recuperata la febbre venivamo consigliati di andarcene da lì, non avevano da mangiare per nessuno e, soprattutto, nessun antibiotico da fornirci e l’ospedale “non era il miglior posto per una persona debilitata, dato che tutte le malattie possibili erano lì presenti”.
Eravamo a Moron, cittadina sperduta sull’isola, da soli e non vi erano Taxi, così superate le difficoltà con il telefono, difficile da usare e sotto controllo, dicevano, l’unico albergo locale inviava un cliente italiano, che si era offerto volontario, a prenderci con la sua auto noleggiata all’Avana, mille chilometri distante.
L’italiano aveva famiglia, ma trascorreva da uno a due mesi all’anno a Cuba, dove aveva una fidanzata fissa, una ragazza dall’apparente età di circa vent’anni che per il periodo di permanenza viveva con lui in hotel e con la benedizione della famiglia. Lui, cinquantenne, in cambio portava antibiotici all’ospedale locale, vestiti per la famiglia e comperava generi alimentari per tutti sul posto. Il ricco italiano con la ventenne.
Tutto può sembrare squallido, ma è tipico della povertà, per contro il popolo negava tutto, chi poteva cercava un matrimonio con un turista, uno qualsiasi, maschi, femmina, bello o brutto, bastava andare via, chi restava si ingegnava, più o meno dignitosamente.
Mancava tutto, cibo e materiali, quello che non mancava era l’allegria, lo spirito di rivalsa e la voglia di un futuro migliore sull’isola, amata ed odiata al tempo stesso, ma quasi nessuno osava avanzare ipotesi di morte per Fidel.
Fidel era Cuba, il fratello Raul non era così ben visto, qualcuno diceva che stava preparando il dopo Fidel opzionando l’isola agli stranieri, una sorta di reazionario sotto traccia, ma nessuno osava mettere in dubbio la sua autorità, non con Fidel vivo e saldamente al potere.
I funzionari locali del governo venivano a mangiare a turno nel villaggio, li riconoscevi perché prendevano un tavolo con tutta la numerosa famiglia, erano cubani e non turisti e si servivano abbuffandosi come se non vedessero cibo da anni, ma una volta alla settima facevano il giro, ogni giorno un hotel differente, così erano tutti grassi. La domenica venivano fin dal mattino, dopo pranzo il funzionario prendeva dal bar varie bottiglie di rum invecchiato, offerte dalla direzione, e si ubriacava in spiaggia insieme a degli amici, l’ho visto fare per tre settimane di fila.
Per rientrare al villaggio dovemmo affidarci ad un cubano che aveva un coche, no, non una macchina, un cocchio con un cavallo, a differenza dello spagnolo in cubano l’automobile si chiama carro.
Il padrone del cocchio ci portò a casa sua dove da una sorta di fienile estrasse una vecchia 124, ma di marca russa, ci fece salire ed andò in una strana periferia dove, in un’altra abitazione privata, comprò della benzina al mercato nero.
Cento chilometri ci separavano dal lusso del villaggio, almeno tre volte la macchina si fermò, la benzina non era buona e dovevamo pulire il filtro, ad un posto di blocco dichiarammo di essere amici che andavano a pesca per non essere arrestati e finalmente al villaggio tornammo alla quasi normalità, ma nel frattempo avevamo perso l’unica connessione aerea con l’Italia della settimana, dovendoci fermare un’altra settimana.
Queste non furono le uniche cose negative che vidi, la lista è lunghissima, ricordo che un giorno dissi ad un ragazzo dello staff, con cui disquisivo spesso di cultura, che avevo l’impressione che queste joint venture con soggetti stranieri per il turismo e l’industria stavano facendo cambiare le cose a Cuba, che il vento del cambiamento si sentiva già. Rispose con un lapidario “lo diceva anche mia nonna, ma è morta senza vedere nulla”.
Ma se la povertà ed i regimi sono simili dappertutto, quello che era differente a Cuba era l’impressione diffusa di una giustizia sociale orizzontale e comune, le persone si arrangiavano, però tutto era per tutti, alla sera gli inservienti avevano il diritto di stare con i turisti ed usufruire della discoteca, era normale, non c’erano ceti sociali, delle gerarchie necessarie, ma non ceti sociali. Se il professore universitario guadagnava di più era per il suo ruolo, ma quel “di più” era poca cosa, non il divario sociale che è qui da noi, il professore aveva un po’ di più ma viveva in una casa assegnata da “Fidel”, come tutti e come tutti aveva il cibo razionato.
L’orgoglio di una popolazione che forse non era differente dalle altre era insito in quella giustizia sociale che anche il nostro premier Renzi aveva usato come bandiera, ma Fidel, il vero Fidel, era un’altra cosa.
Forse un sognatore forse un dittatore, forse cieco davanti alla situazione complicata del suo paese, ma un grande padre per tutti, un padre in fondo buono che, come tutti i padri, può sbagliare nell’accudire i propri figli, ma resta il loro padre.
Oggi quel padre amoroso non c’è più, cosa sarà dei suoi figli solo il tempo potrà dirlo, quello che è certo è che con lui se ne è andata la Cuba che conoscevamo, che potevamo criticare, ma che non potevamo fare a meno di amare.
Tu amor revolucionario te conduce a nueva empresa donde esperan la firmeza de tu brazo libertario.
Hasta siempre comandante!

NON CREDO ALLA BREXIT

DI PIERLUIGI PENNATI
pierluigi-pennati
Prima del voto in Inghilterra nessuno pensava fosse nemmeno possibile votare, dopo di esso nessuno mette in dubbio che sia avvenuto e che l’Inghilterra lascerà l’Unione Europea.
Ma alla fine, chi e cosa lascia? L’UE ha migliaia di dipendenti inglesi, che fine faranno? Persino il nuovo vice direttore generale dell’Ufficio Immigrazione comunitario è inglese e appena nominato, nonostante l’Inghilterra abbandoni il campo.
Inoltre tutti sanno che l’Unione Europea altro non è che un accordo economico tra banche centrali, che come effetto ha, ovviamente, la libera circolazione delle persone e delle cose, altrimenti non sarebbe stato sostenibile, e l’adozione più ampia possibile di titoli valutari comuni. Infatti abbiamo notato tutti che sulle banconote dell’Euro è apparso il Copyright che non esiste su nessun’altra banconota al mondo.
Questo perché non è una valuta corrente, lo dicono gli economisti, ma solo un titolo reciprocamente riconosciuto dalle banche, quindi non di proprietà di uno stato e con la necessità di protezione da copia.
In fondo se non fosse stato così non avremmo avuto le recenti crisi, della Grecia in particolare. Ad una banca centrale è sufficiente stampare valuta, non avendo la necessità di copertura finanziaria che è garantita dallo stato, per l’euro, invece, si è reso necessario un prestito al FMI che viene ripagato dallo stato con sacrifici per la sola popolazione cui è riferito il prestito.
La banca centrale europea, quindi, può fallire, al contrario di una banca centrale governativa.
Per questo la Brexit fa paura, perché all’Unione Europea mancheranno le risorse inglesi, mentre il mercato interno molto probabilmente ne beneficerà, allora avanti tutta: tutti contro l’Inghilterra!
Ironia della sorte il primo ministro che dovrà gestire questa uscita era anche il politico che più l’avversava ed ora si trova una bella gatta da pelare.
Molti anni fa, poco prima dell’imminente arrivo dell’Euro sui mercati mi trovavo in Svizzera a colloquio con il titolare di un piccolo ospedale privato, ma molto conosciuto, e parlando della situazione politica europea chiedevo come avrebbero sostenuto in Svizzera l’arrivo dell’Eurozona, sarebbero stati un’isola in un mare compatto. La risposta fu lapidaria e profetica: “non credo che la Svizzera resterà per sempre fuori dalla Comunità Europea, troppi interessi economici.”
Oggi vediamo come la Svizzera vada progressivamente incontro all’abolizione del segreto bancario, come abbia aderito ai patti di Schengen per la libera circolazione delle persone, come, nonostante le resistenze, faccia parte del programma di accoglienza europeo per i rifugiati e via dicendo.
L’Inghilterra non sarà da meno, oggi giorno gli interessi economici superano gli interessi della persona e persino dei governi, gli inglesi resteranno in Europa, anche se in fondo non ci erano ancora proprio entrati, non dovranno cambiare moneta e rivedranno gli accordi economici, un cliente in più interessa all’Europa, come un mercato in più interessa all’Inghilterra.

NON CREDO ALLA BREXIT

Prima del voto in Inghilterra nessuno pensava fosse nemmeno possibile votare, dopo di esso nessuno mette in dubbio che sia avvenuto e che l’Inghilterra lascerà l’Unione Europea.

Ma alla fine, chi e cosa lascia? L’UE ha migliaia di dipendenti inglesi, che fine faranno? Persino il nuovo vice direttore generale dell’Ufficio Immigrazione comunitario è inglese e appena nominato, nonostante l’Inghilterra abbandoni il campo.

Inoltre tutti sanno che l’Unione Europea altro non è che un accordo economico tra banche centrali, che come effetto ha, ovviamente, la libera circolazione delle persone e delle cose, altrimenti non sarebbe stato sostenibile, e l’adozione più ampia possibile di titoli valutari comuni. Infatti abbiamo notato tutti che sulle banconote dell’Euro è apparso il Copyright che non esiste su nessun’altra banconota al mondo.

Questo perché non è una valuta corrente, lo dicono gli economisti, ma solo un titolo reciprocamente riconosciuto dalle banche, quindi non di proprietà di uno stato e con la necessità di protezione da copia.

In fondo se non fosse stato così non avremmo avuto le recenti crisi, della Grecia in particolare. Ad una banca centrale è sufficiente stampare valuta, non avendo la necessità di copertura finanziaria che è garantita dallo stato, per l’euro, invece, si è reso necessario un prestito al FMI che viene ripagato dallo stato con sacrifici per la sola popolazione cui è riferito il prestito.

La banca centrale europea, quindi, può fallire, al contrario di una banca centrale governativa.

Per questo la Brexit fa paura, perché all’Unione Europea mancheranno le risorse inglesi, mentre il mercato interno molto probabilmente ne beneficerà, allora avanti tutta: tutti contro l’Inghilterra!

Ironia della sorte il primo ministro che dovrà gestire questa uscita era anche il politico che più l’avversava ed ora si trova una bella gatta da pelare.

Molti anni fa, poco prima dell’imminente arrivo dell’Euro sui mercati mi trovavo in Svizzera a colloquio con il titolare di un piccolo ospedale privato, ma molto conosciuto, e parlando della situazione politica europea chiedevo come avrebbero sostenuto in Svizzera l’arrivo dell’Eurozona, sarebbero stati un’isola in un mare compatto. La risposta fu lapidaria e profetica: “non credo che la Svizzera resterà per sempre fuori dalla Comunità Europea, troppi interessi economici.”

Oggi vediamo come la Svizzera vada progressivamente incontro all’abolizione del segreto bancario, come abbia aderito ai patti di Schengen per la libera circolazione delle persone, come, nonostante le resistenze, faccia parte del programma di accoglienza europeo per i rifugiati e via dicendo.

L’Inghilterra non sarà da meno, oggi giorno gli interessi economici superano gli interessi della persona e persino dei governi, gli inglesi resteranno in Europa, anche se in fondo non ci erano ancora proprio entrati, non dovranno cambiare moneta e rivedranno gli accordi economici, un cliente in più interessa all’Europa, come un mercato in più interessa all’Inghilterra.

UNA RIFORMA CONTRO IL SUD

DI PIERLUIGI PENNATI
pierluigi-pennati
Il sud d’Italia sembra davvero senza speranza, nel peggior momento di crisi della sua storia repubblicana ha ancor più necessità di politiche e politici di qualità, che possano continuarne e con maggior efficacia il faticoso rilancio del territorio e delle infrastrutture, trasporti, efficienza e sostenibilità economica.
Invece, se da una parte il governo annuncia il termine dei lavori sulla Salerno-Reggio Calabria, da sempre simbolo dell’inefficienza dell’apparato pubblico, dall’altra, seguendo la logica del “ci penso io” proprio di mentalità non esattamente democratiche, propone una riforma che, ad avviso dei quasi cento personaggi pubblici del Sud firmatari di un eloquente documento sulle ragioni del NO, ostacola ancora una volta le prospettive di sviluppo del territorio.
Il propagarsi dei comitati del NO che tentano di spiegare in parole semplici ai cittadini una riforma complessa ed insidiosa sono la prova della sua complessità e della confusione che introduce nel processo decisionale di tutti noi per scegliere in modo responsabile e cosciente, dato che dopo l’eventuale SI, si complicheranno ancora di più le cose per eventuali ulteriori modifiche ed aggiustamenti.
Il pericolo è, quindi, che si vada a votare seguendo gli slogan elettorali che non mancano mai.
A partire dal motto “forza Italia”, trasformato in nome di partito, sono state propagate sistematicamente immagini positive ed efficaci slogan per movimenti e partiti, cambiando l’aspetto esteriore della solita politica stantia che si è così lavata la faccia senza davvero cambiare nulla o quasi, nella più stretta logica del Gattopardo.
Anche per questa ragione, oggi come mai, si deve fare più attenzione ai contenuti, evitando il giudizio sulle sole apparenze, cui ci hanno abituati, e scavando più nel profondo delle proposte che ci vengono sottoposte.
L’incontrovertibile e prezioso documento dei 50 costituzionalisti per il NO evidenzia alcune modifiche apprezzabili introdotte dalla riforma, a partire dal superamento del bicameralismo perfetto, ma, al contempo, sottolinea che “questi aspetti positivi non sono tali da compensare gli aspetti critici”.
La maggior concentrazione e personalizzazione del potere esecutivo, che, fra l’altro, disporrà di una corsia preferenziale nel nuovo processo legislativo affidato in gran parte ad una sola Camera saldamente controllata dal Premier, ed il forte accentramento nell’esecutivo nazionale dei poteri di governo del paese a danno delle Regioni, sono forse gli aspetti più pericolosi per lo sviluppo locale, tanto più per dei territori già storicamente provati oltre che non ancora adeguatamente valorizzati ed in piena crisi.
Due aspetti che già da sé valgono un rifiuto, dato che al loro posto sarebbe necessario che in un sistema democratico ben rappresentativo e ben funzionante vi siamo più forti meccanismi di “controllo ed equilibrio” e un ruolo legislativo più rilevante, osservato anche che la capacità di governo, oggi, non è minata da fattori istituzionali, ma da politiche deboli.
Inoltre, il testo sottoposto a referendum non modifica gli ingiustificati privilegi per le regioni a statuto speciale, mentre per le regioni più ricche e con bilanci più sani, introduce la possibilità di tornare ad acquisire rilevanti competenze.
Infine, se le regioni, specie al Sud ma non solo, non hanno sempre dato buona prova di sé, ma questo è un problema più politico che istituzionale, i Ministeri non sono stati da meno, poiché in una società articolata e multiforme, come la nostra, è difficile governare per decreti centrali rendendosi, invece, indispensabile una stretta collaborazione fra i differenti livelli di governo che possano, se necessario, coinvolgere i cittadini nelle scelte a loro rivolte.
È quindi proprio la logica di “maggior centralità” alla quale è ispirata la riforma a non garantire in alcun modo questo obiettivo, provvedendo, invece, solo a dare al Governo centrale la possibilità d’imporre ai territori le sue scelte, anche quelle potenzialmente e/o sicuramente dannose.
Tutto questo è stato già ampiamente dimostrato dalle scelte politiche compiute negli ultimi anni, promosse dagli esecutivi senza un sufficiente dibattito parlamentare e che stanno gradualmente rendendo diritti e servizi diseguali e sempre più dipendenti dalla ricchezza dei territori, aumentando la pressione fiscale in quelli più deboli e concentrando i pochi investimenti nelle aree più forti del paese, ridisegnando sanità, scuola, welfare in misura sbilanciata ed a danno del Sud, od almeno svantaggiandolo, ed anche la riforma, promossa dall’attuale esecutivo, di profonda trasformazione e concentrazione del sistema universitario, avrà effetti gravissimi sul futuro civile ed economico del Sud.
In Italia c’è sicuramente tanto da cambiare e da innovare, soprattutto al Sud, rapidamente e senza ripetere gli errori già fatti, ma nella società attuale le vere riforme, quelle utili e funzionali, possono nascere solo da un ampio confronto democratico e dall’attenta rappresentazione e composizione delle diverse esigenze territoriali, oltre che dall’interazione tra i saperi, le conoscenze e le culture politiche e sociali.
Il reggente buono ed illuminato che conosce i bisogni del suo paese è solo una pericolosa illusione, reminiscenza di regimi passati e non certo il possibile frutto di questa riforma costituzionale.

UNA RIFORMA CONTRO IL SUD

Il sud d’Italia sembra davvero senza speranza, nel peggior momento di crisi della sua storia repubblicana ha ancor più necessità di politiche e politici di qualità, che possano continuarne e con maggior efficacia il faticoso rilancio del territorio e delle infrastrutture, trasporti, efficienza e sostenibilità economica.

Invece, se da una parte il governo annuncia il termine dei lavori sulla Salerno-Reggio Calabria, da sempre simbolo dell’inefficienza dell’apparato pubblico, dall’altra, seguendo la logica del “ci penso io” proprio di mentalità non esattamente democratiche, propone una riforma che, ad avviso dei quasi cento personaggi pubblici del Sud firmatari di un eloquente documento sulle ragioni del NO, ostacola ancora una volta le prospettive di sviluppo del territorio.

Il propagarsi dei comitati del NO che tentano di spiegare in parole semplici ai cittadini una riforma complessa ed insidiosa sono la prova della sua complessità e della confusione che introduce nel processo decisionale di tutti noi per scegliere in modo responsabile e cosciente, dato che dopo l’eventuale SI, si complicheranno ancora di più le cose per eventuali ulteriori modifiche ed aggiustamenti.

Il pericolo è, quindi, che si vada a votare seguendo gli slogan elettorali che non mancano mai.

A partire dal motto “forza Italia”, trasformato in nome di partito, sono state propagate sistematicamente immagini positive ed efficaci slogan per movimenti e partiti, cambiando l’aspetto esteriore della solita politica stantia che si è così lavata la faccia senza davvero cambiare nulla o quasi, nella più stretta logica del Gattopardo.

Anche per questa ragione, oggi come mai, si deve fare più attenzione ai contenuti, evitando il giudizio sulle sole apparenze, cui ci hanno abituati, e scavando più nel profondo delle proposte che ci vengono sottoposte.

L’incontrovertibile e prezioso documento dei 50 costituzionalisti per il NO evidenzia alcune modifiche apprezzabili introdotte dalla riforma, a partire dal superamento del bicameralismo perfetto, ma, al contempo, sottolinea che “questi aspetti positivi non sono tali da compensare gli aspetti critici”.

La maggior concentrazione e personalizzazione del potere esecutivo, che, fra l’altro, disporrà di una corsia preferenziale nel nuovo processo legislativo affidato in gran parte ad una sola Camera saldamente controllata dal Premier, ed il forte accentramento nell’esecutivo nazionale dei poteri di governo del paese a danno delle Regioni, sono forse gli aspetti più pericolosi per lo sviluppo locale, tanto più per dei territori già storicamente provati oltre che non ancora adeguatamente valorizzati ed in piena crisi.

Due aspetti che già da sé valgono un rifiuto, dato che al loro posto sarebbe necessario che in un sistema democratico ben rappresentativo e ben funzionante vi siamo più forti meccanismi di “controllo ed equilibrio” e un ruolo legislativo più rilevante, osservato anche che la capacità di governo, oggi, non è minata da fattori istituzionali, ma da politiche deboli.

Inoltre, il testo sottoposto a referendum non modifica gli ingiustificati privilegi per le regioni a statuto speciale, mentre per le regioni più ricche e con bilanci più sani, introduce la possibilità di tornare ad acquisire rilevanti competenze.

Infine, se le regioni, specie al Sud ma non solo, non hanno sempre dato buona prova di sé, ma questo è un problema più politico che istituzionale, i Ministeri non sono stati da meno, poiché in una società articolata e multiforme, come la nostra, è difficile governare per decreti centrali rendendosi, invece, indispensabile una stretta collaborazione fra i differenti livelli di governo che possano, se necessario, coinvolgere i cittadini nelle scelte a loro rivolte.

È quindi proprio la logica di “maggior centralità” alla quale è ispirata la riforma a non garantire in alcun modo questo obiettivo, provvedendo, invece, solo a dare al Governo centrale la possibilità d’imporre ai territori le sue scelte, anche quelle potenzialmente e/o sicuramente dannose.

Tutto questo è stato già ampiamente dimostrato dalle scelte politiche compiute negli ultimi anni, promosse dagli esecutivi senza un sufficiente dibattito parlamentare e che stanno gradualmente rendendo diritti e servizi diseguali e sempre più dipendenti dalla ricchezza dei territori, aumentando la pressione fiscale in quelli più deboli e concentrando i pochi investimenti nelle aree più forti del paese, ridisegnando sanità, scuola, welfare in misura sbilanciata ed a danno del Sud, od almeno svantaggiandolo, ed anche la riforma, promossa dall’attuale esecutivo, di profonda trasformazione e concentrazione del sistema universitario, avrà effetti gravissimi sul futuro civile ed economico del Sud.

In Italia c’è sicuramente tanto da cambiare e da innovare, soprattutto al Sud, rapidamente e senza ripetere gli errori già fatti, ma nella società attuale le vere riforme, quelle utili e funzionali, possono nascere solo da un ampio confronto democratico e dall’attenta rappresentazione e composizione delle diverse esigenze territoriali, oltre che dall’interazione tra i saperi, le conoscenze e le culture politiche e sociali.

Il reggente buono ed illuminato che conosce i bisogni del suo paese è solo una pericolosa illusione, reminiscenza di regimi passati e non certo il possibile frutto di questa riforma costituzionale.

LEGGERE MUSSOLINI PRIMA DEL VOTO

DI PIERLUIGI PENNATI
pierluigi-pennati
Quando i padri fondatori discutevano su come scrivere la nostra costituzione repubblicana i miei genitori nemmeno si conoscevano, anzi, uno di loro nemmeno era nato e l’altro era un semplice giovanissimo partigiano di periferia, ed il 25 giugno 2013 si spegneva Emilio Colombo, l’ultimo e più giovane dei padri costituenti.
In assenza di testimoni diretti mi chiedo spesso come possiamo noi oggi comprendere lo spirito ed i pericoli che i padri della patria vedevano nel fondare una nuova nazione e nel gettarne le basi che dovevano essere durature, se non eterne, e se io comincio ad avanzare in età, ed ho ricordi di seconda mano, come potrà mai un giovane di seconda o terza generazione mantenere i valori espressi o solo sottesi ad un simile importante quasi dogmatico documento?
La storia ci viene in aiuto, anche se è spesso noiosa e complicata da leggere ed interpretare, ma possiamo provarci tentando di analizzare la filosofia che il documento voleva rifuggire e combattere: il fascismo.
La costituzione repubblicana italiana è antifascista, tutti noi, o quasi, siamo antifascisti, ma spesso parliamo del fascismo senza conoscerlo, alimentando falsi miti e leggende di ogni tipo, nell’una e nell’altra direzione e nell’era di internet e dell’analfabetismo funzionale serve, forse, tornare indietro e rileggere il testo base sulla filosofia del fascismo, quello che probabilmente fu fonte ed ispirazione dei padri costituenti per non ripetere più gli errori del passato, monarchia e dittature di ogni genere, un testo scritto dallo stesso fondatore e teorico del Fascismo ad uso delle scuole superiori: “La dottrina del fascismo” di Benito Mussolini.
L’idea di leggere un libro scritto da Mussolini in persona può scandalizzare, ma non bisogna chiudere gli occhi davanti al nemico, bisogna guardarlo bene in faccia, per comprenderlo e combatterlo consapevolmente. La costituzione fu scritta da chi quel libro lo conosceva certamente bene, almeno per esperienza diretta, e quel libro può darci indicazioni sui valori civili ed antifascisti della nostra costituzione.
Nella prefazione l’editore ci avverte che la parte fondamentale “è costituita dallo scritto del Duce, nel quale – son, parole Sue – « è stabilito nettissimamente il mio pensiero dal punto di vista filosofico e dottrinale. »”, un libro, quindi, ed un contenuto che non può essere trascurato nel decidere, il 4 dicembre, se modificare o meno il sistema legislativo italiano, probabilmente per sempre.
In quel libro si trovano le idee fondamentali dalle quali nel 1947 si scappava, in esso è scritto che “Come ogni salda concezione politica, il Fascismo è prassi ed è pensiero, azione a cui è immanente una dottrina, e dottrina che, sorgendo da un dato sistema di forze storiche, vi resta inserita e vi opera dal di dentro”.
Ma le frasi forse centrali sono le modalità con cui si esplicita il fascismo, Mussolini sostiene che i “Regimi democratici possono essere definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo l’illusione di essere sovrano, mentre la vera effettiva sovranità sta in altre forze talora irresponsabili e segrete”, riducendo la figura dell’elettore e della democrazia ad una semplice illusione di se stessa, infatti “La democrazia è un regime senza re, ma con moltissimi re talora più esclusivi, tirannici e rovinosi che un solo re che sia tiranno.”
Quindi, per Mussolini, la democrazia è pericolosa per la governabilità dello stato e continua con “Questo spiega perché il Fascismo, pur avendo prima del 1922 – per ragioni di contingenza – assunto un atteggiamento di tendenzialità repubblicana, vi rinunciò prima della marcia su Roma, convinto che la questione delle forme politiche di uno Stato non è, oggi, preminente e che studiando nel campionario delle monarchie passate e presenti, delle repubbliche passate e presenti, risulta che monarchia e repubblica non sono da giudicare sotto la specie dell’eternità, ma rappresentano forme nelle quali si estrinseca.”
Finta democrazia e stato padrone in una sorta di illusione collettiva dove “la democrazia può essere diversamente intesa, cioè se democrazia significa non respingere il popolo ai margini dello Stato, il Fascismo poté da chi scrive essere definito una « democrazia organizzata, centralizzata, autoritaria »”.
I padri fondatori, che certamente conoscevano bene la materia filosofica, decisero, probabilmente, di opporvisi nell’unico modo considerato possibile ed ancor oggi valido: nell’allargamento della democrazia e non nella sua compressione.
In questa ottica, la rinuncia o la limitazione della democrazia in favore della governabilità realizza in pieno le idee fasciste che da quasi un secolo rifuggiamo, la domanda quindi non dovrebbe essere se vogliamo cambiare, ma se davvero vogliamo tornare indietro o se, volendo cambiare a tutti i costi, non sia meglio pensare ad uno stato dove la democrazia diretta sia più presente.
In Italia mancano procedure per il sostegno di leggi di iniziativa popolare, per l’approvazione collettiva delle nuove norme, tutto è già ampiamente accentrato nello stato, quasi secondo l’idea Mussoliniana antiindividualistica, dove “la concezione fascista è per lo Stato ed è per l’individuo in quanto esso coincide con lo Stato” e “contro il liberalismo classico”, arrivando a dichiarare che “Il concetto di libertà non è assoluto perché nella vita nulla vi è di assoluto. La libertà non è un diritto, è un dovere. Non è una elargizione: è una conquista; non è un’eguaglianza: è un privilegio. Il concetto di libertà muta col passare del tempo. C’è una libertà in tempo di pace che non è più la libertà in tempo di guerra. C’è una libertà in tempo di ricchezza che non può essere concessa in tempo di miseria.”
In altri sistemi di governo, quello svizzero, per esempio, le consultazioni popolari per confermare l’operato del legislatore sono alla base della democrazia e nell’era di internet la relativa spesa e procedure sono enormemente abbattuti e più semplici, tanto che persino nell’Appenzeller, dove le donne hanno acquisito il voto solo dal 1990 e fino al 1996 il popolo si esprimeva in piazza per alzata di mano, si vota per corrispondenza o tramite internet con costi risibili, e chi può dire che la svizzera sia un paese sottosviluppato od una dittatura?
Non ci sono scuse, quindi, esistono modi e modalità democratiche efficienti ed economici anche senza dover rinunciare al bicameralismo, la cui funzione è principalmente quella di assicurare il pluralismo e l’equilibrio fra i poteri, tanto da essere in vigore in moltissimi paesi democratici al mondo senza essere messa in discussione. Francia e Stati Uniti hanno due camere e persino l’Unione Europea ha due assemblee che legiferano insieme e che sono, in modo diretto od indiretto, elette dai cittadini in modo chiaro e responsabile.
Con tutta probabilità, il quesito che i padri fondatori volevano risolvere era se governare a tutti i costi od inchinarsi democraticamente davanti alla nazione in quanto individuo e non stato padrone.
La soluzione costituzionale trovata nel 1947 è forse perfettibile, ma i perfezionamenti dovrebbero dirigersi nel senso dell’allargamento della democrazia e non della sua limitazione, il primo è spirito antifascista, il secondo conferma della teoria che “Il Fascismo nega che il numero, per il semplice fatto di essere numero, possa dirigere le società umane; nega che questo numero possa governare attraverso una consultazione periodica; afferma la disuguaglianza irrimediabile e feconda e benefica degli uomini che non si possono livellare attraverso un fatto meccanico ed estrinseco com’è il suffragio universale.”
Sessantanove anni fa si scappava dal concetto che “Chi può risolvere le drammatiche contraddizioni del capitalismo è lo Stato. Quella che si chiama crisi, non si può risolvere se non dallo Stato, entro lo Stato” e che “Lo Stato fascista organizza la Nazione, ma lascia poi agli individui margini sufficienti; esso ha limitato le libertà inutili o nocive e ha conservato quelle essenziali.”, oggi siamo chiamati a guardare avanti, facciamolo, ma con gli occhi bene aperti.

LEGGERE MUSSOLINI PRIMA DEL VOTO

Quando i padri fondatori discutevano su come scrivere la nostra costituzione repubblicana i miei genitori nemmeno si conoscevano, anzi, uno di loro nemmeno era nato e l’altro era un semplice giovanissimo partigiano di periferia, ed il 25 giugno 2013 si spegneva Emilio Colombo, l’ultimo e più giovane dei padri costituenti.

In assenza di testimoni diretti mi chiedo spesso come possiamo noi oggi comprendere lo spirito ed i pericoli che i padri della patria vedevano nel fondare una nuova nazione e nel gettarne le basi che dovevano essere durature, se non eterne, e se io comincio ad avanzare in età, ed ho ricordi di seconda mano, come potrà mai un giovane di seconda o terza generazione mantenere i valori espressi o solo sottesi ad un simile importante quasi dogmatico documento?

La storia ci viene in aiuto, anche se è spesso noiosa e complicata da leggere ed interpretare, ma possiamo provarci tentando di analizzare la filosofia che il documento voleva rifuggire e combattere: il fascismo.

La costituzione repubblicana italiana è antifascista, tutti noi, o quasi, siamo antifascisti, ma spesso parliamo del fascismo senza conoscerlo, alimentando falsi miti e leggende di ogni tipo, nell’una e nell’altra direzione e nell’era di internet e dell’analfabetismo funzionale serve, forse, tornare indietro e rileggere il testo base sulla filosofia del fascismo, quello che probabilmente fu fonte ed ispirazione dei padri costituenti per non ripetere più gli errori del passato, monarchia e dittature di ogni genere, un testo scritto dallo stesso fondatore e teorico del Fascismo ad uso delle scuole superiori: “La dottrina del fascismo” di Benito Mussolini.

L’idea di leggere un libro scritto da Mussolini in persona può scandalizzare, ma non bisogna chiudere gli occhi davanti al nemico, bisogna guardarlo bene in faccia, per comprenderlo e combatterlo consapevolmente. La costituzione fu scritta da chi quel libro lo conosceva certamente bene, almeno per esperienza diretta, e quel libro può darci indicazioni sui valori civili ed antifascisti della nostra costituzione.

Nella prefazione l’editore ci avverte che la parte fondamentale “è costituita dallo scritto del Duce, nel quale – son, parole Sue – « è stabilito nettissimamente il mio pensiero dal punto di vista filosofico e dottrinale. »”, un libro, quindi, ed un contenuto che non può essere trascurato nel decidere, il 4 dicembre, se modificare o meno il sistema legislativo italiano, probabilmente per sempre.

In quel libro si trovano le idee fondamentali dalle quali nel 1947 si scappava, in esso è scritto che “Come ogni salda concezione politica, il Fascismo è prassi ed è pensiero, azione a cui è immanente una dottrina, e dottrina che, sorgendo da un dato sistema di forze storiche, vi resta inserita e vi opera dal di dentro”.

Ma le frasi forse centrali sono le modalità con cui si esplicita il fascismo, Mussolini sostiene che i “Regimi democratici possono essere definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo l’illusione di essere sovrano, mentre la vera effettiva sovranità sta in altre forze talora irresponsabili e segrete”, riducendo la figura dell’elettore e della democrazia ad una semplice illusione di se stessa, infatti “La democrazia è un regime senza re, ma con moltissimi re talora più esclusivi, tirannici e rovinosi che un solo re che sia tiranno.”

Quindi, per Mussolini, la democrazia è pericolosa per la governabilità dello stato e continua con “Questo spiega perché il Fascismo, pur avendo prima del 1922 – per ragioni di contingenza – assunto un atteggiamento di tendenzialità repubblicana, vi rinunciò prima della marcia su Roma, convinto che la questione delle forme politiche di uno Stato non è, oggi, preminente e che studiando nel campionario delle monarchie passate e presenti, delle repubbliche passate e presenti, risulta che monarchia e repubblica non sono da giudicare sotto la specie dell’eternità, ma rappresentano forme nelle quali si estrinseca.”

Finta democrazia e stato padrone in una sorta di illusione collettiva dove “la democrazia può essere diversamente intesa, cioè se democrazia significa non respingere il popolo ai margini dello Stato, il Fascismo poté da chi scrive essere definito una « democrazia organizzata, centralizzata, autoritaria »”.

I padri fondatori, che certamente conoscevano bene la materia filosofica, decisero, probabilmente, di opporvisi nell’unico modo considerato possibile ed ancor oggi valido: nell’allargamento della democrazia e non nella sua compressione.

In questa ottica, la rinuncia o la limitazione della democrazia in favore della governabilità realizza in pieno le idee fasciste che da quasi un secolo rifuggiamo, la domanda quindi non dovrebbe essere se vogliamo cambiare, ma se davvero vogliamo tornare indietro o se, volendo cambiare a tutti i costi, non sia meglio pensare ad uno stato dove la democrazia diretta sia più presente.

In Italia mancano procedure per il sostegno di leggi di iniziativa popolare, per l’approvazione collettiva delle nuove norme, tutto è già ampiamente accentrato nello stato, quasi secondo l’idea Mussoliniana antiindividualistica, dove “la concezione fascista è per lo Stato ed è per l’individuo in quanto esso coincide con lo Stato” e “contro il liberalismo classico”, arrivando a dichiarare che “Il concetto di libertà non è assoluto perché nella vita nulla vi è di assoluto. La libertà non è un diritto, è un dovere. Non è una elargizione: è una conquista; non è un’eguaglianza: è un privilegio. Il concetto di libertà muta col passare del tempo. C’è una libertà in tempo di pace che non è più la libertà in tempo di guerra. C’è una libertà in tempo di ricchezza che non può essere concessa in tempo di miseria.”

In altri sistemi di governo, quello svizzero, per esempio, le consultazioni popolari per confermare l’operato del legislatore sono alla base della democrazia e nell’era di internet la relativa spesa e procedure sono enormemente abbattuti e più semplici, tanto che persino nell’Appenzeller, dove le donne hanno acquisito il voto solo dal 1990 e fino al 1996 il popolo si esprimeva in piazza per alzata di mano, si vota per corrispondenza o tramite internet con costi risibili, e chi può dire che la svizzera sia un paese sottosviluppato od una dittatura?

Non ci sono scuse, quindi, esistono modi e modalità democratiche efficienti ed economici anche senza dover rinunciare al bicameralismo, la cui funzione è principalmente quella di assicurare il pluralismo e l’equilibrio fra i poteri, tanto da essere in vigore in moltissimi paesi democratici al mondo senza essere messa in discussione. Francia e Stati Uniti hanno due camere e persino l’Unione Europea ha due assemblee che legiferano insieme e che sono, in modo diretto od indiretto, elette dai cittadini in modo chiaro e responsabile.

Con tutta probabilità, il quesito che i padri fondatori volevano risolvere era se governare a tutti i costi od inchinarsi democraticamente davanti alla nazione in quanto individuo e non stato padrone.

La soluzione costituzionale trovata nel 1947 è forse perfettibile, ma i perfezionamenti dovrebbero dirigersi nel senso dell’allargamento della democrazia e non della sua limitazione, il primo è spirito antifascista, il secondo conferma della teoria che “Il Fascismo nega che il numero, per il semplice fatto di essere numero, possa dirigere le società umane; nega che questo numero possa governare attraverso una consultazione periodica; afferma la disuguaglianza irrimediabile e feconda e benefica degli uomini che non si possono livellare attraverso un fatto meccanico ed estrinseco com’è il suffragio universale.”

Sessantanove anni fa si scappava dal concetto che “Chi può risolvere le drammatiche contraddizioni del capitalismo è lo Stato. Quella che si chiama crisi, non si può risolvere se non dallo Stato, entro lo Stato” e che “Lo Stato fascista organizza la Nazione, ma lascia poi agli individui margini sufficienti; esso ha limitato le libertà inutili o nocive e ha conservato quelle essenziali.”, oggi siamo chiamati a guardare avanti, facciamolo, ma con gli occhi bene aperti.

L’INGOMBRANTE ASSENZA DEL PARTITO DEMOCRATICO

Se c’è una cosa che salta subito all’occhio in questa campagna referendaria è la quasi esclusiva presenza del Governo sulla scena del fronte del SI, nella quale il PD è il solo grande partito e sembra che tutti, ma proprio tutti, gli altri partiti e movimenti politici e d’opinione italiani siano schierati contro.

In questa limitata visione, non è un caso che il premier abbia definito accozzaglia chi si oppone, dato che mancando totalmente altre voci che confermino come questa riforma costituzionale sia veramente nella direzione del risparmio e della governabilità, il governo è solo contro tutti.

Non conosco altri nostri precedenti se non quello del 2006, quando l’allora premier Berlusconi promosse quasi da solo una riforma costituzionale dai contenuti curiosamente simili a quanto voteremo il 4 dicembre.

Anche la riforma Berlusconi prevedeva la riduzione del numero di deputati, da 630 a 518 e dei senatori da 315 a 252, per un totale di 770 contro i 730 proposti oggi.

Lo stesso Berlusconi dichiarava nei suoi comizi “Con questa nostra riforma noi abbiamo dato il vita ad una sola camera, le leggi dello stato non dovranno più passare da due camere ma saranno approvate soltanto da una camera”.

La fine del bicameralismo perfetto era quindi un altro punto forte ed il Presidente della Repubblica sarebbe divenuto “garante dell’unità federale della Repubblica, con aumento dei poteri del Primo Ministro”, il cosiddetto “Premierato”, che unito ad una clausola contro i cambi parlamentari di maggioranza ed obbligo di nuove consultazioni popolari in caso di caduta del governo avrebbe dato al paese quella governabilità che gli mancava da sempre.

L’autonomia di Roma e la clausola di supremazia, nella quale lo Stato avrebbe potuto sostituirsi alle Regioni, e la clausola di Interesse nazionale completavano il panorama.

Davanti a queste proposte referendarie Veltroni ai tempi dichiarava: “Il tentativo di Berlusconi di mettere in discussione la costituzione di revocarne in dubbio le radici fondamentali, il tentativo di trasformare la nostra democrazia in un potere sostanzialmente conferito nelle mani di uno solo come Berlusconi ha detto di voler fare, questo è estraneo alla logica alle tradizioni al senso di una grande democrazia come quella italiana”.

Dario Franceschini non era da meno: “Il presidente del consiglio ha in mente un paese dove il potere viene sempre di più tacitamente concentrato nelle mani di una sola persona, questo è contro la costituzione a cui lui ha giurato fedeltà” ed ancora “abbiamo un presidente del consiglio che disprezza i principi della nostra democrazia ed offende la costituzione, Berlusconi ha in mente una forma moderna di autoritarismo”.

Anna Finocchiaro si lasciava andare durante la grande manifestazione contro il referendum alla dichiarazione pubblica: “Siamo qui per difendere la costituzione, per difendere quel patto che nasce dalla resistenza e che io credo ancora oggi uno degli esempi più straordinari e moderni di costituzione nel mondo intero”

Nel mondo dello spettacolo Benigni sosteneva che la nostra Costituzione fosse la più bella del mondo e nei suoi spettacoli dichiarava: “La democrazia ed il fatto che sia pubblica è il primo comandamento, nessuno si può appropriare del bene pubblico, un politico od un partito che si fa una legge solo per sé la usa solo per se o per un gruppo una parte”. Citando i costituenti: “loro hanno detto: noi non vogliamo che si ripeta, Hitler è stato eletto dal popolo.

Allora hanno avuto un’idea che ci salva, salva le nostre vite e quelle dei nostri figli per la pace e la libertà”, “questo testo è scritto da persone sobrie da andare a rileggere quando si ubriacano”, e citando Ulisse che davanti alle sirene si fa legare pur essendo il comandante “noi siamo legati alla costituzione arrivano le sirene, questi che fanno la politica della paura, che vanno a toccare le nostre parti più rozze, che ci vogliono far tornare nel buio della storia indietro da questi principi che leggeremo e ci fanno macché libertà, vieni da me, te la do io, macché democrazia, lo vedi la libertà è tremenda, fanno una confusione, un casino, dammi il potere a me, ci vuole un uomo forte che rimetta a posto le cose, slegatemi!!”, “ma nessuno lo può slegare, La democrazia non è la sovranità del popolo che va in piazza con al violenza, la vera democrazia sono questi principi che il popolo si è dato quando era sobrio splendido e bello, si è incoronato imperatore di se stesso e siccome anche noi siamo sovrani questi principi sono il sovrano del sovrano, il re dei re”.

Dichiarazioni chiare, coerenti e condivisibili, lezioni di vita e di democrazia di fronte al tentativo di minare le fondamenta della nostra costituzione redatta nel 1948 alla fine di un’esperienza traumatica di governo che aveva messo in ginocchio l’Italia e che aveva seminato paura e discriminazione per un ventennio: il fascismo.

Fu allora che, nello scrivere il nostro attuale sistema costituzionale, i padri fondatori, seguendo non solo la linea dei diritti e del miglior governo, ma, certamente e soprattutto, l’istinto naturale di rifuggire il fascismo appena destituito ed impedire che potesse ritornare, scrissero una costituzione repubblicana nella quale la democrazia rendeva forse difficile il governo ma garantiva libertà, pace e giustizia.

Oggi, nell’osservare il governo di turno riproporre un testo già rifiutato nei principi prima dai padri fondatori e dopo da un primo referendum costituzionale, quello che stupisce di più non è il tentativo di limitazione della democrazia, ma il fatto che chi lo promuove è al tempo stesso il capo del Governo ed il Segretario di un partito che possiede un “Manifesto dei Valori” che all’articolo 3 cita testualmente: «La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercé della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito Democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza, anche promuovendo le necessarie modifiche al procedimento di revisione costituzionale.

La Costituzione può e deve essere aggiornata, nel solco dell’esperienza delle grandi democrazie europee, con riforme condivise, coerenti con i principi e i valori della Carta del 1948, confermati a larga maggioranza dal referendum del 2006.»

Se una persona può cambiare idea, se un politico può rinnegare le promesse fatte in campagna elettorale tradendo i suoi elettori, un manifesto dei valori alla base dell’azione di un movimento politico non può essere strumentalizzato a piacimento, esso è, e deve rimanere, un punto fisso in tutta l’azione del partito pena l’esclusione di chi non lo condivide.

In questa campagna referendaria, quindi, quello che stupisce di più non è la presenza del Governo come unico attore ad esso favorevole, ma l’ingombrante assenza del Partito Democratico che fin dal principio di essa tace, senza prendere provvedimenti, di fronte alla palese violazione dei suoi principi costituenti, tanto più se ad infrangerli è addirittura il suo segretario, custode e garante.

L'INGOMBRANTE ASSENZA DEL PARTITO DEMOCRATICO

DI PIERLUIGI PENNATI
pierluigi-pennati
Se c’è una cosa che salta subito all’occhio in questa campagna referendaria è la quasi esclusiva presenza del Governo sulla scena del fronte del SI, nella quale il PD è il solo grande partito e sembra che tutti, ma proprio tutti, gli altri partiti e movimenti politici e d’opinione italiani siano schierati contro.
In questa limitata visione, non è un caso che il premier abbia definito accozzaglia chi si oppone, dato che mancando totalmente altre voci che confermino come questa riforma costituzionale sia veramente nella direzione del risparmio e della governabilità, il governo è solo contro tutti.
Non conosco altri nostri precedenti se non quello del 2006, quando l’allora premier Berlusconi promosse quasi da solo una riforma costituzionale dai contenuti curiosamente simili a quanto voteremo il 4 dicembre.
Anche la riforma Berlusconi prevedeva la riduzione del numero di deputati, da 630 a 518 e dei senatori da 315 a 252, per un totale di 770 contro i 730 proposti oggi.
Lo stesso Berlusconi dichiarava nei suoi comizi “Con questa nostra riforma noi abbiamo dato il vita ad una sola camera, le leggi dello stato non dovranno più passare da due camere ma saranno approvate soltanto da una camera”.
La fine del bicameralismo perfetto era quindi un altro punto forte ed il Presidente della Repubblica sarebbe divenuto “garante dell’unità federale della Repubblica, con aumento dei poteri del Primo Ministro”, il cosiddetto “Premierato”, che unito ad una clausola contro i cambi parlamentari di maggioranza ed obbligo di nuove consultazioni popolari in caso di caduta del governo avrebbe dato al paese quella governabilità che gli mancava da sempre.
L’autonomia di Roma e la clausola di supremazia, nella quale lo Stato avrebbe potuto sostituirsi alle Regioni, e la clausola di Interesse nazionale completavano il panorama.
Davanti a queste proposte referendarie Veltroni ai tempi dichiarava: “Il tentativo di Berlusconi di mettere in discussione la costituzione di revocarne in dubbio le radici fondamentali, il tentativo di trasformare la nostra democrazia in un potere sostanzialmente conferito nelle mani di uno solo come Berlusconi ha detto di voler fare, questo è estraneo alla logica alle tradizioni al senso di una grande democrazia come quella italiana”.
Dario Franceschini non era da meno: “Il presidente del consiglio ha in mente un paese dove il potere viene sempre di più tacitamente concentrato nelle mani di una sola persona, questo è contro la costituzione a cui lui ha giurato fedeltà” ed ancora “abbiamo un presidente del consiglio che disprezza i principi della nostra democrazia ed offende la costituzione, Berlusconi ha in mente una forma moderna di autoritarismo”.
Anna Finocchiaro si lasciava andare durante la grande manifestazione contro il referendum alla dichiarazione pubblica: “Siamo qui per difendere la costituzione, per difendere quel patto che nasce dalla resistenza e che io credo ancora oggi uno degli esempi più straordinari e moderni di costituzione nel mondo intero”
Nel mondo dello spettacolo Benigni sosteneva che la nostra Costituzione fosse la più bella del mondo e nei suoi spettacoli dichiarava: “La democrazia ed il fatto che sia pubblica è il primo comandamento, nessuno si può appropriare del bene pubblico, un politico od un partito che si fa una legge solo per sé la usa solo per se o per un gruppo una parte”. Citando i costituenti: “loro hanno detto: noi non vogliamo che si ripeta, Hitler è stato eletto dal popolo. Allora hanno avuto un’idea che ci salva, salva le nostre vite e quelle dei nostri figli per la pace e la libertà”, “questo testo è scritto da persone sobrie da andare a rileggere quando si ubriacano”, e citando Ulisse che davanti alle sirene si fa legare pur essendo il comandante “noi siamo legati alla costituzione arrivano le sirene, questi che fanno la politica della paura, che vanno a toccare le nostre parti più rozze, che ci vogliono far tornare nel buio della storia indietro da questi principi che leggeremo e ci fanno macché libertà, vieni da me, te la do io, macché democrazia, lo vedi la libertà è tremenda, fanno una confusione, un casino, dammi il potere a me, ci vuole un uomo forte che rimetta a posto le cose, slegatemi!!”, “ma nessuno lo può slegare, La democrazia non è la sovranità del popolo che va in piazza con al violenza, la vera democrazia sono questi principi che il popolo si è dato quando era sobrio splendido e bello, si è incoronato imperatore di se stesso e siccome anche noi siamo sovrani questi principi sono il sovrano del sovrano, il re dei re”.
Dichiarazioni chiare, coerenti e condivisibili, lezioni di vita e di democrazia di fronte al tentativo di minare le fondamenta della nostra costituzione redatta nel 1948 alla fine di un’esperienza traumatica di governo che aveva messo in ginocchio l’Italia e che aveva seminato paura e discriminazione per un ventennio: il fascismo.
Fu allora che, nello scrivere il nostro attuale sistema costituzionale, i padri fondatori, seguendo non solo la linea dei diritti e del miglior governo, ma, certamente e soprattutto, l’istinto naturale di rifuggire il fascismo appena destituito ed impedire che potesse ritornare, scrissero una costituzione repubblicana nella quale la democrazia rendeva forse difficile il governo ma garantiva libertà, pace e giustizia.
Oggi, nell’osservare il governo di turno riproporre un testo già rifiutato nei principi prima dai padri fondatori e dopo da un primo referendum costituzionale, quello che stupisce di più non è il tentativo di limitazione della democrazia, ma il fatto che chi lo promuove è al tempo stesso il capo del Governo ed il Segretario di un partito che possiede un “Manifesto dei Valori” che all’articolo 3 cita testualmente: «La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercé della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito Democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza, anche promuovendo le necessarie modifiche al procedimento di revisione costituzionale. La Costituzione può e deve essere aggiornata, nel solco dell’esperienza delle grandi democrazie europee, con riforme condivise, coerenti con i princìpi e i valori della Carta del 1948, confermati a larga maggioranza dal referendum del 2006.»
Se una persona può cambiare idea, se un politico può rinnegare le promesse fatte in campagna elettorale tradendo i suoi elettori, un manifesto dei valori alla base dell’azione di un movimento politico non può essere strumentalizzato a piacimento, esso è, e deve rimanere, un punto fisso in tutta l’azione del partito pena l’esclusione di chi non lo condivide.
In questa campagna referendaria, quindi, quello che stupisce di più non è la presenza del Governo come unico attore ad esso favorevole, ma l’ingombrante assenza del Partito Democratico che fin dal principio di essa tace, senza prendere provvedimenti, di fronte alla palese violazione dei suoi principi costituenti, tanto più se ad infrangerli è addirittura il suo segretario, custode e garante.

 

“IL MURO DELLA VERGOGNA” PORTA LA FIRMA DI BILL

Caro Bill, è uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve fare …

Quando ho scoperto la cosa non ho potuto trattenere le risa, ma un secondo dopo mi sono reso conto della tristezza che nascondeva, critichiamo un miliardario xenofobo che vuole finire un muro su di un confine senza nemmeno sapere che la prima parte era stata eretta da chi vi si oppone demagogicamente.

Già, perché il muro ai confini con il Messico non è un’opera od un’idea nuova. No, assolutamente, il muro c’è già e lo fece costruire a partire dal 1994 il presidente Bill Clinton, marito della candidata sconfitta da Trump con il quale condivide partito ed idee.

Quindi fu Clinton marito, a costruire il muro di Tijuana, lungo ben 3.140 km e chiamato dai messicani “della vergogna”, che si erge da venti anni a simbolo della xenofobia innata americana.

Già, xenofobia innata, sono esagerato?

Forse, e forse qualche statunitense D.O.C. potrebbe sentirsi offeso, ma io negli States ci sono stato almeno una volta e non capivo perché dovevo avere un visto per entrarci, nemmeno in Israele me lo avevano chiesto, e, soprattutto, perché questo visto fosse “strettamente temporaneo”.

Ancora oggi che il visto è stato “abilito”, ma nei fatti sostituito da un altro tipo di certificazione e controllo spontaneo, siamo “visitatori sotto osservazione”.

Gli statunitensi sono xenofobi contro loro stessi, perché in quella nazione non esiste uno ius sanguinis, come negli stati xenofobi europei e come in Italia dove per questo lo si vorrebbe eliminare od almeno mitigare, negli USA esiste solo uno ius soli, cioè una cittadinanza attribuita per luogo di nascita.

La naturalizzazione è, ovviamente, possibile in entrambi i regimi, ma lo ius soli statunitense ha una ragione precisa, dato che gli statunitensi di oggi non sono per nulla tutti nativi americano, ma sono una sorta di invasori, giunti per lo più dall’Europa, che hanno importato con sé schiavi e relegato i nativi in “riserve indiane”.

Quindi il diritto di essere americano deve obbligatoriamente dipendere dall’essere nato sul posto, magari usurpando il terreno al legittimo proprietario. La famosa “legge del far west”.

Così se una donna è incinta viene rifiutata alla frontiera, altrimenti il figlio diverrebbe statunitense e, cosa peggiore, potrebbe ambire a diventarne presidente!

Per questo non si può restare sul suolo americano per lungo tempo e senza un permesso ed un controllo specifico, facendo si che il popolo che insegna democrazia e civiltà a tutto il mondo sia invece nei fatti razzista ed incivile, persino con i suoi progenitori.

Ecco quindi che il tedesco/scozzese Donald Trump oggi vuole continuare il lavoro xenofobo e condannato da una discendente inglese, Hillary Clinton, moglie di William Jefferson Blythe III, poi diventato Bill Clinton all’età di quindi anni, di discendenza a sua volta inglese/scozzese.

Un bel derby europeo in casa americana su di un tema condiviso da entrambi. Bel capolavoro!

Ma questa è retorica, quello che sta dietro ad un progetto contestato e promosso allo stesso tempo, invece, è proprio la contraddizione che lo sostiene, qualcosa di simile succede in tutto io mondo, persino a Roma Virginia Raggi fu contestata per un progetto di funivia urbana presente anche nel programma del candidato del partito che lo irrideva.

Ho scritto in questo blog di analfabetismo funzionale, ma qui andiamo ampiamente oltre, a furia di celebrare i nostri successi, od i successi dei soggetti che ci interessano, non riusciamo più ad essere obiettivi, non riusciamo più a vedere oltre le cose ed a comprenderne la portata.

Gli americani di oggi sono gli europei di ieri, in tutti i sensi, ma gli europei di domani potrebbero essere quelli che oggi chiamiamo immigrati, rifugiati, etc. e che “ci rubano il lavoro”, “prendono le nostre case”, “sposano le nostre donne”, “parassiti che sanno fare solo figli”, etc, etc.

Quando la massa di “immigrati economici” europei si mosse verso il nuovo continente americano lo invase e nel prese possesso. Terra di nessuno, quindi terra mia.

Un proprietario però c’era e fu confinato dopo sanguinose guerre nelle attuali riserve.

Sarebbe facile e populista dire che noi siamo i nativi americani di ieri e che se non ci difendiamo in tempo finiremo come loro, la realtà è che il mondo è sempre stato piccolo, altrimenti gli uomini, originari del continente africano dai quali ancestralmente discendiamo tutti, non sarebbero arrivati sull’Isola di Pasqua, circondata da un immenso oceano, e nemmeno ai poli, lontanissimi ed ostili, al contrario l’uomo si è diffuso in tutto il globo, colonizzandolo e facendolo progredire fino ai giorni nostri.

Aprire le porte indiscriminatamente o chiudere i cancelli ermeticamente sono due facce della stessa medaglia, una medaglia che non può girarsi a piacimento, ma che deve fare i conti con se stessa, gestire l’emergenza è giusto, ma creare le basi perché la libera circolazione degli umani possa essere davvero una risorsa e non solo un dramma è fondamentale per poter guardare al futuro.

La punizione per non averlo fatto potrebbe essere l’autodistruzione del genere umano così come lo conosciamo.

Utopia? Forse, ma vale la pena di tentare.