GROTTE DELLA SARDEGNA, MONDI SOTTERRANEI AMATI DAGLI SPELEOLOGI DI TUTTO IL MONDO

DI VIRGINIA MURRU

 

Il fascino della Sardegna non si ferma nella linea di costa, certo piena di suggestione, ma prosegue nell’entroterra, dove le attrattive naturalistiche e paesaggistiche fanno parte dell’eclettismo di una natura ancora in parte misteriosa, nella quale, non di rado, la storia ha lasciato le sue pietre miliari.

Ce ne parla l’autore di “Fra mondi sotterranei e trekking d’avventura”, Elio Aste, che ha percorso da speleologo e trekker ogni angolo, ogni pertugio delle grotte immerse nei meandri più selvaggi ed esclusivi del centro dell’isola. Sicuramente un esperto, dato che per tutta la sua vita ha attraversato gli altopiani e ne conosce le caratteristiche naturalistiche, come pochi. Un libro che illumina a giorno gli ambienti ipogei di questi ‘santuari’ ubicati nel cuore delle montagne, interessate dal fenomeno carsico, regno del calcare, e di tanti segreti celati nei loro ambulacri.

Se l’intento dell’autore era quello di sorprendere, conducendo l’immaginario del lettore nella magnificenza di una natura integra, in gran parte selvaggia, attraverso la descrizione minuziosa e accurata di percorsi riservati a chi conosce i segreti riposti della Sardegna più esclusiva, bisogna dire che è riuscito nell’intento. E’ una semplice deduzione, non c’è smania di scivolare in retorica, questo libro non ne ha bisogno, e neppure Elio Aste, che ha all’attivo numerose pubblicazioni di carattere naturalistico-esplorativo nel territorio dell’isola, e ha riscosso il successo che davvero merita, sia in termini di competenza che di esperienza in questo ambito.

Dopo avere chiuso il libro, restano impresse le atmosfere nelle quali chi legge viene guidato, perché l’autore, oltre che speleologo, naturalista, fotografo ed esperto di archeologia, è anche uno scrittore di rara maestria ed efficacia espressiva. Lo stile della narrazione, acuto e attento al dettaglio, le descrizioni vivissime di ogni passo percorso, coinvolgono ed avvincono: nessuno può restare indifferente davanti agli spettacoli che si prospettano in questi scenari di natura così esuberanti.

Attraversando campi solcati, o percorrendo i salienti più impegnativi – anche per coloro che sono avvezzi ad avventurarsi in luoghi impervi, e a spendere le proprie energie nei sentieri più ostici ed accidentati – si può comprendere meglio il senso dell’essere e dell’esistere, si può riflettere all’immenso valore di questo patrimonio naturale, e concludere che la vita altro non è che il soffio d’ingegno di un grande Regista, che sa dell’ordine e dell’equilibrio nella Creazione.

L’uomo ha il dovere di rispettarne le leggi, non di sconvolgerle per fini che non rientrano in questo grandioso disegno, dove anche il senso di un filo d’erba va al di là di noi.

Ci parla di bellezza e di perfetto equilibrio biologico, Aste, ci sconvolge con prospettive che sospendono il respiro, ci porta dentro anfratti e grotte nelle quali il mondo con il suo caos, sembra solo un lontano ricordo, un’aberrazione.

Ci racconta egregiamente le immagini, piccoli microcosmi sospesi nella magnificenza di questo territorio barbaricino, circondato dalle propaggini calcareo- dolomitiche del Monte Corrasi. Questi sono santuari naturali in cui anche il silenzio produce la sua eco e diventa catarsi; sono spazi in cui non esiste nulla che non venga da una sapienza che sfugge allo sguardo di chi osserva con stupore.

C’è un ordine primordiale che coniuga perfettamente gli elementi, non si può scorgere una ‘nota’ stonata tra le meraviglie delle concrezioni sospese nelle sale scintillanti delle grotte: è una bellezza che frastorna, e poiché non abbiamo la fortuna di percorrere questi itinerari, e ammirare dal vivo un simile splendore, questo libro ce ne propone le emozioni, attraverso le sensazioni di chi ha già percorso, con le gambe e lo sguardo, questi orizzonti.

Ci sono immagini folgoranti, e sottolineo che non si tratta di esaltazione, chi ama la natura non può che ritrovarsi in questo transfert, immedesimarsi e sognare di stare al passo di chi racconta le straordinarie avventure in luoghi quasi ‘immuni’ dal tempo; certamente integri sul piano ambientale. Poco conosciuti perché non tutti sono disposti a marciare dalle prime ore dell’alba fino al tramonto, a dormire in ripari sotto roccia, fra silenzi interrotti da rumori furtivi nei cespugli, versi di animali notturni, campanacci lontani.

Occorre spirito di sacrificio per essere ripagati poi dalla magnificenza di visioni che penso l’autore, nonostante l’abilità espressiva evidente nell’opera, abbia faticato a descrivere, perché davanti a tanta bellezza qualcosa sfugge anche all’occhio più esperto, allo sguardo di chi per passione e amore verso la natura, è portato ad andare oltre la superficie. A trovare quindi la verità e i segreti più nascosti dei tesori che si presentano con una semplicità pura e disarmante, e proprio per questo incantevoli.

Elio Aste, dopo decenni di esplorazioni nelle aree più remote della Sardegna, tra i meandri dei Supramontes, continua a farsi sorprendere dalla natura più ‘riservata’ e splendida dei paesaggi montani, specie quelli che ruotano intorno al massiccio del Gennargentu. Accompagna il lettore passo dopo passo nelle sue straordinarie esperienze di trekker, come un inedito Caronte, che evita i gironi infernali della vita e conduce tra le sponde di autentici paradisi.

E, se nella magniloquenza di quei silenzi si sentisse il sussurro del divino Poeta, con le sue impeccabili terzine di endecassillabi:

“Ed elli a me, come persona accorta: /Qui si convien lasciare ogne sospetto;/ ogne viltà convien che qui sia morta..”,

bisognerebbe allora convincersi che qui si parla di luoghi in cui la vita diventa leggera, evanescente, senza le contaminazioni della fallacia umana; non una voce che arriva dai luoghi della pena. Perché in questi versanti, tra il Supramonte di Oliena e Dorgali, Orgosolo e Urzulei, si avverte un senso di pace assoluta, non vi sono violazioni che provengono dal mondo asservito al progresso.

L’acqua è sempre limpida nelle sorgenti de “Su Cologone”, e purissima è quella dei laghetti e corsi sotterranei delle grotte, le cui immagini, riportate in questa bellissima opera, sono il riflesso fedele delle visioni di quel mondo sommerso; quasi inverosimili nella loro integra bellezza. L’opera è stata suddivisa in itinerari, studiati per raggiungere gli obiettivi più interessanti sul piano naturalistico e paesaggistico, nonché archeologico, storico, speleologico, botanico..

Gli itinerari, nel sommario, sono evidenziati con colori diversi, come già fa notare la Casa Editrice ‘Italian Edition’: il verde per indicare che in quel percorso si possono trovare luoghi di ristoro; in blù gli itinerari in cui si trovano sorgenti sicure per dissetarsi; in rosso quelle in cui è possibile pernottare; infine sono segnati in giallo i siti consigliati solo a persone particolarmente esperte, in grado di utilizzare l’idonea attrezzatura per spostarsi con agilità, impossibili da percorrere senza, dunque riservati a speleologi in particolare.

Suggestivi e affascinanti gli itinerari che descrivono i collegamenti sotterranei delle grotte “Sa Oche” e “Su Bentu”, comunicanti tramite un grande sifone, situate sul fondo della vallata di Lanaittu. Le due grotte, che presentano scenari maestosi, ambienti attraversati da soffi di vento – da qui il nome ‘Su Bentu’ – che turbinano all’interno di quegli spazi ipogei (soprattutto dopo lunghe tempeste, in seguito alle quali l’aria viene spinta all’interno e produce boati), segnati dal fenomeno carsico. Il carsismo è la nota dominante della roccia calcarea, è il processo chimico esercitato dalle acque meteoriche che sono filtrate nel corso dei millenni nelle fessure del calcare, e hanno creato il mondo meraviglioso, a volte sconvolgente delle grotte.

Dopo lunghi temporali, seguiti da ondate di piena, l’acqua scorre alla base di questo complesso montuoso, portando in superficie un corso d’acqua impetuoso che emerge all’esterno con tutta la sua forza.

Spiega l’autore a proposito delle origini della grotta ‘Su Bentu’: “la grotta Su Bèntu è impostata prevalentemente su immani fenditure, che s’estendono nel sottosuolo per decine di chilometri e che assolvono a funzioni di drenaggio e di veicolazione delle acque, provenienti dal sovrastante Monte Corràsi e, in parte, anche dai Supramonti di Orgosolo e di Urzulei”.

Le due grotte (Sa Oche e Su Bentu) sono spesso meta di esplorazioni da parte di speleologi provenienti da ogni parte del mondo, per via dell’assetto interno particolare, e soprattutto perché in qualche modo sono ‘gemelle’, in quanto legate tra loro da un tracciato sommerso invaso dall’acqua. Le sale di entrambe le grotte, erano frequentate, secondo vari ritrovamenti di reperti (tra i quali ossa umane, scheletri, avanzi di pasti), fin da epoche remote. La passione verso questi mondi nascosti e talvolta ostili, ha causato qualche vittima tra gli speleologi, dei quali uno straniero, giovanissimo.

Di notevole interesse la descrizione della grotta ‘Crobeddu’, che ne mette in rilievo il valore scientifico, ma anche storico e culturale, dovuto alle ‘frequentazioni’ di questo straordinario ambiente ipogeo, eletto a dimora nel XIX secolo dall’omonimo bandito, che ha dato il nome alla grotta. Qui si sono commessi anche delitti, con sommari processi ‘per direttissima’ da parte del bandito, il quale era spietato verso chi lo tradiva.

Ma queste cavità naturali erano quasi certamente considerate anche luoghi sacri per le popolazioni di epoca pre-nuragica e nuragica, siti idonei al culto delle acque, che si svolgeva secondo rituali legati al fervore verso le divinità. La valle del Lanaittu in epoca nuragica doveva essere un territorio piuttosto antropizzato, anche perché l’approvvigionamento idrico era assicurato da numerosi corsi d’acqua e sorgenti.

“Mondi sotterranei e trekking d’avventura” è un libro da leggere, i temi trattati suscitano un grande interesse, si è attratti da questi luoghi circondati dal mistero.

Purtroppo, la conoscenza sui ritmi di vita delle popolazioni che vi abitarono in epoca remota è limitata, forse per questo calamitano l’attenzione, affascinano. Anche le legioni romane, comunque vi transitarono, col fine di indurre alla resa i sardi più riottosi, irriducibili, che non ne volevano sapere di essere colonizzati: per questo i territori barbaricini si erano meritati l’appellativo “Barbaria”, toponimo che come un timbro a cartiglio si portano ancora dietro (da qui deriva appunto ‘Barbagia).

L’ultimo capitolo è riservato ai versi dell’autore, il quale ha scritto componimenti poetici molto suggestivi, la cui forza espressiva deriva dal continuo contatto con la natura e gli ambienti montani che ha esplorato, amato e rispettato. Versi che sono in simbiosi dunque con il racconto dettagliato degli itinerari percorsi, ne riflettono le sensazioni, i colori, l’aria respirata nelle altitudini più esclusive e selvagge delle montagne sarde; in quest’opera protagonista è il Monte Corrasi che sovrasta il centro abitato di Oliena, comune ubicato a poca distanza da Nuoro.

Elio Aste ha collaborato con report di carattere naturalistico e speleologico, tra gli anni ’70 e ’90, con i due maggiori quotidiani sardi, ‘La Nuova Sardegna e l’’Unione Sarda’. Diverse sono le opere pubblicate, tra cui “Sardegna nascosta”, “Sardegna selvaggia”, “Tiscali” (tanto per citare le pù conosciute). Le prime due a tiratura limitata, tanto che è quasi impossibile trovarli in libreria. L’autore ha una straordinaria conoscenza in ambito naturalistico e ambientale, per questo le sue pubblicazioni hanno il valore di manuali, proprio perché i suoi interessi e le descrizioni spaziano su ogni fronte della scienza.

 

 

 

 

 

 

 

 

LA VITA E’ MIA

 

DI VIRGINIA MURRU

 

lascia in pace il mio tempo
maturo da sempre
davanti al sole

Strappa i chiodi
da tutte le mie strade
vorrei parole libere
niente più maschere
nel corso del mio andare.

Sono intossicata di parole
basta folli congiunture
non serve mai tacere –
sono azzime le ore
e astinenze di vita
hanno scavato miniere sull’errore.

Io ringhio alla menzogna
e non son cane
toglimi l’osso e spezza la catena..

V.M. 2002

ROMA: UNA CIVILTA’ CHE SCAVALCA I MILLENNI E NON PERMETTE OBLIO

DI VIRGINIA MURRU

 

Il ritrovamento a Como delle 300 monete d’oro d’epoca romana, non contribuiranno a ridurre il debito pubblico italiano, ma certamente arricchiranno i musei; simili scoperte non possono che avere un’importanza storica rilevante.

Le monete sono state rinvenute, come si sa, in un sito del centro storico della città, (Via Diaz), cantiere Cressoni, durante i lavori di sbancamento del cinema-teatro, che dovrebbe lasciare posto ad un nuovo edificio.

Sono stati gli operai del cantiere a ritrovare, ad appena un metro di profondità, il contenitore di particolare fattura, realizzato con pietra ollare; ha una certa similitudine con le urne nelle quali solitamente si custodivano i tesori. E di tesoro si tratta, non vi sono dubbi su questo, l’oro utilizzato dai romani ha un alto grado di purezza, è evidente dal colore delle monete, ritrovate impilate una sull’altra, sembra che abbiano appena lasciato la zecca, tanto sono lucenti.

Il ritrovamento ha un notevole valore storico, dato che, nei lavori di scavo susseguitisi nel corso dei secoli, non sono state rinvenute grandi quantità di “sesterzi aurei” coniati dai romani.
Dichiara il ministro dei Beni Culturali, Alberto Bonisoli:

“Gli archeologi stanno valutando la portata storica e culturale della scoperta, e la direzione scientifica che sovraintende agli scavi, ha subito trasferito le monete in una sede di restauro del Mibac a Milano, dove l’urna che le conteneva è già oggetto di studio e di analisi.”

E’ stata subito informata la Sovrintendenza Archeologica, e sul sito del ritrovamento ora proseguono gli scavi, si pensa che le monete e i monili siano solo un indizio per altri importanti reperti.

Intanto gli esperti hanno stabilito che il ritrovamento potrebbe collocarsi in epoca bizantina, o risalire ad uno/due secoli prima di Cristo, questo sarebbe il quadro temporale più attendibile. Gli oggetti preziosi ritrovati insieme alle monete si suppongono legati alla fondazione e origine stessa della città di Como, ma gli orientamenti temporali non sono ancora certi: potrebbe anche trattarsi di un periodo precedente, quando il territorio era abitato da tribù di Celti e Galli.

Si va dai due secoli A.C. al IV secolo D.C., più avanti gli studi sui reperti esprimeranno una datazione più attendibile.
La Civiltà romana e i suoi tesori, ogni tanto tornano in superficie in seguito a scoperte casuali, e altre portate avanti con mesi e a volte anni di scavi da parte di squadre di archeologi.

Casuale fu anche il ritrovamento di Orselina, nel Canton Ticino, quattro anni fa: com’è noto, in un terreno privato nel quale si eseguivano lavori di scavo per ragioni ben lontane dall’eccezionale scoperta, furono rinvenute in un contenitore di ceramica, migliaia di monete in bronzo d’epoca imperiale, risalenti ai primi secoli d.C.

E’ verosimile che questi tesori venuti alla luce dopo alcuni millenni, e conservatisi perfettamente integri, dentro anfore di materiale diverso, siano stati nascosti per essere protetti da eventuali insidie provenienti da nemici esterni al territorio, non ultimi le orde di barbari che giungevano continuamente dal Nord.
La presenza dei Romani a Como e dintorni, è un dato certo, gli studi sulle monete e l’anfora che li contiene, saranno utili per una conoscenza più profonda della presenza romana nella città, e magari per rivelare ulteriori dettagli sui traffici commerciali che il lago permetteva.

Di certo si può dire che si tratta della scoperta più sensazionale avvenuta nell’ultimo decennio, per il prezioso valore storico e numismatico degli oggetti rinvenuti, non solo in Italia ma nell’intera Europa.

PICCOLA VITA IGNARA..

DI VIRGINIA MURRU

 

Ero una piccola vita
con l’anima intrecciata a fili di paglia
cresciuta dentro un nido sopra i rovi
come una parola tesa verso l’alto
che non aspetta l’eco del ritorno.

E raccoglievo bacche nelle siepi
salivo a piedi nudi sulle piante
credendo fosse il vertice del mondo.

Era semplicemente vita
quella che non domanda da chi viene
offre sorrisi anche alle tempeste
non cerca strade larghe al suo andare
cammina con i chiodi sotto i piedi.

Quella era vita immune da pensiero
con vuoti di tempo da riempire a caso
nemmeno si facevan congetture
sulle ragioni del Cielo quando piove.

Mentre lente avanzavano le sere
senza spiegarmi nulla, senza amore,
ombre armate di male, di silenzio
avevano già scritto il mio destino

contavano le lacrime sul volto
fino a riempire il mare ed anche oltre.

LEONE JACOVACCI. LA PAGINA PIU’ NERA DELLO SPORT ITALIANO

DI VIRGINIA MURRU
La storia di questo eccezionale boxeur è una vergogna tutta italiana. Grande pugile, campione dei pesi medi e medio-massimo, nato nei primi anni del novecento, le vicende che riguardano Jacovacci hanno rimandi leggendari, nonostante l’epoca in cui è vissuto, e la struttura di una società asservita ad un regime autoritario, quale il Fascismo poteva essere tra gli anni ’20 e ‘40.
Dopo un secolo, l’Italia, che prima ha fatto di tutto per ignorare il suo talento, lo ha dimenticato. E’ solo grazie a Mauro Valeri che le reali vicissitudini di questo campione italiano sono state portate all’attenzione della gente, e riscritte secondo criteri di obiettività. Valeri ha infatti pubblicato un libro di circa 500 pagine, “Nero di Roma”, edito da Paombi, nel quale ha ripercorso tutte le tappe e i traguardi dell’esistenza di questo straordinario sportivo italo-congolese. Ne è scaturito una sorta di ‘processo’ storico, civile e sociale, per dire pane al pane, e rivedere la Storia con una lente più chiara. Quella che si conosceva, anche attraverso il filmato dell’ incontro di boxe decisivo per il titolo italiano ed europeo, era una verità ‘manomessa’, scassinata e manipolata; un po’ bastarda.
Un documentarista, Tony Saccucci, partendo da ‘Nero di Roma’, e in collaborazione con l’Istituto Luce, ha poi portato lo scandaglio fin dentro i fondali di questa vicenda, denunciando gli abusi del regime, i cui tecnici, all’epoca, spezzarono la parte finale del video dell’incontro, proprio quando il giudice alza in alto il braccio del vincitore: ossia quello di Jacovacci..
Non si doveva sapere troppo in giro che uno sportivo di colore era il vero campione: era italiano ‘solo’ a metà.. Insomma, un abominio del più perverso razzismo. Il film-documentario è uscito nelle sale solo di recente.
Leone Jacobacci era un meticcio venuto al mondo esattamente nel 1902, in un paese africano, il Congo indipendente – anche se era in realtà un feudo del Belgio – da padre italiano e madre congolese, una principessa del posto, figlia del Capo Tribù.
Il padre, Umberto Jacobacci, persona istruita (era agronomo-ingegnere), riteneva che egli dovesse crescere a Roma, dove egli stesso aveva vissuto, così lo condusse proprio qui, affidandolo alla guida dei genitori, i quali faranno del loro meglio per impartirgli una buona educazione, ed un’adeguata istruzione.
Compito tutt’altro che facile, la società romana dei primi decenni del novecento non era quella imperiale, dove nelle strade era possibile trovare non solo barbari, ma persone che provenivano da tutti i paesi del Mediterraneo. Un meticcio, pertanto, soprattutto se facente parte della borghesia, poteva facilmente diventare oggetto di discriminazione. E per questa ragione la famiglia di Leone finì per trasferirsi nelle campagne del Viterbese. Senza saperlo, il bambino viveva già la sua prima esperienza di rifiuto ed emarginazione.
Nella personalità di Leone, fin da bambino, c’era però un forte istinto di libertà, e la tendenza a svincolarsi dalle regole che gli risultavano oppressive, per questo fuggì in diverse occasioni dagli istituti in cui era stato condotto per ragioni di studio. La severità, il clima di chiusura e forse di solitudine e squallore sul piano affettivo, non si confacevano al carattere irrequieto ed esuberante, non propriamente alieno alla disciplina, ma certamente insofferente alle regole dei collegi romani.
Dallo sguardo diretto e intenso, era possibile intuire che non avesse temperamento remissivo, rispettava chi gli stava intorno, ma aveva necessità di respirare liberamente senza eccessive imposizioni.
Come se il richiamo latente dell’Africa, fosse un’ombra discreta che lo accompagnasse e ne guidasse i gesti; non intendeva reprimere il senso di quell’appartenenza lontana. Così, quell’identità divisa a metà, tra Italia e Congo, sembrava in perenne conflitto dentro di lui.
Il padre di Leone rientrò a Roma nel 1916, e il bambino, per un breve periodo sembrò più sereno, ma l’istinto di allontanarsi per rincorrere un vago sogno d’indipendenza era insopprimibile: è attratto dal mare, e dentro l’animo misterioso del ragazzino, forse inconsciamente, si aprono i vasti orizzonti di libertà delle foreste africane.
Comunque cerca evasione, e sarà proprio il mare, voce ineludibile che chiama con prepotenza, a spingerlo a raggiungere Napoli, e qui a imbarcarsi in un mercantile inglese, con la ‘qualifica’ di mozzo. Non se ne cura, l’importante è andare, ogni maschera poi è valida, pur di lasciare il confine di una patria che gli ha mostrato il volto peggiore, quello dell’indifferenza, anzi peggio: dell’ostilità appena mitigata da un velo di tolleranza. Quello è il vero confine che deve abbandonare, l’Italia non è stata un nido accogliente, una patria della quale essere fieri. Nelle strade, nelle relazioni umane, la serpe del rifiuto strisciava silente, e Leone, sia pure adolescente, avvertiva l’acre sapore di quel veleno. Lontano dunque, fuori da quello squallore falsato da perbenismo.
Era stata probabilmente per una questione di rivalsa, che nel corso della prima guerra mondiale, Leone si era arruolato con l’esercito britannico; del resto si era lasciato alle spalle gli anni vissuti a Roma e dintorni, e aveva perfino cambiato identità: via anche il nome italiano. Da allora il rapporto con l’Italia sarà di odio-amore, diventerà il soldato Walker.
Eppure scorre dietro di lui un sottile soffio del destino, questa volta la boxe fungerà da trait d’union per un ritorno in Italia, anche se non immediato.
La sua seconda patria, forse sempre inconsciamente, lo richiama a sé, e Leone, che non poteva sopprimere quel vincolo di sangue, cercherà, nel volgere di pochi anni, di rifare un nodo stretto a quel legame: invano..
Finita, dopo la guerra, l’esperienza nell’esercito, si ritroverà a Londra nei pressi del Tamigi, quando verrà notato da un allenatore di boxe, che ha necessità di un pugile di colore per sostituire quello che ha disertato l’appuntamento col ring. Lo aspettava una sfida con un campione britannico, e Leone, che aveva solo un fisico asciutto e prestante, naturalmente dotato di ottimi muscoli, rischia e accetta l’improvvido incontro.
Pur essendo a digiuno di pugilato, con un allenamento approssimato, vinse l’incontro: ed eccolo il destino, a contare i suoi passi, a dirigerlo verso la gloria delle sfide combattute e vinte con orgoglio, ma anche sofferte, a causa di quel vecchio continente che non gli perdona di avere una madre africana.
Lascia Londra proprio per questo, perché ai pugili di colore non è consentito aspirare ai titoli più ambiti.
Delusione repressa, e altra migrazione, questa volta in Francia, che al contrario dell’Inghilterra sembra un porto franco. I pugili africani sono infatti apprezzati per l’impeto e la grinta che esprimono sul ring. Non importa se deve cambiare nome, diventando Jack (tiene il cognome Walker, però), l’importante è vivere alla pari, stringere mani meno ipocrite, confrontarsi con una dignità senza riserve di razza. Era quello che cercava, la dignità ti fa sentire in patria ovunque, senza compromessi vili, senza piegarti in obbedienza alla presunzione della superiorità.
Si sentiva a casa, Leone a Parigi, stimato e apprezzato per le sue indiscutibili doti professionistiche nella boxe, riesce così con forza ad affermarsi, ad andare oltre il filo spinato dell’intolleranza, a stabilire amicizie e relazioni durature. Aveva però dichiarato d’essere un afro-americano, e non riuscirà a provarlo, perché gli mancano i documenti. Risolse così di rientrare in Italia, sotto mentite spoglie, ma non per molto: decise infatti che di maschere ne aveva abbastanza. Confessa di essere italiano: “mi chiamo Leone Jacovacci..” E sulle prime i connazionali sono entusiasti di lui, perché sembra figlio di un cielo amico, che lo ha messo al mondo per vincere, già in retrovia. Leone è in effetti ben temprato, fin da piccolo, per essere un combattente, anche nelle strade storte e dissestate della vita. Non conosce arrese, neppure verso il subdolo nemico che lo lusinga, facendogli però sentire fin nelle ossa il “peccato” dell’origine.
Era leone di nome e di fatto. Si batteva davvero come un leone nell’arena, e non graziava nessuno, ben raramente subì disfatte sul ring, la vittoria, il senso di supremazia sull’avversario, sembravano scritte sui muscoli delle sue braccia, negli occhi pieni di sfida e smania di riscatto. Liquidava uno per uno i campioni europei dei pesi medi e medio-massimo. Sembrava invincibile come Sansone.
I titoli conquistati tuttavia non gli erano riconosciuti dalla Federazione italiana della Boxe. Con una serie di pseudo ragioni che partivano dal colore ambrato della sua pelle, e finivano nel delirio della razza ariana -della quale, per esigenze di regime, la stirpe italica faceva parte – lo si teneva ai margini, nonostante le eccezionali doti che aveva manifestato.
Milano contendeva a Roma il ring degli incontri più rilevanti in ambito europeo, e vantava campioni di primo livello; Leone era il ‘nero di Roma’, e la città pertanto lo considerava il proprio campione. Milano gli opponeva Mario Bosisio, campione italiano in carica.
Si organizzò un incontro ‘valido’ per il titolo italiano a Milano, durante il quale Leone prevalse su Bosisio, ma la vittoria, dai tre giudici milanesi, fu assegnata proprio a quest’ultimo. Era già scritto. Per fare tacere il coro di voci nella capitale, che parlava di sopraffazione e ingiustizia, il partito Fascista organizzò un’altra sfida a Roma. Il titolo italiano, e anche quello europeo, potevano ancora essere contesi (detentore dei due titoli al momento era Bosisio) dai due sfidanti che si erano affrontati a Milano qualche mese prima.
Leone ebbe il sopravvento, davanti a 40 mila spettatori, non c’erano dubbi sulla superiorità e la classe che lo aveva sempre contraddistinto. Diventa il 4° Campione Europeo (in Italia), ed è un italiano a tutti gli effetti a vincerlo, anche se per il diritto di cittadinanza dovrà lottare con tutte le sue forze, lui è un indomito lottatore. Finalmente, dopo 4 anni di dure battaglie, mentre i funzionari pubblici esercitavano il più bieco ostracismo, riuscì a farsi riconoscere cittadino italiano.
Sa che la sua lotta per la dignità non è mai finita, la sua Italia è stata intaccata, ‘punta’ dall’aspide: il razzismo. Bisogna prenderne atto e difendersi, ma come?
Come? E’ un campione, non c’è sfida che vada oltre i suoi limiti, lo sport, la boxe, sono il suo riscatto e il legittimo lasciapassare, prima o poi la sua patria razzista se ne farà una ragione. Era la giusta equidistanza tra orgoglio e giustizia.
Ma tant’è: il contorto animo umano non conosce limiti quando si prefigge di annientare il proprio simile.
I titoli legittimamente conquistati non gli furono mai riconosciuti, il filmato dell’incontro con Mario Bosisio, fu letteralmente manipolato, per evitare che la gente gli riconoscesse i meriti conquistati. La stessa Gazzetta dello Sport, il giorno che seguì all’incontro con Bosisio, dopo la clamorosa vittoria di Leone, titolò: “Non può essere un nero a rappresentare l’Italia all’estero” – ossia la gola profonda del Fascio aveva parlato.
Ecco la vergogna del sopruso, dell’imbroglio, la tendenza del regime a cambiare la carte in tavola.
Non è mia intenzione addentrarmi in considerazioni di carattere antropologico, e tanto meno fare dissertazioni sulle cause delle leggi razziali. Forse la responsabilità non è però riconducibile solo al regime, vi sono ragioni di fondo, di indole del popolo italiano, che il razzismo lo ha sempre avuto in stato di latenza dentro l’anima. La civilissima Cultura Latina non è stata un esempio in questo senso, dato che definiva “barbare” le popolazioni del Nord Europa, ritenute inferiori, rozze, e non al passo delle loro conquiste. Nemmeno i sardi sono stati risparmiati dai  Romani dell’epoca, chiamarono “Barbaria” (da qui il toponimo Barbagia) le regioni dell’interno dell’isola, solo perché occorsero anni per avere ragione del loro istinto ribelle e autonomo, e lottarono strenuamente per ostacolarne la conquista.
Dopo le delusioni in Italia, ancora una volta Leone decide di andarsene, troppi dolori e umiliazioni, non si poteva tollerare. Torna in Francia, poi sopraggiungono gli eventi dell’occupazione nazista, si arruola  di nuovo nell’esercito inglese, e combatte con questa divisa anche in Italia. Poteva forse arruolarsi come camerata nei battaglioni del Fascio?
Fascista, nonostante quello che si è scritto al riguardo, non lo era mai stato. Frattanto, aveva trovato il tempo di formare una famiglia, e, tanto per cambiare, anche questa era clandestina: la moglie era di origini ebree. Da una fuga rocambolesca all’altra, la sua vita. Dopo la guerra diventa portiere di un palazzo a Milano, in via Ghibellina. L’Italia lo ringraziò così, non un riconoscimento per i momenti importanti di gloria che aveva saputo dare allo sport italiano. Fu scaraventato nella deriva dell’oblio.
Le strade, le piazze della Vita, sono  luoghi in cui gli esseri umani si misurano senza ricorrere ai piedistalli di razza, o presunte superiorità. Sono i luoghi in cui alla dignità si dà del tu.
Sono – dovrebbero essere – luoghi dell’Umanità in cui i valori autentici dialogano e s’incontrano, qualunque sia il colore che i geni hanno deciso di dare alla pelle di un uomo.
E non si argomenta intorno ad un passato poi così remoto, l’inquisizione sulla razza è andata ben oltre, lo sappiamo bene, ce la portiamo ancora sotto i piedi, a volte velata di false concezioni.
Il razzismo è stato ovunque anche dopo la seconda guerra mondiale, ne sanno qualcosa gli afro-americani, e non solo. Il dopo guerra non è stato lo spartiacque che si sperava per l’Occidente, che aveva subito una dura lezione dietro il filo spinato dei lager.
Eppure l’Umanità non ha imparato nulla dal terribile squallore in cui ha scaraventato i diritti umani, nulla da quell’abominio. I lager, con i loro rituali infernali e altari capovolti, erano i luoghi del delirio in cui in realtà si immolava e processava il valore più assoluto dell’essere umano: la dignità.

EZIOPATOGENESI DI UN PIRLA

DI PIERLUIGI PENNATI

Pirla: sostantivo maschile in uso nelle regioni settentrionali italiane il cui significato popolare generale attribuito è di “pene” o per estensione figurativa di “persona stupida, facilmente imbrogliabile”.

Sono di Milano, intendo dire anche di famiglia di origine milanese, e ne ho sentite di tutti i colori circa il significato della parola pirla, il 13 novembre 2002, sul giornale La Repubblica, ne veniva persino pubblicata una dotta spiegazione in occasione della querela ricevuta da Franca Rame per aver dato del “pirla”, ed anche ironicamente del “genio”, all’allora ministro della Giustizia ed esponente della Lega Roberto Castelli.

“Quel pirla del ministro Castelli si spaventa delle manifestazioni davanti alle carceri. Dovrebbe informarsi: le manifestazioni in appoggio allo sciopero della fame dei detenuti avvengono da decenni. Si informi… Le condizioni delle carceri sono tragiche e non sono affatto quelle descritte dal genio di Castelli…”, la frase incriminata.

Ma si può querelare qualcuno per una parola di cui non è chiaro il significato?

Forse, dato che il ministro, bergamasco della Lega Nord, e Franca Rame, milanese, parlano un dialetto affine e quindi dovrebbero comprendersi bene l’un l’altro, ma la giustizia italiana?

100mila euro chiesti alla querelata in sede da avvocati che, secondo quanto riportato dalla giornalista Natalia Aspesi che scrisse l’articolo, “deliziano il tribunale con una colta esegesi della parola pirla, per dimostrare quanto il loro assistito non la meriti. Prima di tutto, è offensivo che verso un ministro sia pure padano e leghista (però di Cisano Bergamasco, non milanese) sia stata usata una parola la cui origine appartiene al dialetto meneghino, “linguaggio storicamente utilizzato dalla popolazione meno colta dell’area milanese, in contrapposizione alla lingua dotta parlata dalla nobiltà e dal clero”. E forse da Castelli. Inoltre, pirla deve essere fatto risalire al latino pilus “che letteralmente significa pestello ma che veniva regolarmente adottato per indicare il membro maschile”. E dare del membro maschile a qualcuno “assume abitualmente il significato di attribuzione di scarsissime qualità intellettuali, accompagnate dall’assenza di presenza di spirito e di avvedutezza”.

Addirittura i capaci avvocati comparano un termine dialettale siciliano “minchione, che sarebbe certamente stato più offensivo, se la Rame l’avesse usato per un padano. Ma sia pirla che minchione “complice anche la maggior facilità di spostamento della popolazione sul territorio, hanno ormai travalicato i confini regionali…“.

Insomma un caso complicato dalla perfetta conoscenza della lingua, che altrimenti l’avrebbe reso semplice, vediamo perché.

Per spiegare cosa significa pirla si deve comprendere il dialetto milanese, pirla è la terza persona singolare del verbo “pirlare”, che a propria volta deriva da una cosa davvero semplice, una antica trottola di legno dalla forma di goccia rovesciata attorno alla quale si avvolgeva una corda per poterla lanciare.

Il gioco consisteva nel farla andare in alcuni posti predefiniti, tra alcuni paletti, contro un punto preciso di un muro o persino farla andare il più lontano possibile alimentando la roteazione con una frusta o la stessa corda utilizzata per il lancio, una cosa da abili giocatori, quindi, ma certamente non piacevole od edificante per la pirla (femminile come trottola) che veniva lanciata in una direzione e per effetto della sua rotazione e delle asperità incontrate, invece, era incontrollabile e … stupida.

Era però la rotazione a farla da padrone, quindi se la pirla si muove e “pirla” a sua volta, pirlare assunse il significato principale di girare: per posizionare una lampadina si deve pirlare nella sua sede, e le estensioni di girare a vuoto od in modo inconcludente.

Ma non è sempre stato un termine negativo, un milanese del passato non vedeva nulla di male nel far pirlare la propria dama danzando in balera, anche se lo stupido che gira senza una meta sicura o dice cose senza capo ne coda è forse il significato che nel tempo è stato più usato.

Sei proprio un pirla!

Significa sia che hai frainteso qualcosa o che sei davvero divertente nelle tue battute.

Ed il pene?

Qui la vicenda si complica e si perde nella fantasia popolare, dato che pirla ha dei sinonimi dialettali, ovvero parole che sono spesso usate con significati simili, tra queste spicca certamente il meno comune “pistola”, colui che le spara grosse, che a Firenze è detto il Bomba (e qui tutti ne conosciamo uno famoso), o anche “pestola” che come per la pistola ha una parte allungata che può essere vista come simbolo fallico.

Parole così usate che diventavano persino soprannomi di persone, in passato quasi una regola per tutti, e che non erano ritenuti così offensivi o vergognosi tanto da apparire persino in alcuni annunci e persino necrologi dove dopo il nome veniva apposto “detto il pestola”.

Anche il sinonimo lombardo, varesino, comasco e persino sconfinante nel piacentino, di “bìgul” o il bergamasco e bresciano “bìgol”, o persino il termine più generale “ciùla”, che nella forma verbale ciulare” assume il significato di avere un rapporto sessuale, sono incriminabili, dato che al pari di pirla assumono significati di stupido o membro maschile.

Il perchè di questa associazione più estesa è generale ed allargato a tutta la nazione, anche in altri luoghi si associa il pene al termine sciocco o stupido, non saprei definire chiaramente il perché, ma forse per la tendenza maschile a seguire le indicazioni provenienti dagli stimoli sessuali senza ragionare troppo, infatti non è infrequente sentire in un qualche dialetto, che qualcuno ragiona “con il pene” o, se particolarmente ottuso, persino “con il deretano”.

Così dal veneto e friulano “móna” (che però è l’organo genitale femminile), il siciliano “minchiuni”, al piemontese “picio”, all’italiano “coglione”, il ligure “belìn”, e chi più ne ha più ne metta, tutti i termini dialettali associati al pene assumo anche il significato di stupido, siano essi usati simpaticamente o meno.

Ma non è tutto, il termine “pirlare” si è trasferito nell’uso corrente italiano quando ci troviamo in cucina, “pirlare un impasto”, cioé arrotondarlo facendolo girare tra le mani o sul piano di lavoro per dargli una forma sferica regolare, è ormai diventato di uso comune e può essere facilmente reperito in rete, anche in questo caso, come nell’originale derivato da trottola, si fa girare, ovvero pirlare, qualcosa, ovvero l’impasto da cucinare.

Inoltre il termine pirla è stato così utilizzato un po’ in tutti i modi ed i significati limitrofi che persino il poeta Eugenio Montale gli ha dedicato una poesia dal titolo “Il pirla”, un cantante italiano chiamato Charlie ottenne un buon successo nel 1988 con la canzone intitolata “Faccia da pirla”, ed il gruppo musicale degli Articolo 31, costituito in periferia di Milano, ha pubblicato nel 2003 la canzone “I consigli di un pirla”.

Tornando per un istante alla vicenda di Franca Rame, che fu poi condannata in primo grado a pagare un risarcimento di 3 mila euro, ed alla legge in generale, va però detto che la giurisprudenza italiana, indipendentemente dalle origini del termine, è oggi concorde nel condannare l’uso della parola pirla, la Corte di Cassazione, con la sentenza 4036 del 2006, lo ha stabilito chiaramente ed inequivocabilmente, quindi attenzione al suo uso, va fatto solo con persone con cui si ha stima e confidenza in modo simpatico, dare del pirla a qualcuno può oggi costare caro.

Concludo con l’osservazione che Pirla è anche una delle 26 frazioni del Comune di Monteggio, nella Canton Ticino della vicina Svizzera, anche se in questo caso le notizie storiche ci dicono con certezza che deriva dal latino pirula, “piccola pietra”.

Insomma, abbiamo capito come un termine semplice, di uso comune ed usato al principio prevalentemente da bambini e ragazzi ha assunto nel tempo un significato molto differente, ai milanesi, però, piace continuare ad usarlo in modo simpatico, dare del pirla in questo contesto non offende nessuno e spesso fa ridere, “sei proprio un pirla se ti offendi per questo” 😉

TRIBUNALE DI FIRENZE: L’IMMAGINE DEL DAVID DI MICHELANGELO NON E’ COMMERCIABILE

DI VIRGINIA MURRU

 

Solo con un’ordinanza si poteva mettere fine al ‘bagarinaggio’, ossia alla vendita di biglietti a prezzo maggiorato (esattamente il doppio di quelli venduti dai canali ufficiali del Mibact) da parte di una società privata, la Visit Today, che agiva dunque fuori dai circuiti della Galleria dell’Accademia. Il divieto di usare l’immagine del David è rivolto non solo al territorio italiano, ma anche a quello europeo. Niente immagine sui biglietti, su volantini o materiale pubblicitario.

E’ stata l’Avvocatura dello Stato a presentare regolare istanza al tribunale di Firenze, il quale l’ha accolta emanando poi l’ordinanza che vieta lo sfruttamento dell’immagine del David in qualsiasi modo, soprattutto per fini di carattere commerciale. Il rigore di questo veto avrà sicuramente impressionato tutti coloro che, proprio per fini commerciali, utilizzano l’immagine del mito scolpito superbamente da Michelangelo, e si pensa dunque a chi vive della vendita di souvenir.

Per la direttrice dell’Accademia di Firenze, Cecilie Hollberg, è una decisione importante da parte della magistratura, finalmente si porrà fine al traffico illecito di biglietti fin troppo maggiorati, e si auspica che altri musei ne seguano l’esempio. Si tratta, secondo la Hollberg, di una misura importante. Della stessa opinione il sindaco di Firenze, Dario Nardella.

DOMANI INAUGURAZIONE DEL LOUVRE DI ABU DHABI, PRESENTE EMMANUEL MACRON

DI VIRGINIA MURRU
 Immaginare un altro Louvre non è semplicissimo, anche per chi sa viaggiare con il pensiero ad alta velocità, ma constatare che un museo ‘gemello’ della grande parata parigina, è sorto ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi, lascia veramente poco spazio alle parole, figuriamoci alla retorica.
E’ stato realizzato davvero, però, se ne parla ormai da anni. L’enorme edificio si apre a perdita d’occhio sull’isola di Saadyat, già definita l’isola della Cultura, poiché si ergono altre strutture espositive, edifici dedicati esclusivamente all’Arte e alla Cultura.
Il “Louvre di Abu Dhabi”, prima di essere progettato e realizzato, ha percorso vie diplomatiche e politiche, che hanno portato, nel 2007, alla firma di un accordo tra Francia ed Emirati. L’accordo avrà la durata di 30 anni, e non è a titolo di concessione, vale un miliardo di euro. Vi sono poi clausole vincolanti per gli Emirati: la Francia ha chiesto che siano le autorità museali francesi a gestire il nuovo museo, a controllare le competenze del personale che sarà impiegato, l’assistenza e soprattutto le opere in prestito provenienti da 13 strutture espositive francesi.
Sono state già spedite, alla volta della nuova ‘succursale’ del Louvre, 300 opere (in prestito), mentre circa 600 faranno parte della collezione permanente. Intanto alcune centinaia sono già pronte per l’inaugurazione ufficiale, che si terrà l’11 novembre prossimo, ma sono previsti eventi già a partire dall’8, ossia domani, con presenze di primo piano del panorama politico dei due paesi.
Ci sarà il presidente Emmanuel Macron, in rappresentanza della Francia, e Mohammed Ben Zayed, principe ereditario degli Emirati e ministro della Difesa. Gli eventi di carattere artistico, musicale e culturale andranno avanti fino al 14 novembre.
Il Louvre di Abu Dhabi sorprende per la struttura imponente, spettacolare, e viene dall’estro di un architetto francese, Jean Nouvel, che ha inteso coniugare Arte con Arte, anche attraverso la bellezza esterna del faraonico edificio, la cui cupola ha una dimensione di 180 metri, e dall’alto si presenta come un’isola fluttuante, che emana luce propria e diventa un richiamo irresistibile.
Non un miraggio, ma un complesso architettonico che viene da un design esclusivo, studiato per erigere un ponte tra culture diverse, tra atmosfere surreali che rendono l’Arte Universale. Il rimando è anche alla cultura araba, oltre a quella Occidentale, e il Mediterraneo diventa pertanto un semplice spartiacque, qual è sempre stato del resto, tra culture lontane. Nella grande cupola sono state incastonate 8 mila stelle in metallo, e non a caso, perché riflettono naturalmente la luce e creano effetti policromi veramente suggestivi.
Il Louvre d’Oriente non viene dalla lampada magica di Aladino, ha un costo vicino ad 1 miliardo di euro, ed è frutto della lungimiranza dei paesi arabi, ai quali tanto dobbiamo in termini di Scienza e Cultura. La vocazione all’Arte di questi paesi non si è smarrita nei secoli, forse per ragioni storiche e sociali ha subito una stasi, dovuta in gran parte alla mancanza di mezzi finanziari, ma a partire dal novecento la riscossa del petrolio ha rimesso in moto il desiderio di rivolgere alla Cultura le dovute attenzioni.
Il Museo esporrà, anche con il contributo del Louvre di Parigi (300 opere), importanti opere d’arte e reperti, si andrà dai prestigiosi ‘pezzi’ preistorici alle opere d’arte contemporanea, che abbracciano la Cultura e la Civiltà Umana nelle sue fasi più essenziali di progresso e di crescita.
Nel perimetro espositivo del Museo, che sembra galleggiare sull’acqua, ci sono 23 gallerie permanenti, dove, come si è accennato, il percorso artistico delle opere rifletterà l’evoluzione della civiltà umana, dalle sue origini a quella contemporanea, anche se lo spazio che occuperà quest’ultima sarà solo il 5% del totale.
Troveranno posto pezzi di grande pregio nell’esposizione, come un Corano risalente al VI secolo, un Testo della Torah (ebraica), giunto dallo Yemen, e una Bibbia gotica. E tantissimi altri; saranno in tutto 600 quelli provenienti dalla cultura dei paesi arabi.
L’assetto architettonico esterno è di ispirazione araba, richiama le medine, e comprende 55 edifici e una promenade sul mare.
L’isola di Saadiyat accoglie anche altre strutture destinate all’Arte e alla Cultura, alcune già inaugurate e altre da ultimare. Il Guggnheim, per esempio, è un progetto firmato da Frank Gehry, mentre lo Zayed National Museum porta quella di Norman Foster.
La lungimiranza e il desiderio di spezzare le barriere culturali, che non di rado creano urti nei rapporti tra i popoli, viene dal ministro del Turismo e della Cultura di Abu Dhabi, Mohamed Khalifa Al Moubarak, aperto alle diversità e al rispetto di ogni cultura, nella stessa linea di vedute del principe ereditario dell’Arabia Saudita, Mohammed Bin Salman.
Potrebbe essere considerato normale per noi dell’Occidente, non lo è per queste civiltà chiuse, che stentano a trovare la chiave di un’alleanza basata sulla tolleranza, soprattutto in ambito religioso.
Un vecchio adagio dice che ‘la Cultura è l’unico bene dell’Umanità che diviso tra tutti, anziché diminuire aumenta sempre di più’: è forse questa consapevolezza che manca in piena epoca di globalizzazione. Ci sono tuttavia queste persone illuminate nei regni dell’Islam a fare la differenza, le quali stanno portando avanti riforme e iniziative che cambieranno i ‘connotati’ del nostro tempo. Non si torna indietro: si tratta delle prime pietre miliari di un cambiamento storico già in atto.
E’ il miracolo del dio petrolio e del dio denaro? Certamente stanno dando una buona mano. Le grandi, colossali opere sorte in Arabia e negli Emirati, e non solo, vengono dalla miniera di risorse che il petrolio ha contribuito a creare. Non sarebbero state altrimenti possibili. Inutile negarlo.
Come sostiene l’ex ministro della Cultura francese, Jack Lang, in primo piano nella supervisione del Louvre di Abu Dhabi:
“il Museo degli Emirati è più Universale di quello di Parigi, paradossalmente, perché è il simbolo, il trait-d’union di culture diverse”.
Nel complesso della struttura sono previste mostre anche per il mondo dell’infanzia, vi sono sale per ogni esigenza, per meeting di carattere culturale, convegni; e poi ristoranti e ogni locale commerciale utile ai visitatori.
L’atrio del Louvre di Abu Dhabi è una direzione di segnali che indicano ai visitatori del museo i temi delle gallerie, le quali sono sia tematiche che cronologiche, quanto a datazione. Si prevedono infatti opere risalenti alla civiltà dei primi imperi del Mediterraneo, e non solo. Ci sarà un’esposizione a tema religioso di carattere universale, per mantenere vivo l’impegno verso il rispetto di ogni cultura e religione.
Trattandosi di una grande struttura a stretto contatto con il mare, l’acqua è protagonista del progetto, e la si scorge alla base di questa città museo, dove è stata sfruttata per la realizzazione di piscine e altri parchi acquatici che hanno lo scopo d’intrattenere i visitatori.
L’architettura si porta dietro anni di studi, anche sul versante dei consumi, in primo piano nella stesura del progetto. Alla fine si è riusciti ad adeguare l’esigenza dei più bassi consumi energetici alle prerogative estetiche degli edifici, che sono stati resi luminosissimi attraverso la naturale infiltrazione di luce, che arriva ovunque, consentendo l’energy free per lunghe ore durante le visite.
La cupola è stata studiata e realizzata secondo le tecniche più moderne, con l’uso di materiali idonei a mantenere costanti le temperature, evitando le radiazioni solari e dunque proteggendo gli interni. Ma anche i materiali di rivestimento utilizzati per i volumi dell’edificio sono frutto di ricerche avanzate, che consentono la creazione di un microclima controllato, non dannoso per i visitatori e tanto meno per le opere esposte.

LA CENSURA NON PUO’ ESSERE LA MATITA ROSSA DELLA CORRETTA INFORMAZIONE

DI VIRGINIA MURRU

Il blog “Remocontro” – testata giornalistica molto seguita – ieri è stato oscurato dalla censura. I dirigenti di Facebook, con i loro droni, evidentemente passano al vaglio l’informazione che raggiunge le maglie strette del network, e avendo riscontrato dettagli non conformi ai loro ‘criteri’ di valutazione della correttezza, sono intervenuti.

Con un provvedimento ‘esemplare’: una settimana di oscurità, il blog non potrà diffondere gli articoli via Facebook fino a punizione conclusa.
Queste non sono lezioni da impartire ad una società civile, non vengono dalla fonte della libertà d’espressione alla quale siamo stati formati.

Si pensava che ‘censura’, all’alba del terzo millennio, fosse solo un ‘reperto archeologico’ (d’epoche non poi tanto remote), tuttavia ci sentivamo autorizzati a cancellarla dalla memoria, perché esorcizzata dal tempo, retaggio di un passato nemmeno tanto lontano, ma non più degno d’essere ‘traslata’ nel nuovo millennio.

E invece certe calamità vanno oltre le pietre miliari della storia, attraversano con inquietante immunità il nostro tempo, percorrono a velocità supersonica le autostrade telematiche della  comunicazione, e colpiscono bersagli che hanno solo il torto di portare avanti i valori impliciti nella libertà di pensiero.

E siamo costretti, ancora, nella galassia dell’informazione, a fare appello all’art. 21 della Costituzione, che sembra un ‘dettaglio’ scontato, e invece è sempre una buona sentinella per i fondamentali diritti umani sui quali si fondano i presupposti di una società civile.

Remocontro è una fonte d’informazione gestita peraltro da giornalisti che hanno alle spalle lunghi anni d’esperienza professionale, certamente una garanzia di correttezza e qualità, per quel che concerne gli articoli diffusi in rete. Leggendo l’articolo di Ennio Remondino, non si riesce a capire quale sia la ragione del provvedimento dei dirigenti di Facebook, lo sconcerto è grande, perché a questo punto, si rischia di precipitare nel girone infernale degli interrogativi senza risposta.

In apparenza, infatti, una motivazione sensata non esiste, non si riscontrano offese, riferimenti allusivi e tendenziosi, rimandi alle concezioni discutibili dell’Islam sui diritti umani riguardanti le donne. Poi, ‘la virtù del dubbio’, porta a ragionare sulle cause che hanno determinato e acceso la miccia della censura, e si conclude che solo l’azzardo, l’idea di mettere in risalto una semplice notizia che ha viaggiato velocemente nel web, è stato ritenuto, forse, un atto d’irriverenza.

L’ironia, ingrediente naturale della libertà d’espressione, ha reso l’articolo non ‘commestibile’ per certi palati sensibili, ma tant’è: nella mannaia della censura esiste talvolta un peccato originale che si chiama ‘rispetto della verità’.

La censura è un valore che viaggia al contrario, quasi teoria degli opposti, in un clima di tolleranza e rispetto della libertà di pensiero e opinione; non ‘rema contro’ per regolare gli eccessi, pure possibili in un regime di piena democrazia, ma perché tiene conto di una gerarchia di valori che ha simmetrie diverse in altri versanti.

In definitiva perché si difendono altre ragioni, che trascendono; intanto perché non sono limpide.
Nell’articolo si esprimono opinioni favorevoli, e non potrebbe essere altrimenti, verso la scelta operata dal principe saudita Salman, di concedere la libertà di guidare l’auto alle donne. Si sottolinea l’entusiasmo delle donne a Riad, che sono scese in piazza, insieme a tanti uomini (buon segno, decisamente), per festeggiare, a suon di clacson, questa svolta epocale per l’ortodossia del Wahabbismo Sunnita.

L’articolo mette in rilievo il clima da Medioevo in cui i diritti delle donne devono misurarsi, e questa felice intuizione del giovane principe, che ancora deve salire al potere, segno di lungimiranza, lacerazione di quella cortina d’acciaio in cui languiscono i diritti umani: una speranza della quale si doveva parlare. Si tratta di un avvenimento di grande importanza, un evento da celebrare, anche in Occidente.

Allora, non è piaciuto il rimando al Medioevo? Si doveva parlare d’Illuminismo, in riferimento al regime di Riad? In un clima di democrazia si chiamano le cose per nome, a volte perfino col cognome.

Non si ravvisano offese di alcun genere nell’articolo, ben altro corre in forma di raffica nel linguaggio del web, e basterebbe soffermarsi sui commenti nei confronti del radicalismo islamico, per comprendere che la gente non mette in bilancia le parole quando deve esprimere un’opinione.
C’era la verità sostanziale dei fatti, che poi è tutto per la deontologia professionale di un giornalista.

L’Arabia Saudita, grande alleata di Washington, è uno scacchiere sensibile nel Mediterraneo, forse, qualora si fosse puntato l’osservatorio sull’Iran, paese islamico a maggioranza sciita, l’eco avrebbe potuto essere diverso. A questo punto è lecito ragionare, dato che non si ha nemmeno il diritto di conosce il motivo della censura.

L’articolo pubblicato nel blog di ‘Remocontro’, firmato da Remondino, è davvero asettico, non reca nemmeno traccia di offesa diretta o indiretta, a questo punto tutti siamo suscettibili di censura e degni d’essere ‘perseguiti’ via web.

Non riconosciamo queste vie contorte della libertà d’espressione. Scorre sangue e lacrime dietro questi valori. Noi, in Italia, pensavamo d’avere lasciato la censura dietro il filo spinato di un regime autoritario che ha chiuso i suoi battenti nel ’45. Credevamo, anzi ne eravamo convinti, nonostante le difficoltà in cui si muove la stampa in Italia, e gli oltre cento giornalisti costretti a svolgere il proprio lavoro sotto scorta (perché minacciati dalla criminalità organizzata).

E nonostante fossimo consapevoli che siamo il fanalino di coda in Europa per quel che concerne la libertà di stampa. Malgrado questo, ci si illudeva d’essere al di là della sponda, oltre quel muro, nel quale troppi eroi sono stati immolati.

PALERMO CAPITALE DELLA CULTURA 2018

DI PIERLUIGI PENNATI
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Panormos (παν-όρμος) era l’antico nome greco, ovvero “tutto-porto”, a causa  dei due fiumi, oggi non più visibili, Kemonia e Papireto che creavano un unico enorme approdo naturale intorno alla città, i Romani modificarono solo di poco il suo nome in Panormus, diventato poi Balarm in arabo e Balermus a seguito della conquista normanna.
Già l’etimologia del nome ne denuncia l’intensa storia, dominazioni e conquiste che hanno lasciato un segno indelebile e profondo nella città e che anche senza l’investitura ufficiale del Ministero dei Beni Culturali la collocavano tra le città più attraenti d’Italia sotto il profilo culturale, architettonico, artistico e persino scientifico dell’età antica e moderna.
Oggi l’investitura ufficiale, per tutto il 2018 Palermo sarà sotto i riflettori ed avrà la possibilità di mostrare ancora di più all’Italia ed al mondo tutta la sua bellezza, la sua storia e la sua magia cittadina e culturale.
“La candidatura è sostenuta da un progetto originale, di elevato valore culturale, di grande respiro umanitario, fortemente e generosamente orientato all’inclusione alla formazione permanente, alla creazione di capacità e di cittadinanza, senza trascurare la valorizzazione del patrimonio e delle produzioni artistiche contemporanee. Il progetto è supportato dai principali attori istituzionali e culturali del territorio e prefigura a che interventi infrastrutturali in grado di lasciare un segno duraturo e positivo. Gli elementi di governance, di sinergia pubblico-privato e di contesto economico, poi, contribuiscono a rafforzarne la sostenibilità e la credibilità”.
Questa la motivazione ufficiale letta dal Presidente della Commissione, Stefano Baia Curioni, dopo l’annuncio del Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Dario Franceschini, nel corso della cerimonia di investitura.
Palermo gareggiava, nemmeno a dirlo, con eccellenza italiane di tutto rispetto, ma quest’anno l’ha spuntata Palermo e con tutta probabilità anche per la sua spiccata vocazione multiculturale, colta anche dal Sindaco Leoluca Orlando che  ha dichiarato: “C’è una profonda emozione, ma devo riconoscere che è stata una vittoria di tutti perché siamo stati capaci ognuno di narrare le bellezze dei nostri territori, la cifra culturale più  significativa e che rivendichiamo è la cultura dell’accoglienza. Rivendichiamo il diritto di ogni essere umano di essere e restare diverso ed essere e restare uguale”.
Un milione di euro e esclusione dal patto di stabilità accompagnano il titolo, dando a Palermo l’opportunità di sviluppare programmi di sviluppo della conoscenza del territorio e del turismo per un sempre maggiore rilancio della città all’insegna dell’arte e della cultura, che a Palermo certo non sono mai mancate.
Ma per chi Palermo non la conoscesse bene va detto che oggi è il principale centro urbano della Sicilia e dell’Italia insulare ed è il quinto comune italiano per popolazione e venticinquesimo a livello europeo.
Palermo ha una storia millenaria ed ha avuto sempre un ruolo centrale nel Mediterraneo. Fu fondata dai Fenici tra il VII e il VI secolo a.C., poi conquista dai Saraceni nell’831 e da questi ampliata fino a diventare sotto la dinastia dei Kalbiti la capitale dell’Emirato di Sicilia e poi, con i Normanni, Palermo vide l’incoronazione di numerosi re di Sicilia cha attribuirono alla città il titolo di «Prima Sedes, Corona Regis et Regni Caput».
Fu teatro dei Vespri siciliani nel 1282 contro gli Angioini, dominatori francesi dell’isola, che erano visti come oppressori stranieri, facendo dilagare i moti per tutta l’isola finendo per espellerne la presenza e farla diventare la capitale del Regno delle Due Sicilie. Anche Dante Alighieri cita i Vespri e Palermo nella sua Divina commedia, al canto VIII del Paradiso, «Se mala segnoria, che sempre accora li popoli suggetti, non avesse mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”»
Ma la sua lunga storia e l’avvicendarsi di tante civiltà e popoli hanno lasciato a Palermo un grande ed importante patrimonio artistico ed architettonico riconosciuto anche dall’UNESCO che ha già inserito nella lista dei patrimoni dell’umanità ben sette complessi monumentali: il Palazzo dei Normanni con la Cappella Palatina, la Chiesa di San Giovanni degli Eremiti, la Chiesa della Martorana, la Chiesa di San Cataldo, la Cattedrale, la Zisa ed il Ponte dell’Ammiraglio.
Altri sei sono candidati: il Castello a Mare, la Cuba, la Cubula, il Castello di Maredolce con il Parco della Favara, la Chiesa di Santa Maria della Maddalena e la Chiesa della Magione.
Partendo dall’inizio la presenza umana a Palermo è radicata fin dalla preistoria, all’interno dell’Addaura, sul Monte Pellegrino, sono state scoperte grotte abitate nei periodi paleolitico e mesolitico con ritrovamenti di ossa e strumenti di caccia, oltre a molte incisioni, databili tra l’epigravettiano finale e il mesolitico, raffiguranti figure umane ed animali.
La città vera è propria, però, venne fondata dai Fenici probabilmente con il nome di Zyz, che significa fiore, come porto commerciale d’appoggio per raggiungere la Sicilia nord-occidentale, favorita dalla presenza dei due fiumi, il Kemonia e il Papireto, che, come detto, realizzavano un grande porto naturale.
Solo i greci, maggiormente presenti nella parte orientale sicula, non lasciarono tracce importanti, aggredendo la città solo poche volte e per saccheggiarla.
Verso il 500, dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente e la distruzione dell’isola da parte delle popolazioni dei Vandali nella sua parte occidentale, Palermo fu ricostruita dai Bizantini, che furono presenti per circa trecento anni.
Nel IX secolo la Sicilia fu invasa dagli arabi dal Nordafrica e nell’831 fu presa anche Palermo, convincendo i governatori musulmani a spostare la capitale della Sicilia da Siracusa a Palermo che fu così dotata di tutte le strutture burocratiche di una capitale. Secondo lo storico Teodosio, a Palermo, durante la dominazione araba più di trecento chiese furono trasformate in moschee. Fu questo il periodo in cui il territorio cominciò ad essere intensamente sfruttato ad agrumeti, formando la Conca d’oro, giunta fino a noi, ed aprendo nuove possibilità di sviluppo economico per la città.
Intorno all’anno mille fu la volta dei Normanni, mescolando gli stili islamici in molti edifici religiosi e civili, tra i quali certamente spicca il Ponte dell’Ammiraglio, con le sue dodici arcate nelle vicinanze della stazione centrale della città.
Dopo i normanni, i regnanti siciliani furono gli Svevi, che fecero di Palermo una sede imperiale, gli Angioini, che però spostarono la capitale da Palermo a Napoli e dopo i Vespri, Palermo divenne la capitale del regno cadetto degli aragonesi, per poi perderà l’indipendenza nel XV secolo e diventare un vicereame iberico e sede del Viceré.
Gli spagnoli rivalutarono territorio per il suo valore strategico contro gli Ottomani, rimanendo per circa duecento anni fino al termine della guerra di successione spagnola, dopo di che divenne dominio dei Borboni che mantennero il Regno di Sicilia e di Napoli separati fino al 1816 quando fondarono il Regno delle Due Sicilie e Palermo diventò solo il secondo centro amministrativo dopo Napoli.
Palermo, però, non è mai stata in discussione come capitale siciliana, diventando luogo di incontro e di scontro persino dopo lo sbarco di Garibaldi nel 1860 a seguito del quale, a causa delle rivolte ad esso seguite, avvennero anche alcuni bombardamenti che distrussero molte strutture architettoniche.
La storia artistica ed urbanistica di Palermo, però, ancora una volta non si fermò ed in seguito all’Unità d’Italia, furono realizzate altre importanti opere architettoniche, come il taglio di via Roma e la costruzione del teatro Massimo e del Politeama, i teatri più rappresentativi della città e dell’intera sicilia.
Anche la contaminazione Liberty non risparmiò Palermo all’inizio del secolo scorso, lasciando alcune testimonianze di gusto eclettico e durante la seconda guerra mondiale subì molti bombardamenti finiti con la sua occupata nel luglio 1943 dalle truppe statunitensi del generale George Smith Patton.
Una nota certo non piacevole, ma comunque culturale, fu lo sviluppo, prevalentemente nel secondo Novecento, del fenomeno della mafia che fece molte vittime, il poliziotto Boris Giuliano, il capitano dei Carabinieri Mario D’Aleo, il prefetto di Palermo generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il presidente della Regione Siciliana Pier Santi Mattarella, i magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Gaetano Costa e Rocco Chinnici, il parroco del quartiere di Brancaccio, don Pino Puglisi e giornalisti come Mauro De Mauro e Mario Francese e molti altri meno conosciuti che avevano il solo difetto comune di opporsi alla malavita organizzata.
Dal 2015 Palermo è co-presidente mondiale del programma Safer Cities, lanciato ‘96 dalle Nazioni Unite, ed il suo sindaco, Leoluca Orlando è responsabile del progetto per l’Europa e l’Africa.
Ma Palermo è anche capitale mondiale dell’accoglienza, non a caso citata nel discorso di ringraziamento per il riconoscimento ministeriale a capitale della cultura 2018, la “Carta di Palermo” è un documento sottoscritto nel marzo 2015 da giuristi, attivisti dei diritti umani, amministratori pubblici ed organizzazioni non governative per sollecitare la comunità mondiale ad una revisione della legislazione sul permesso di soggiorno e delle politiche legate ai fenomeni migratori, sostenendo la mobilità umana internazionale come diritto inalienabile della persona.
Se qualcuno pensava potesse essere finita qui, si sbaglia di grosso, il catalogo della cultura di Palermo è pressoché illimitato, se la storia ci dà un’indicazione di quali e quante culture si sono qui incrociate bisogna guardare alla città attuale per scoprire che non è possibile solo visitarla, Palermo è da vivere intensamente ed a lungo, scoprendo aspetti così numerosi ed interessanti da non poterla lasciare senza aver arricchito il nostro bagaglio culturale in modo altrimenti improponibile.
A Palermo ci sono molti monumenti nazionali, edifici religiosi, chiese e moschee, palazzi storici e persino opere imponenti di ingegneria idraulica, come i Qanat, un sistema di canali sotterranei, parzialmente visitabile, per l’intercettazione delle acque sorgive nel sottosuolo della città, costruiti a cavallo tra la dominazione araba e il periodo normanno.
Poi la natura, parchi e giardini, l’antico stabilimento balneare di Mondello, piazze dalla storia intensa ed interessante, numerosi teatri, tra cui il Teatro Massimo Vittorio Emanuele che è il più grande teatro d’Italia ed il terzo tra i teatri lirici d’Europa, dopo l’Opéra National de Paris e la Staatsoper di Vienna, che vanta un’acustica perfetta nella sua sala a ferro di cavallo.
La numerose porte cittadine non sono meno attrattive, così come i mercati storici, quali il Ballarò, reso famoso anche dall’omonima trasmissione televisiva, i parchi archeologici, le catacombe ed le riserve naturali che circondano la città.
Ma non solo turismo, le università a Palermo sono molte ed illustri, come le biblioteche e gli archivi storici, di stato e privati, gli istituti clinici e di ricerca e le scuole: a Palermo sono presenti più di 450 plessi scolastici tra scuole materne, elementari, medie e superiori.
Persino alcune parole fondamentali per la nostra cultura sono nate qui, Philippe Daverio afferma che «La parola algebra proviene da al-ğabr wa’l-muqābala, un libro scritto nell’825 d.C. da Abū Jaʿfar Muhammad ibn Mūsā al-Khwārizmī. Al-Khwarizmi diventerà la parola algoritmo e ci apre la strada verso il curioso rapporto tra il mondo arabo e il mondo occidentale, per il qual rapporto è fondamentale la città di Palermo.»
E poi filosofi, artisti, musicisti, matematici, scienziati, storici, scrittori, sono nati in questa città, dove i musei non mancano e le tracce da questi lasciate sono evidenti.
Che dire, poi, della cucina, a Palermo non mancano anche le prelibatezze, soprattutto dolci, cannoli e cassate, e vanta persino l’inventore del gelato in Francesco Procopio dei Coltelli e la cucina locale, come tutta la cucina siciliana in generale, rientra a pieno nel modello nutrizionale della dieta mediterranea, riconosciuta dall’UNESCO bene protetto nella lista dei patrimoni orali e immateriali dell’umanità nel 2010.
Siamo quello che mangiamo e mangiamo quello che siamo, l’influenza del susseguirsi delle cultura ha lasciato a Palermo anche una varietà gastronomica d’eccezione producendo un risultato finale che è una mescolanza di sapori e profumi unici, con abbondante utilizzo di vegetali, frutta, verdura, ortaggi, pasta, pane, patate e legumi; carni rosse, bovine, ovine e suine; carni bianche e, ovviamente, pesce a volontà, ma anche numerose varietà di formaggi locali ed olio d’oliva, principale condimento e fonte di grassi e gli aromi, basilico, menta, origano, rosmarino, zafferano, alloro, semi di finocchio, che assumono un ruolo decisivo nella caratterizzazione delle preparazioni gastronomiche tipiche di Palermo.
Per finire le minoranze e l’informazione, che a dispetto del fenomeno dell’omertà, a Palermo è invece fiorente, con numerosi giornali locali e radio private che formano il tessuto sociale della città ancora oggi, un tessuto sociale dove le tradizioni hanno ancora il loro posto d’onore ed inorgogliscono la popolazione che non rinuncia ad esse ed al clima di grande abbraccio e fratellanza tra le persone che si genera durante le feste e le ricorrenze locali.
Palermo è tanto ed ancora di più ed il riconoscimento di Capitale della Cultura Italiana è certamente meritato, non solo per il 2018, ma sempre, patrimonio culturale, sociale, architettonico, artistico, etc., italiano e del mondo intero.
La prossima volta che pensate a Palermo non limitatevi ai luoghi comuni.