TEMPESTA SULLA BREXIT: LE RIVELAZIONI DI CHRIS WYLIE NON NE ACCELERANO IL CORSO

DI VIRGINIA MURRU

 

Il percorso verso la Brexit è già di per sé travagliato e irto di ostacoli, i colpi di scena non sono certo mancati. Nello stesso Regno Unito, sul finire del 2016, si è messa in discussione la legittimità costituzionale nella procedura da seguire per l’uscita dall’Ue, se n’è occupata poi la Corte Suprema, la quale ha dato ragione ai sostenitori del ‘Remain’: necessaria l’autorizzazione del parlamento, per l’approvazione dei vari step durante i negoziati con l’Unione.

Le sorprese, tuttavia, non sono finite. Quest’anno, nell’”easter egg”, c’era qualcosa di più rilevante: lo scandalo emerso in seguito alle rivelazioni di Christopher Wylie, 28 anni, cofondatore di Cambridge Analytica, società legata da contratto di collaborazione a Facebook.

L’informatore, ora ex dipendente della società londinese, ha fornito gli estremi per un’inchiesta giornalistica, che ha contribuito a portare a conoscenza degli utenti europei e americani, la violazione della privacy su circa 50 milioni di profili Facebook.

Intanto, Wylie, ha reso testimonianza davanti al parlamento inglese, tramite la Commissione Affari interni della Camera dei Comuni. L’informatore ha riferito delle strategie illecite e truffaldine adottate dal gruppo ”pro Brexit’’, volte a portare avanti il progetto di abbandono dell’Unione Europea, durante la campagna referendaria di due anni fa.

Le sue affermazioni sono state poi confermate anche da un altro testimone.
Wylie ha denunciato pubblicamente quello che è accaduto, perciò il whistleblower è stato definito “gola profonda e genio dislessico”, di un caso diventato clamoroso a livello internazionale, che non si è esaurito né è destinato a dissolversi come un semplice polverone mediatico.

Vi sono ripercussioni, in ciò che il giovane scienziato ha rivelato, che riguardano l’orizzonte politico, nell’ampio spettro d’azione che ha interessato eventi fondamentali nell’assetto interno e internazionale, quali l’esito del referendum sulla Brexit e l’elezione del presidente degli Usa, Donald Trump.
Cambridge Analytica ha seguito entrambe le campagne elettorali, con precisa attività di propaganda, sia in favore della Brexit che di Trump.

Le consultazioni elettorali sarebbero state in qualche modo ‘dopate’ da condizionamenti favoriti dall’uso illecito dei dati ‘trafugati’ agli ignari utenti facebook. Dati manipolati allo scopo d’indirizzare le intenzioni di voto in una direzione ben precisa: nel caso del referendum avvenuto nel giugno del 2016 in Gran Bretagna, verso la Brexit, mentre negli Usa, l’influenza sulla libera scelta di voto, doveva favorire proprio l’attuale presidente in carica. Extrema ratio di chi intendeva imburattinare la volontà popolare, e la libera espressione del voto, orientandone gli intenti nella direzione voluta.

“Missione compiuta” per Cambridge Analytica, ma a volte, per dirla con un luogo comune, il diavolo dimentica poi di fare i coperchi per le oscure manovre architettate dietro le quinte. In fin dei conti, questi sopraffini interventi di manipolazione degli elettori, vanno a scapito della libertà individuale, diritto che dovrebbe essere sacro e inviolabile, ma a quanto pare neppure i diritti fondamentali di una costituzione sono a “prova di scasso”.

L’acquisizione dei dati riguardanti circa 50 milioni di utenti Facebook da parte di Cambridge Analytica UK (società di consulenza con sede a Londra, si occupa di elaborazione e analisi di dati nel corso di una campagna elettorale), avveniva, secondo Wylie, tramite una società collegata (Aggregatelq), che permetteva l’accesso ai profili facebook .
Ma in che modo gli elettori, tramite il social, venivano influenzati nelle scelte elettorali?

Si analizzavano i dati che li riguardavano, le preferenze, e si influenzavano attraverso messaggi mirati, questa la strategia psicologica adottata per ‘dirottare’ il voto. Una sorta di ‘broglio-imbroglio’.

Ma non è tutto. Pare siano state violate le leggi di finanziamento stesso della campagna elettorale sulla Brexit, tramite trasferimento di donazioni tra associazioni ‘pro Leave’, e dunque favorevoli alla fuga dall’Ue. Secondo le indagini in corso, è stato superato il budget massimo consentito dalla legge britannica ai finanziamenti della propaganda elettorale. Una truffa ordita dai ‘ Vote Leave’.

Wylie è esplicito su questo punto: l’esito del referendum, senza questi espedienti poco ortodossi, sarebbe stato diverso.
Tutto un sottobosco di intenti ed azioni volte a influenzare l’esito del voto. Esistono le prove, ora l’onere di illuminare a giorno queste trame ordite all’insaputa dell’elettorato, sarà della Giustizia britannica. Il Ceo Mark Zuckemberg, intanto, invitato ad una audizione dal parlamento britannico, si è disimpegnato e ha autorizzato alcuni suoi collaboratori a rendersi disponibili.

Il giovanissimo amministratore delegato di Facebook, pungolato anche dal Senato americano, e invitato a rispondere delle responsabilità del social network davanti alla Commissione Commercio, ha deciso di presentarsi. In questa sede dovrà rispondere della violazione delle norme sulla privacy, sui dati riguardanti i profili di milioni di utenti. Anche in questo caso, si aveva accesso alle preferenze politiche, e con strategie di propaganda e messaggi mirati, nel corso della campagna elettorale, si cercava d’indirizzare il voto nella direzione voluta.

Wylie, ex dipendente di Cambridge Analytica, intervistato, al riguardo, sostiene:

“Come si fa a dire che comunque, anche senza questi risultati condizionati, l’esito sarebbe stato quello che è poi emerso, sia in Gran Bretagna che negli Usa? Se dopo una prestazione sportiva, in seguito ai controlli anti-doping, si riscontra che un atleta ha fatto uso di droghe, gli si prende la medaglia, e non si sta a pensare se il risultato, nonostante tutto sarebbe stato il medesimo. Così dovrebbe essere quando accadono eventi di carattere elettorale pilotati o illecitamente influenzati: si annullano.”

E aggiunge: “non è uno scherzo, la Brexit ha prodotto fondamentali cambiamenti di carattere costituzionale nel Regno Unito.”

Gina Muller, imprenditrice inglese, che aveva già messo in discussione, sul finire del 2016, la legittimità della procedura relativa alla Brexit, (convinta ‘Pro Ue’, aveva perorato la causa di chi voleva che fosse il parlamento inglese a pronunciarsi tramite il voto, sull’iter da seguire per l’uscita dall’Ue), esulta, e invoca un nuovo referendum, con maggiore vigilanza sui finanziamenti.

Facile a dirsi, non saranno dello stesso avviso né i conservatori britannici né quelli americani. A proposito di conservatori, uno dei due fondatori di Cambridge Analytica, è Robert Mercer, finanziere, magnate e ombra discreta di Trump (più che mai durante la sua campagna elettorale), sostenitore di tante iniziative politiche conservatrici.
Cambridge Analytica, su cui Mercer ha investito milioni di dollari, ha ovviamente diverse ‘succursali’ negli Stati Uniti, e ha seguito la campagna elettorale di Donald Trump, non è difficile concludere che le rivelazioni di Wylie siano più che verosimili a questo punto.

Anche l’Ue, tramite il Commissario alla Giustizia, ha chiesto, entro due settimane, chiarimenti a Facebook sull’uso improprio dei dati personali di milioni di cittadini europei. Ma non finisce qui.

Wylie, esperto di analisi dei dati, non per nulla è stato apostrofato con l’epiteto ‘gola profonda’. Egli ha fatto cenno ad un altro Stato nel mirino di Cambridge Analytica: l’Italia..
Ma è solo un cenno, non svela altro, anche se è difficile credere che le sue conoscenze al riguardo non vadano oltre.

“La società ha lavorato per alcuni partiti politici – sostiene – ma non so quali siano. So solo che c’era un italiano che lavorava con Cambridge Analytica, era il collegamento con l’Italia, ma non conosco il nome.”

Intanto la procura di Roma ha dato il via alle indagini, in seguito ad un esposto presentato da Codacons, Associazione dei consumatori che intende portare avanti un’azione di tutela nei confronti dei circa 30 milioni di italiani iscritti al social Facebook. L’esposto è stato trasmesso a ben 104 Procure in Italia, oltre che al Garante della Privacy, al fine di verificare se siano stati commessi illeciti proprio sul piano della privacy in territorio italiano.

Negli Usa non sono meno zelanti in proposito, già avviata una class action, con relativa azione legale, contro Facebook, i cui estremi sono stati presentati presso la Corte Distrettuale di S. José, in California.

PUTIN LICENZIA "TUTTI GLI UOMINI DEL PRESIDENTE" TRUMP

DI IMMACOLATA LEONE
 
E’ ormai fuori dubbio, le qualità diplomatiche in politica estera, per il presidente Donald Trump ed il suo staff, sono un optional.
Grave pensare di sanzionare Putin e credere che “l’orso” se ne sia rimasto all’angolo dove aveano provato ad isolarlo.
Putin ha una strategia, una politica estera ed una notevole capacità di comunicazione, solo che stavolta si è un tantino irrritato, dopo le misure restrittive nei confronti della Russia, approvate dal Congresso americano.
 
Vladimir Putin ha annunciato il che entro il primo settembre ben 755 membri dello staff diplomatico americano dovranno lasciare il paese. Ne rimarrebbero 455, lo stesso numero di diplomatici russi negli Usa.
Pari e patta insomma.
 
Putin in una intervista glaciale, ha dichiarato quanto segue : “Abbiamo aspettato per un po’ un cambiamento e un miglioramento dei rapporti con gli Stati Uniti, ma giudicando da tutto, se qualcosa cambierà non sarà a breve, è venuto il momento di mostrare agli Stati Uniti che non lasceremo le loro azioni senza risposta. Washington ha assunto posizioni che peggiorano i nostri rapporti bilaterali e possiamo mettere in campo anche altre misure per rispondere”.
 
Anche se le sanzioni non sono ancora in vigore ,il vice presidente Mike Pence dichiara che avranno l’avallo del presidente Trump, che pur di non mettersi contro il Congresso avrebbe deciso invece di mettersi contro il suo ex “amico” Putin.
 
Su queste basi un Trump pasticcione, assolutamente digiuno di politica estera, circondato da consiglieri confezionati su misura, ha pochissime possibilità di spuntarla con lo Zar Bianco, al secolo Vladimir Putin, uomo, che pur con le sue mille contraddizioni, positive o negative, secondo i punti di vista, è uomo tosto con un passato militare, anche discutibile, e di una forma di diplomazia rozza ma efficace.

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TAGLIO OBAMACARE. CON TRUMP, VITA ANCORA PIU' DIFFICILE PER I POVERI

DI IMMACOLATA LEONE
Una volta si diceva “per un pugno di dollari”, oggi “per un voto in più”, continua lo scontro fratricida all’interno del Senato per la riapertura dell’Obamacare, infatti grazie a 51 voti su 50, si riaprirà nuovamente il dibattito.
L’Obamacare è sempre stato il cruccio di Trump, ed in uno dei suoi logorroici tweet ha dichiarato che “sta torturando gli americani. I democratici hanno preso in giro la gente abbastanza. Respingetela o Respingetela e Sostituitela! Ho già la penna in mano”.
L’abolizione dell’Obamacare comporterà:
– la fine dell’obbligo di procurarsi una copertura sanitaria;
– la sostituzione dei sussidi federali con detrazioni sulle tasse per un massimo di circa 4.000 dollari a persona all’anno, assegnate anche in base all’età , con Obamacare si teneva in considerazione solo il reddito; e limitazione del Medicaid, il programma di copertura sanitaria per i più poveri.
Quindi modifiche per agevolare i giovani e i ricchi.
Secondo i calcoli, di qualche mese fa, dell’ organo indipendente alla Ragioneria di Stato, il Congressional Budget Office, da oggi fino al 2024 circa 32 milioni di persone perderebbero la copertura sanitaria.
Il New York Times ha calcolato che in base a questa proposta
nei prossimi dieci anni il governo federale avrebbe speso più di quello previsto all’origine.
Cioè una variazione che portava al vuoto siderale.
Che dire, vita sempre più difficile per i poveri.

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USA. A OGNUNO IL SUO DISPETTO, IL PORTAVOCE SPICER SI DIMETTE

DI IMMACOLATA LEONE
 
L’irrequieto presidente americano Donald Trump, da mesi ormai impegnato a mettere una pezza alle azioni dei suoi piu fidi collaboratori soprattutto nelle inchiesta del Russiagate, oggi alle dimissioni del suo portavoce Sean Spicer, ha subito nominato Sarah Huckabee Sanders come sua sostituta.
 
Spicer, già da mesi caduto in disgrazia, nonostante il difficile ruolo di mediatore dei pensieri illuminanti del suo presidente e quindi spesso non in linea con le sue idee, si sarebbe indispettito per la nomina di Anthony Scaramucci a capo dello staff della comunicazione della Casa Bianca, che ha subito accettato.
 
L’ormai gia ex portavoce si è reso disponibile per tutte le operazioni di transazione del nuovo direttore.
Come dire, a ognuno il suo dispetto.

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SCUOLE TURCHE: VIA LA TEORIA DI DARWIN

DI IMMACOLATA LEONE
Lo aveva annunciato, qualche mese fa, il funzionario del ministero dell’Istruzione turco, che si occupa di programmi scolastici, Alpaslan Durmuş, che la teoria dell’evoluzione di Darwin sarebbe stata esclusa dai programmi delle scuole superiori.
La teoria dell’evoluzione è proprio quella che descrive le cause e i meccanismi che portano al cambiamento delle caratteristiche ereditarie col passare delle generazioni, e Durmus ha affermato che questi temi «vanno al di là della comprensione degli studenti» ed il loro studio sarà possibile a partire dagli anni universitari.
La notizia sarà ufficializzata oggi e, secondo il quotidiano Birgun, l’intero programma di studi subirà dei cambiamenti, saranno interessate ben 51 materie, a partire dalle elementari, medie e licei.
Saranno drasticamente ridotte le ore di storia, da 34 a 11, dedicate ad Ataturk, il padre fondatore della Repubblica turca, ed alle sue riforme storiche, svuotate nei contenuti essenziali.
Ridotte le ore di biologia, da tre a due ore la settimana per la prima e seconda liceo.
Aumentate le ore di religione, da una a due nei licei scientifici, e aggiunti capitoli riguardanti il Jihad, eliminati altri incentrati sulla religione islamica equiparata alla “pace”, all’”amore”, descritta come una religione che evita gli estremismi e dà importanza alla ragione.
Con queste radicali riforme la Turchia si piazza, al non ragguardevole secondo posto, dopo l’Arabia Saudita, come paese ad aver eliminato la teoria dell’evoluzionismo.

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REATO DI TORTURA, E' LEGGE

DI IMMACOLATA LEONE
E’ stato definitamente approvato dalla Camera, il disegno di Legge sul reato di tortura, le pene vanno 4 a 10 anni, 12 se chi tortura è pubblico ufficiale.
Astenuti i Cinque Stelle, Sinistra Italiana, Mdp, Scelta civica e Civici e innovatori, hanno votato contro Forza Italia, Cor, Fratelli d’Italia e Lega, votato a favore il Pd e l’Ap.
Per un totale di 198 voti a favore, 35 contrari e 104 astenuti.
Una legge appena approvata e già criticata per l’inapplicabilità in alcune sue procedure, in particolare nella formulazione del reato che viene limitato ai soli comportamenti ripetuti nel tempo.
Anche la Magistratura, nei mesi scorsi, aveva invitato invano il Parlamento a rivedere il testo per renderlo piu serio ed equilibrato.
Amnesty International ha accettato suo malgrado la legge, il presidente Antonio Marchesi. ha così dichiarato:“Dopo decenni di discussioni sterili ci si poteva attendere qualcosa di meglio della definizione confusa e restrittiva che entrerà a fare parte del nostro codice: una definizione che non tiene adeguatamente conto della sofferenza mentale che la tortura moderna produce e che vorrebbe che la tortura fosse tale solo in presenza di atti ripetuti. Ma dire che è inutile o controproducente è sbagliato, perché si sottovaluta la necessità di porre fine alla eterna rimozione della tortura attraverso il silenzio, scrivendo invece, una volta per tutte, quella parola indicibile nel codice penale”.

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LA COREA DEL NORD FESTEGGIA IL 4 LUGLIO CON UN NUOVO LANCIO

DI IMMACOLATA LEONE
Questa notte, ora locale 3,30 di Pyongyang, in Italia 8,30, dalla base militare di Banghyun, è partito un missile che ha volato per 40 minuti, ha percorso 930 chilometri ed infine si è inabissato in acque giapponesi.
Forse era un Hwasong-14, il più potente missile mai lanciato fino ad oggi, in grado di contenere un peso nucleare.
Un dispetto in piena regola di Kim proprio nel giorno dell’indipendenza americana, uno sfregio al monito di Trump che ha mandato proprio ieri un cacciatorpediniere nelle acque cinesi, giusto per ricordare a tutti che esiste la più grande potenza americana di tutti i tempi.
Ebbene Kim, se prima li lanciava di soppiatto, oggi lo ha fatto annunciare dalla sua emittente televisiva, ancor prima che fossero gli “spioni” americani a denunciarlo al mondo intero.
Al momento nessuna dichiarazione del presidente americano, ma uno dei suoi soliti tweet: “La Corea del Nord ha appena lanciato un altro missile. Ma questo tizio non ha di meglio da fare nella vita?. Difficile credere che Corea del Sud e Giappone potranno sopportare tutto questo ancora più a lungo”.
Ad oggi sono 11 i missili lanciati dall’irrefrenabile Kim, e visto l’ennesimo lancio di oggi, non sembra che le minacce di qualche “punizione” commerciale o di altro, gli abbiano mai fatto impressione.
In Giappone è scattato immediatamente il piano di emergenza nazionale
Il mondo sta a guardare impietrito quello che dovrebbe essere considerato un gioco da tavolo, solo che qui si le pedine sono esseri umani.

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"PASSAGGIO INNOCENTE" DI UNA NAVE DA GUERRA USA NEL MAR CINESE

DI IMMACOLATA LEONE
Ieri pomeriggio la nave da guerra americana, USS Stethem, ha transitato nel Mar della Cina, vicino all’isola del Tritone, piccolo atollo di un miglio quadrato, occupato dalla Cina nel 1974, ma rivendicato da sempre dal Vietnam e Taiwan.
Isoletta ricchissima di riserve energetiche e minerarie,che ospita un giro d’affari di cinquemila miliardi di dollari di traffici commerciali.
Non esattamente una barca a vela, il cacciatorpediniere USS Stethem è lungo 150 metri, con trecento persone a bordo ed equipaggiato da missili Tomahawk in grado di sfrecciare a ottocento chilometri l’ora, il cui sistema guida li mantiene sul bersaglio con l’ausilio di un radar-altimetro, grazie ad una traiettoria computerizzata.
La reazione di Pechino è stata immediata e durissima, il ministro degli esteri, Lu Kang, ha annunciato che saranno prese “tutte le misure necessarie per difendere la sovranità del Paese e la sua sicurezza. Operazioni del genere violano la sovranità della Cina e minacciano la sua sicurezza. Questa è una provocazione politica e militare. La Cina chiede all’America di fermarsi urgentemente” .
Gli Stati Uniti hanno fatto innocenti spallucce parlando di esercitazioni militari. Pare strano però che la nave militare si sia avvicinata proprio a 12 miglia nautiche precise al millimetro, proprio per segnalare la libertà di navigazione che gli Usa hanno sempre rivendicato.
Nulla è dato sapere, a noi comuni mortali, del contenuto della telefonata tra il presidente americano Donald Trump e quello cinese Xi Jiinping.
I bene informati parlano di un dialogo non proprio amichevole tra i due presidenti, dove Xi Jinping ha “invitato” Trump a non immischiarsi nella politica geo-cinese riguardante l’isola di Taiwan, riferendosi causticamente alla vendita di armi per un miliardo e 300 milioni a Taiwan.
E lo ha invitato a pensare piuttosto ad una risoluzione sul serio problema con la Corea del Nord.
Ma Trump, non soddisfatto della strategia “lenta” di Xi nei confronti della Corea del Nord, ha avviato deliberatamente tutta una serie di sanzioni verso le banche e personaggi affini al regime di Kim Young-un.
Anche per il leader giapponese, Shinzo Abe, il vero problema in questo momento è rappresentato dalla condotta squilibrata di Kim Young-un nei confronti di tutto il mondo con la sua minaccia nucleare.
Intanto nell’attesa del prossimo G20 , gli occhi di tutte le nazioni del mondo sono puntati non solo sul cacciatorpediniere, che passa di li per caso, ma anche all’incontro di Xi Jinping con Vladimir Putin.

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NEW YORK, EX MEDICO SPARA AL LEBANON HOSPITAL

DI IMMACOLATA LEONE

Un ex medico, identificato poi come Henry Bello, dottore afroamericano specializzato in medicina di famiglia, con indosso un camice e armato di un fucile d’assalto M16, è entrato nel Lebanon Hospital Center nel Bronx , ed ha aperto il fuoco a piu riprese e su diversi piani.
Ha ucciso una ex collega, un’altra donna forse anch’essa medico e ferito sei persone , di cui tre molto gravi, quasi tutti medici.
Immediato l’intervento della polizia che, isolato l’ospedale e messo in sicurezza le strade, ha fatto barricare i pazienti nelle loro stanze, e qualcuno ha perfino fatto la telecronaca tramite i social network.
Nel frattempo Henry Bello s è barricato in una stanza del 16mo piano e si è sparato accanto ad una delle due donne uccise.
Dalle prime dichiarazioni dell’FBI non c’è nessun collegamento con un attentato terroristico, ll killer era sotto inchiesta per molestie sessuali, considerato instabile si era dimesso dall’ospedale per non essere licenziato.
Il Lebanon Hospital è il pronto soccorso piu antico e trafficato ospedale di New York.

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DA BUON ECOLOGISTA, TRUMP RILANCIA IL CARBONE 

DI IMMACOLATA LEONE
Un’altra spallata al vecchio nemico Barack Obama, Trump l’ha data con i nuovi provvedimenti riguardanti l’energia.
Il segretario Rick Perry, ha illustrato ai giornalisti, il nuovo, ambizioso, piano di Trump, che spianerà la strada al nuovo dominio energetico made in USA.
Basta con il petrolio arabo, l’America ne ha a sufficienza per poterlo esportare, lo stesso dicasi per il carbone, il gas naturale, con particolare attenzione al nucleare e alle rinnovabili.
Secondo Perry, l’amministrazione Obama ha sempre boicottato qualunque iniziativa che potesse modernizzare l’attuale sistema energetico.
Adesso la musica è cambiata, Trump vuole incoraggiare i produttori di energia e, parimenti, i creatori di nuovi posti di lavoro.
Con il premier indiano Narendra Modi, in visita a Washington, Trump ha parlato anche dell’esportazione di gas naturale, e ha firmato anche un’ordinanza che espande le trivellazioni per il petrolio, in Antartide e nell’Oceano Atlantico, silurando la precedente ordinanza di Obama.
La vendetta è stata completa, con l’impegno formale di rilanciare l’industria nazionale del carbone, precedente bersaglio del suo predecessore che, da ecologista, voleva ridurre le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera. Secondo Trump, con i moderni sistemi di estrazione, le emissioni di anidride sono scomparse.
Se lo dice lui, siamo tutti più tranquilli.

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OK AL MUSLIN BAN CON MODIFICHE, PER ORA ENTRANO TUTTI

DI IMMACOLATA LEONE
Il Muslin ban, l’ordine esecutivo fortemente voluto dal presidente Donald Trump, che vieta l’ingresso, in territorio americano, a persone di origine musulmana tra cui Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria, Yemen, entrerà parzialmente in vigore.
Una decisione presa dai giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti, che lo vaglieranno definitamente ad Ottobre, dopo aver esaminato le sentenze di opposizione dei giudici federali dei vari Stati. Tra le più significative ricordiamo:
in Virginia la corte d’Appello del quarto distretto di Richmond, ha stabilito che il Muslim ban viola il primo emendamento della Costituzione americana che assicura parità di trattamento ai fedeli delle diverse religion;
a San Francisco, la Corte d’Appello, ha altrettanto concluso che il Muslin ban “esorbita i poteri costituzionali assegnati al presidente degli Stati Uniti”.
Ad ottobre, nel cerchio magico dei giudici, avrà voce in capitolo Neil Gorsuch, nominato dal presidente Trump, fortemente propenso al Muslan bun senza modifiche.
La Corte Suprema, nel nuovo Muslin ban, ha stabilito che il divieto si può applicare solo alle persone che non abbiano legami familiari o con una entità negli Usa.
Quindi, per usufruire dell’esenzione, chiunque dovrà dimostrare una relazione familiare con un parente residente negli Stati Uniti, oppure provare, con documentazione dettagliata, di lavorare presso una azienda.
Gli studenti ammessi alle università americane sono esentati dal bando.
Il provvedimento sarà operativo il 29 giugno, ed avrà la durata di 90 giorni, come da decreto appena approvato.
La paura, adesso, è che giovedì si possano verificare di nuovo momenti di confusione e di panico generale come è già successo il 27 gennaio, alla prima messa in esecuzione del Muslin Ban.
Un susseguirsi di situazioni senza precedenti, sia quando gli agenti di frontiera hanno cominciato ad impedire a decine e decine di persone di tutto il mondo di imbarcarsi sugli aerei diretti negli Stati Uniti, sia per i passeggeri, che al momento della firma dell’ordine, erano già in viaggio o si trovavano in un aeroporto statunitense.
Testimonianze di funzionari raccontano di aver lavorato senza direttive precise sulle nuove regole, e su come comportarsi nei confronti di chi aveva già un visto approvato.
L’esenzione dal divieto per possessori della green card è arrivata dopo due giorni che le persone erano state “fermate” all’aeroporto, nonostante avessero dimostrato di vivere e lavorare negli Stati Uniti.
In tutti gli aeroporti si sono verificate le medesime difficoltà, con momenti di tensione.
Migliaia di persone hanno protestato in tutti gli Stati Uniti, contro il Muslin ban equiparandolo ad una discriminazione religiosa.
Gli aeroporti si sono riempiti di avvocati, traduttori e organizzazioni di attivisti peri diritti umani, che hanno iniziato le prime pratiche legali contro il provvedimento.
E la prima sentenza è arrivata dal Tribunale di Brooklin, la sera del 29 gennaio, la giudice federale Ann Donnelly, in una udienza urgente, richiesta dall’American Civil Liberties Union, ascoltati gli avvocati di due siriani, i quali obiettavano che il governo li stava rispedendo con effetto immediato a casa loro senza sentire nessuna giustificazione, e con il rischio della loro incolumità al ritorno a Damasco, ha deciso di applicare la legge.
Ha trovato nel primo emendamento costituzionale la parte in cui si vieta al governo di promulgare leggi «che riconoscano ufficialmente una religione o ne proibiscano la libera professione”.
Quindi ha concluso che i due siriani e tutti coloro che si stavano trovando nella loro stessa situazione incresciosa, avevano «una forte probabilità di successo di provare davanti a una giuria il loro diritto a un giusto processo e che la stessa protezione di questo diritto è stata violata».
La giudice ha firmato l’ordinanza di emergenza con la quale temporaneamente, ha bloccato l’ordinanza di Trump, il Muslim Ban, ed ha impedito al governo degli Stati Uniti di espellere i rifugiati che provenivano dai sette paesi a maggioranza islamica.
Prima giudice donna diventata il simbolo di resistenza contro Trump e dei suoi “abusi di potere”.
Intanto il presidente Trump fa sapere che non ha tempo per commentare, e che ci sono situazioni molto più urgenti, come quella nordcoreana e quella siriana dove si sospetta che si stiano preparando nuovi attacchi chimici.

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AZIENDA GIAPPONESE IN BANCAROTTA PER AIRBAG DIFETTOSI

DI IMMACOLATA LEONE
L’azienda giapponese Takata , leader mondiale di airbag, fondata nel 1933, ha dichiarato fallimento dopo lo scandalo di dispositivi difettosi.
Alcuni airbag erano composti da meccanismi di gonfiaggio difettosi che espandendosi con troppa forza rilasciavano schegge di metallo, ed hanno causato 16 morti e diversi feriti.
Sommersa da numerose cause legali e da enormi richieste di risarcimento, l’azienda dopo aver dichiarato bancarotta, tramite il dimissionario presidente e amministratore delegato, Shigehisa Takata, si è scusata con i creditori dell’azienda: “Mi scuso dal profondo del mio cuore per aver causato problemi a tutti gli interessati”.
Il bilancio della Takata registra un passivo di un trilione di yen, circa 9 miliardi di dollari, un numero mai registrato nella storia delle società giapponesi.
Cancellata in borsa.
L’effetto domino conseguenziale è stato impressionante, la Nissan ha richiamato 52mila veicoli con airbag Takata, nello specifico i veicoli: Infiniti FX35 e FX45 dal 2003 al 2005, Infiniti I35 dal 2003 al 2004 e Infiniti M35 e M45 del 2006, Nissan Pathfinder del 2003 e del 2004 e Nissan Sentras dal 2004 al 2006.
Inoltre ha intenzione di informare tutti i proprietari che sostituirà gratuitamente il sistema di gonfiaggio degli air bag.
Decine di case automobilistiche hanno riscontrato gli stessi problemi.
L’Audi ha richiamato 850mila veicoli da tutto il mondo.
La Honda ha richiamato per la rettifica ben 5 milioni di vetture.
La Toyota circa 880mila.
La Bmw circa 627mila.
La Chrysler, la Mazda e la General Motors in misura minore.
Airbag Takata: il rischio previsto è l’esplosione dell’airbag, sia sul lato guida che sul lato del passeggero.
Se non ci fosse da piangere suonerebbe come un macabro spot pubblicitario.

Watchdogs, Hunting dogs, Seeing-eye dogs and hearing dogs are permitted into Saudi Arabia. cialis tablets Military uniforms or equipment, of any kind, related to the military.

VIOLATA LA PRIVACY PER 200 MILIONI DI AMERICANI

DI IMMACOLATA LEONE
Come nel film The Truman show, dove l’ignaro protagonista era spiato h24, così 200 milioni di ignari americani sono stati controllati e schedati.
Non si parla di decine di migliaia di persone, ma di ben 200 milioni, la bellezza del 62% della popolazione americana.
Per “distrazione” o per opera di qualche hacker, la Deep root analytics, società di marketing assunta dai repubblicani per le elezioni presidenziali del 2016, ha causato la diffusione accidentale on line dei dati personali e delle opinioni politiche di quasi 200 milioni di cittadini Usa.
Non solo dati personali anagrafici con annessi indirizzi, ma anche sulla religione di appartenenza, le idee politiche, opinioni personali sul porto d’armi e sull’utilizzo delle stesse, sull’aborto e su scelte mediche quali le cellule staminali.
Un lavoro infinito, preso dai vari social network ed ai comitati politici di appartenenza.
Dati personali, scoperti per caso, la settimana scorsa ,da un analista di rischi cibernetici Chris Vickery.
Il fondatore della Deep Root Analytics, Alex Lundry, in una nota ha dichiarato che l’azienda ha preso tutte le misure per prevenire un ulteriore accesso non autorizzato.
In verità, non stiamo parlando di una cosa proprio nuova, dal momento che i partiti hanno sempre raccolto dati sugli elettori, solo che stavolta è la più grande violazione di dati elettorali che gli Stati Uniti possano ricordare.

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ATTENTATO IN VIRGINIA, IN CONDIZIONI CRITICHE IL DEPUTATO SCALISE

DI IMMACOLATA LEONE
Ieri di primo mattino, su un campo da baseball di Alexandria, in Virginia, proprio vicino alla capitale federale, mentre alcuni parlamentari e impiegati del Grand Old Party, si stavano preparando per giocare la partita tradizionale annuale, contro i democratici , si è scatenato l’inferno.
Un uomo da dietro la recinzione metallica, ha prima chiesto informazioni sulla partita e poi, come se nulla fosse, ha imbracciato un fucile semiautomatico ed ha sparato all’impazzata sui giocatori.
Il primo ad essere colpito è stato Steve Scalise, coordinatore del gruppo repubblicano alla Camera , in stato di shok è stato immediatamente trasportato al MedStar Washington Hospital Center.
Il colpo di fucile l’ha raggiunto all’anca sinistra, che ha fratturato le ossa, ferito gli organi interni e provocato emorragie gravi.
E’ stato sottoposto immediatamente ad un intervento chirurgico, con trasfusioni di sangue.
Dal bollettino medico, delle ultime ore, Scalise versa ancora in condizioni critiche.
Steve Scalise, 51 anni, di origini italiane, sposato con due figli, rappresentante della Louisiana, è il majority whip alla Camera, numero tre del partito in ordine di importanza, dopo il presidente dell’Aula, Paul Ryan, e il leader della maggioranza, Kevin McCarthy. .
Ferite altre quattro persone, tra cui due agenti che hanno risposto immediatamente al fuoco uccidendo l’assalitore.
Donald Trump, proprio il giorno del suo compleanno, ha parlato immediatamente in diretta nazionale :”Grazie al coraggio dei poliziotti è stato evitato il massacro”.
L’attentatore è stato poi identificato come James Thomas Hodgkinson, 66enne di Belleville, Illinois, da una ricerca sul suo, profilo social è venuto fuori tutto il suo rancore politico contro Trump definendolo un “traditore” e descrivendo i repubblicani come “i talebani degli Stati Uniti”.
Era stato un fervente attivista durante la campagna elettorale di Bernie Sanders, il quale ha preso subito le distanze.

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GLI SVIZZERI DICONO NO AI GIOCHI OLIMPICI INVERNALI

DI PIERLUIGI PENNATI
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Nonostante le molte montagne, fino ad oggi ci sono state solo due edizioni dei Giochi Olimpici Invernali in Svizzera e sempre a St. Moritz, la prima volta nel 1928 e èpoi nel 1948. Sion ha presentato due volte la candidatura senza spuntarla ed a Losanna nel 1988 la popolazione Svizzera chiamata ad esprimersi sulla candidatura aveva detto NO con una maggioranza del 62% e nel 2013 la cosa si era ripetuta.
Ieri, durante una delle numerose giornate elettorali tipiche della democrazia diretta Svizzera anche il Cantone dei Grigioni ha rifiutato ancora l’ipotesi.
Nessuno scandalo, nessun imprenditore deluso e nessuna occasione mancata, come si era detto di Roma, i cittadini Svizzeri, a differenza degli italiani, scelgono direttamente ed hanno deciso che stanziare 25 milioni di Franchi per sostenere una candidatura non è un investimento utile.
Forse non sapremo mai se l’occasione è stata persa dalla città di Davos e St. Moritz o se, invece, si è trattato di un pericolo scampato, certo è che se il popolo, questo sì sovrano, di un cantone a vocazione alpina teme la bancarotta a causa dei giochi, facendoci pensare di dover seriamente riflettere sugli investimenti di casa nostra, anche perché non siamo mai noi a decidere di farli, ma qualche amministratore che decide “per il nostro bene”.
La percentuale di no è stata il 59,5% e solo un piccolo distretto, quello della Surselva, ha detto sì in maggioranza, Davos e St Moritz hanno detto no senza speranza.
A capitanare l’opposizione un “Comitato del No”, che ha sostenuto che per le Olimpiadi c’erano “troppi rischi”, legati a “costi per lo Stato Svizzero ed entrate per il Comitato Olimpico. Basta sprecare soldi”.
In questione, quindi, anche il Comitato Internazionale Olimpico del quale la deputata PS Silva Semadeni ha detto “Bisogna mettere il CIO di fronte a questa realtà; che solo le dittature sono pronte a fare quello che vuole e che per i Paesi democratici questo modo di organizzare i Giochi (i costi per lo Stato, le entrate per il CIO ndr) non va”.
“Con tutti questi soldi si potrebbero realizzare tanti altri progetti”, “dobbiamo puntare sul turismo di tutto l’anno”, ha aggiunto Nicolas Zogg, pensando ad “investire nelle regioni strutturalmente deboli, dimenticate dai Giochi olimpici”.
Addio giochi olimpici invernali per Davos, addio cantieri e nuove infrastrutture, addio stagione di gloria in cambio di maggiore stabilità, tutela delle minoranze e programmazione per il futuro, argomenti davvero seri di riflessione.

AFGHANISTAN ESCALATION DI VITTIME SENZA FINE

DI PIERLUIGI PENNATI
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Secondo quanto riportato oggi dall’ANSA, un rapporto UNAMA, la Missione delle Nazioni Unite di Assistenza all’Afghanistan, sostiene che nel 2016 il conflitto in corso in Afghanistan ha causato 11.418 vittime civili (3.498 morti e 7.920 feriti), con un incremento del 3% rispetto al 2015.
Il rapporto specifica  che lo scorso anno in Afghanistan è stato registrato “un complessivo deterioramento nella protezione dei civili” e che l’aumento complessivo di vittime è dovuto ad un calo delle morti del 2%, ma con un aumento dei feriti del 6%, concludendo che dal 2009, anno del primo rapporto statistico, il 2016 ha registrato il maggior numero di vittime frutto di operazioni aeree.
Nel 2014 il numero dei civili morti nel conflitto afghano aveva visto un aumento del 25% rispetto all’anno precedente che era stato a sua volta in aumento del 4% rispetto a prima, confermando un’escalation che non accenna fermarsi.
Anche se negli ultimi anni l’andamento degli incrementi ha una tendenza a diminuire, quando parliamo di queste cifre parliamo di vite umane civili perse in un conflitto che viene a sua volta definito “civile”, nato dopo la rivoluzione di Saur del 1978 tra il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan, Marxista-Leninista, ed il movimento guerrigliero dei mujaheddin, fedele ai principi tradizionali afghani ed islamici, e che da allora non si è mai fermato, vedendo, dopo il primo intervento russo del 1979, anche la partecipazione di molti paesi stranieri come gli Stati Uniti, il Pakistan, l’Iran, la Cina e l’Arabia Saudita.
Dagli attentati dell’11 settembre 2001 in poi, compiuti da al-Qāʿida, ed a seguito un nuovo più massiccio intervento americano che portò all’istituzione della nuova “Repubblica Islamica dell’Afghanistan”, si parla di “Guerra Civile”, dato che le residue forze talebane ancora oggi resistono in una lunga guerriglia e, secondo fonti ufficiali NATO, a fine dicembre 2016 “Almeno 13 gruppi terroristici internazionali sono presenti in Afghanistan”, aggiungendo che i talebani “Hanno già cominciato a preparare la loro offensiva di primavera”.
Ma mentre sul confine afgano sembrano essere stipati molti gruppi Jihadisti, 20 su 98 classificati come attivi nel mondo, L’ONU denuncia che almeno un terzo popolazione è oggi senza aiuti, si tratta di circa 9,3 milioni di persone che avrà bisogno nell’anno di assistenza umanitaria.
Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento dell’aiuto umanitario (OCHA) le persone che hanno bisogno di aiuto sono in aumento del 13% “per l’estensione del conflitto”.
Nel frattempo in giro per il mondo costruiamo muri.

IL MURO INVISIBILE DI MARINE LE PEN

DI PIERLUIGI PENNATI
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Marine Le Pen è già in piena campagna elettorale, difende Trump, modifica le proprie posizioni sulla pena di morte e vuole costruire una barriera finanziaria come deterrente per l’immigrazione in Francia.
Secondo la Le Pen chi critica il decreto di Donald Tump, che bandisce l’ingresso negli Stati Uniti dei cittadini di sette Paesi musulmani, è in “malafede” ed alla CNN che l’intervista risponde:  “E’ una misura temporanea. Riguarda sei o sette Paesi, Paesi che certamente sono responsabili di minacce terroristiche”.
Nella trasmissione “Questions d’Info” di ieri, la candidata dell’estrema destra che in passato si era dichiarata favorevole “a titolo personale” alla pena capitale, modera la propria posizione e dichiara “Nel mio programma è previsto l’ergastolo”.
Sul programma per le presidenziali, che sarà presentato nel dettaglio sabato a Lione, ha specificato: “Mi impegno presso i francesi a mettere in atto l’ergastolo ma creo il referendum di iniziativa popolare. Con 500.000 firme i francesi possono esprimersi su qualunque argomento, allargherò il possibile campo d’azione del referendum”.
Ma la vera chicca programmatica è costituita da una sorta di muro virtuale che Marine Le Pen vorrebbe introdurre in Francia per contenere l’immigrazione e finanziare le casse dello stato: un dazio sugli stranieri.
Intervistata questa volta da “Le Monde”, la leader del FN spiega di vedere una priorità nazionale nell’occupazione e nell’aiuto di 80 euro al mese per le fasce più deboli, per far fronte a questo spiega di voler “applicare la priorità nazionale all’occupazione attraverso una tassa addizionale su qualsiasi nuovo contratto fatto a dipendenti stranieri. Il ricavo sarà versato nelle casse per il sussidio ai disoccupati”.
In questo modo “un certo numero di persone vorrà ripartire perché la Francia smetterà di incitare all’immigrazione. E per il resto, si farà in modo che le persone che accettiamo rispondano ad alcuni criteri e non pesino sulle finanze pubbliche”.
Una barriera fatta di tasse e requisiti, un marchio DOC per i lavoratori francesi che verrebbero favoriti economicamente rispetto ai loro colleghi stranieri, un muro fatto di difficoltà a sopravvivere e discriminazione razziale al posto di uno in muratura, ma pur sempre un muro.
“La base di tutto questo – afferma la Le Pena – è il patriottismo, ogni misura adottata e ogni euro speso deve difendere l’interesse dei francesi. In particolare consacrandosi a risolvere il problema del potere d’acquisto.”
Il primo etereo mattone è posato, le elezioni presidenziali di aprile diranno se la sua costruzione in Francia potrà continuare o meno.

UN ATTENTATORE QUASI “NORMALE”

DI PIERLUIGI PENNATI
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Si chiama Alexandre Bissonnette, ha 27 anni, studia scienze politiche all’Università di Laval, apprezza Trump, Marine Le Pen, le forze israeliane ed è apparentemente figlio dell’odio razziale contro il diverso, alimentato dai media e dai populisti.
Un ragazzo quasi normale, che però prendeva informazioni sul terrorismo jihadista finendo per diventare un esperto di attentati islamici e che non lesinava pareri e commenti sul suo profilo FaceBook.
La polizia canadese lo ha arrestato perché è il presunto attentatore della moschea di Quebec City, mentre ha rilasciato l’altro fermato, Mohamed Khadir, 20 anni dI origini marocchine, che, invece, è stato solo sentito e classificato come testimone dell’attacco.
Bissonette, che non era noto alle forze dell’ordine, è stato fermato poco dopo la sparatoria e verificato il suo profilo: vive a Quebec City, nell’area di Cap-Rouge, e studia proprio vicino alla moschea, nella più antica università in lingua francese del Nord America, con circa 42 mila studenti.
L’attenzione delle prime ore, però, era caduta maggiormente sul marocchino, del quale i media locali avevano inizialmente scritto che dopo l’assalto alla moschea aveva chiamato la polizia per arrendersi perché pentito. Nella sua auto gli investigatori hanno trovato un’arma e la macchina è stata bonificata dagli artificieri per timore di una trappola.
L’errore è stato forse indotto dal fatto che i testimoni avevano detto che durante l’assalto due aggressori vestiti di nero avevano gridato “Allah Akbar“, ma questa volta non si trattava di un grido di aggressione, ma di speranza dei fedeli.
Il movente dell’attentato non è ancora dichiarato, ma a questo punto sembra certo trattarsi di un episodio di intolleranza. In attesa di sviluppi i profili e le pagine personali sui social network di entrambi i fermati sono state bloccate dagli inquirenti.

I SOCIALISTI FRANCESI SCELGONO IL CANDIDATO PERDENTE

DI PIERLUIGI PENNATI
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“Partita finisce quando arbitro fischia”. È al celebre aforisma di Vujadin Boškov che devono essersi ispirati i quasi due milioni di francesi che ieri hanno votato per il ballottaggio alle primarie della sinistra, preferendo, con oltre un milione di suffragi, il candidato Benoît Hamon al primo ministro uscente Manuel Valls e designando così il candidato socialista alle prossime elezioni presidenziali di aprile.
La corsa all’Eliseo, però, si annuncia difficile: secondo l’ultimo sondaggio dell’istituto francese IPSOS Sopra Steria, al primo turno di elezioni Marine LE PEN potrebbe arrivare al 25%, François FILLON al 23%, Emmanuel MACRON al 17%, Jean-Luc MÉLENCHON al 14% e Benoît HAMON solo al 7%, seguito da François BAYROU al 5%, Nicolas DUPONT-AIGNAN e Yannick JADOT al 2,5%, per finire con Nathalie ARTHAUD e Philippe POUTOU all’ 1%, mentre Jacques CHEMINADE con un risultato inferiore allo 0,5 % non è considerato.
Secondo lo studio, il candidato della sinistra non andrebbe comunque oltre il quinto posto e non avrebbe possibilità di arrivare al ballottaggio finale, ma per citare ancora Boškov “chi non tira in porta non segna”, ed ai socialisti francesi non restava altra prospettiva che scegliere il candidato migliore e, sempre secondo IPSOS Sopra Steria, tra Valls ed Hamon vi era una seppur lieve differenza che porterebbe il voto dei francesi dal 6/7% del secondo al 9/10% del primo, quindi la scelta migliore sarebbe stata all’opposto.
In ogni caso per Hamon, non c’è tempo per esultare, il lavoro per convincere l’elettorato francese a votarlo non sarà semplice, soprattutto non sarà facile sedare l’ondata populista che sta vedendo la Le Pen favorita su Fillon, con i due che dovrebbero essere i veri protagonisti della delicata campagna elettorale che vedrà al suo termine in gioco il futuro dell’Eurozona alle elezioni europee di quest’anno, nelle quali la Francia è una delle protagoniste indiscusse.
Per lo scontro Fillon – Le Pen, IPSOS aveva inizialmente previsto la vittoria del primo, oggi ribalta leggermente i pronostici, ma dopo l’insediamento di Trump e l’inasprirsi delle polemiche populiste in campo internazionale, nel momento del voto reale per il loro presidente, i francesi potrebbero avere un istinto alla prudenza e ribaltare la situazione e quindi anche il candidato socialista, che oggi sembra perdente, potrebbe tentare il recupero.
“Elezioni vince chi prende più voti”, buon lavoro Benoît Hamon.

 

UN MURO DA ABBATTERE? PEÑA NIETO CANCELLA L’INCONTRO CON TRUMP

DI PIERLUIGI PENNATI
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Era stato per primo Trump a suggerire al presidente messicano Peña Nieto di annullare il viaggio previsto a Washington per la prossima settimana, ieri sera la decisione: “Esta mañana hemos informado a la Casa Blanca que no asistiré a la reunión de trabajo programada para el próximo martes con el @POTUS.”
Il dialogo a distanza era nato a causa della divergenza di idee sul muro che Trump andrà a completare, “If Mexico is unwilling to pay for the badly needed wall, then it would be better to cancel the upcoming meeting” (Se il Messico non è disposto a pagare per il muro di cui c’è disperato bisogno, allora sarebbe meglio cancellare l’incontro), aveva scritto Trump ed a bordo dell’Air Force One il suo portavoce, Sean Spicer, aveva dichiarato ai giornalisti che la Casa Bianca avrebbe cercato comunque “una data futura per fissare qualcosa” e che sarebbero state mantenute “aperte le linee di comunicazione” con il Messico.
L’incontro era previsto per martedì, ma dopo la firma di Trump sotto il decreto per la continuazione del muro lungo il confine con il Messico, Enrique Peña Nieto aveva subito affermato che il suo stato non avrebbe contribuito finanziariamente alla sua realizzazione, provocando la replica di Trump.
Il professor Michael Dear, docente alla California University di Berkeley, che da anni studia le relazioni tra sviluppo urbano, aspetti socio-economici e geografici al confine tra Stati Uniti e Messico, aveva già dichiarato che “il muro non ferma i traffici”, “i dati dimostrano che le barriere non aumentano la sicurezza tra USA e Messico” ed ancora “invece di costruire più muri, dovremmo creare maggiori connessioni. Sarebbero importanti per i nostri scambi commerciali ma anche per la nostra sicurezza”.
Ma il muro alla frontiera meridionale era una delle promesse elettorali che avevano  portato voti a Donald Trump che, diventato presidente, ne ha immediatamente approvato la costruzione con un ordine esecutivo, anche se i fondi non sono ancora stati approvati dal Congresso, e questo, secondo il professor Dear, non risolverà i problemi di sicurezza.
Nel suo libro intitolato “Perché i muri non funzionano” il professore spiega la sua teoria, basata su osservazioni reali del muro che già esiste tra i due stati, costruito negli ultimi 10 anni e lungo quasi mille chilometri. Secondo i dati raccolti “questo muro ha avuto un impatto nullo o comunque è stato minimo”, perché attraverso quel confine non passano solo quelli che negli Stati Uniti cercano lavoro, ma esiste un fiorente traffico di esseri umani, armi, droga, oltre a scambi legali commerciali “per oltre 1,4 miliardi di dollari ogni giorno”, facendo registrare proprio a cavallo del confine la più rapida crescita economica su entrambi i lati della frontiera.
Inoltre “il muro ha reso finora più facile l’attività dei cartelli messicani della droga. I narco-trafficanti conoscono quali punti di ingresso usare e il tipo di controlli effettuati dalla polizia di confine” ed i 3000 chilometri di confine col Messico che il presidente Trump vorrebbe sigillare sono per lo più in zone desertiche, mentre a ridosso del confine ci sono anche grandi città, che in alcuni casi sono proprio a cavallo della frontiera, come in California, Arizona, Texas, etc.
Alcune città-gemelle tra Stati Uniti e Messico, come San Diego, Tijuana, El Paso e Ciudad Juarez, costituiscono una sola comunità che non tiene conto della frontiera che le separa e secondo il professore “Invece di costruire più muri, dovremmo creare maggiori connessioni. Sarebbero importanti per i nostri scambi commerciali ma anche per la nostra sicurezza”.
Nel 2013, con una lettera aperta pubblicata da New York Times, il professor Michael Dear già aveva chiesto all’allora presidente Barack Obama di eliminare le barriere esistenti tra i due paesi, dopo il passaggio di consegne la richiesta resta valida, sebbene le speranze che l’amministrazione Trump decida di valutare metodi alternativi di controllo delle frontiere al momento sembrano davvero scarse.

PER FORTUNA HA VINTO TRUMP

DI PIERLUIGI PENNATI
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Chi pensa che Trump mi possa piacere si sbaglia di grosso, però devo ammettere che nemmeno la Clinton mi faceva impazzire e tra i due, alla fine, il meno peggio a me è sembrato fin dall’inizio proprio Trump.
Perché? Semplice, è un populista di destra riconosciuto e queste sono due garanzie non da poco.
Mi spiego meglio, da mio punto di osservazione mi è sembrato di capire che la destra non ha mai avuto vita di governo facile in nessun stato democratico e solo quando si trasforma in dittatura è in grado di nuocere, altrimenti gli attivisti di sinistra, che sono sempre più numerosi ed attivi di quelli di destra, gli impediscono, o quasi, qualsiasi attività che sia contraria al benessere della nazione e del popolo.
Al contrario la sinistra, che non gode di questa opposizione decisa, si prende più spesso delle libertà.
Un esempio su tutti potrebbe venire dall’impegno politico e di governo di Silvio Berlusconi che, dichiaratosi di centro destra, ad ogni sua affermazione provocava, ed in fondo ancora oggi provoca, sollevazioni popolari, così che la maggior parte dei suoi provvedimenti non sono mai riusciti a toccare davvero profondamente i diritti fondamentali degli italiani, pensioni, retribuzioni e precarietà davanti a tutti, che semmai sono leggermente lievitati “quando c’era lui” e che sono stati, invece, ripetutamente e duramente colpiti durante i governi “tecnici” o di centro sinistra, pensioni, retribuzione e precarietà davanti a tutti.
Così, senza analizzare a fondo il fenomeno, se oggi ringraziamo genericamente Renzi, Monti e Fornero per i tagli economici ed il precariato, non facciamo altrettanto con Berlusconi per le pensioni minime innalzate e l’incremento, seppur minimo, del welfare da lui realizzato.
A questo punto dovrei dire che mi piace Berlusconi: ma nemmeno per sogno!
Dico, però, che se ho di fronte un avversario che riconosco come tale lo tengo sotto controllo e lo pedino passo passo, mentre se ho al governo un “amico” mi distraggo facilmente, così l’amico può danneggiarmi, se vuole, più del nemico.
Inoltre se critico la destra, tutti penseranno che è perché ricorda in qualche modo il fascismo, ma se critico la sinistra con gli stessi argomenti il fascista lo divento io, eppure ho fatto la stesse critiche ma evidentemente è l’obiettivo a determinare la posizione e non l’oratore.
Così l’America Federale moderna tra la moglie di colui che ha costruito il muro al confine con il Messico e portato avanti una politica economica a favore delle grandi lobby economiche e di potere e l’industriale che si è fatto da sé, simbolo da sempre del “sogno americano”, che dà lavoro a moltissime persone e non ha necessità di arricchire ancora ha scelto il secondo, forse anche nella speranza che possa liberarla dalla morsa delle banche e del potere fittizio che oggi la attanaglia.
Bene, quindi, che vi sia un’opposizione forte in quello stato, bene che vi sia un presidente da osteggiare e bene che vi sia un sistema democratico a garanzia, altrimenti gli USA ed il mondo continuerebbero la loro corsa scellerata verso il nulla speculativo e la povertà globale.
Francamente non credo che Trump sarà in grado di relegare tutte le donne a fare la calza o stiparle in postriboli, così come non potrà chiudere le frontiere e non riuscirà ad imporre alcuna dittatura interna o dichiarare guerra a qualche stato, solo od al fianco di altre potenze mondiali, al contrario, proprio perché sarà costantemente sotto osservazione, Trump rischia di essere il miglior presidente degli Stati Uniti degli ultimi anni, anche se non ci è tanto simpatico.
L’insediamento ha già promesso bene, evidenziando le prime contraddizioni, il concerto disertato dai grandi nomi ed un discorso di insediamento apparso a tutti ancora da campagna elettorale, con quel “Make America Great Again”, abbreviato alle volte in MAGA, ripetuto fino alla fine.
Quella di non mollare mai deve essere una mania dei miliardari, anche il Silvio nazionale durante il suo governo continuava a rimarcare i successi e le prospettive, confermando che l’imprenditoria e la politica hanno spesso attitudini opposte, una tende a svilupparsi senza fine, l’altra a fermarsi ai risultati ottenuti.
Solo il tempo ci dirà come andrà a finire, ma se questi sono i presupposti forse non faremmo così male a dire anche noi: benvenuto presidente Trump!

VOLO MALAYSIAN MH370: GLI INVESTIGATORI SI ARRENDONO

DI PIERLUIGI PENNATI
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Circa 150 milioni di dollari spesi  e tre anni di ricerche infruttuose da parte di tre stati, Malaysia, Cina ed ed Australia (la più vicina al punto delle ricerche) che hanno ammesso questa mattina la loro sconfitta attraverso un comunicato dell’agenzia che ha coordinato la task force e che ha perlustrato senza alcun risultato oltre 120.000 chilometri quadrati di oceano.
La Cina fu la più colpita, con oltre 150 passeggeri scomparsi sul totale di 239 persone a bordo, i parenti dei quali si dichiarano oggi disperati, ma il testo diramato dall’agenzia non lascia speranze: «La decisione di sospendere le ricerche subacquee non è stata presa alla leggera, né senza tristezza».
Nel marzo del 2014, il Ministro dei Trasporti Malese, Hishammuddin Hussein, aveva già dichiarato in conferenza stampa che il volo MH370 era “svanito”, aggiungendo “Non vi è alcuna reale precedente situazione come questa”.
Ma la definitiva rinuncia alle ricerche fa diventare il caso della sparizione anche il più grande mistero mai risolto della storia dell’aviazione, nonostante le promesse ripetute negli anni dai politici dei Paesi coinvolti.
L’investigazione era iniziata cercando di calcolare l’area più probabile del disastro, poi la ricerca fallita delle scatole nere ed alla fine l’estensione dell’area di ricerca sulla base di sempre nuove analisi dei dati disponibili.
L’unica certezza che rimane è che il Boeing sia precipitato nell’Oceano Indiano, alcuni detriti ad esso attribuiti sono arrivati fino all’isola di Reunion, migliaia di chilometri distante dall’area di ricerca ad est del Madagascar, e più di venti altri piccoli resti compatibili con l’MH 370 ritrovati in altre spiagge.
Le ricerche sospese lasciano aperto un nuovo interrogativo arrivato solo poche settimane fa da altri analisti australiani secondo i quali il punto dell’impatto nell’oceano potrebbe essere più a nord.
Ma il denaro stanziato è terminato insieme all’interesse dei governi, anche se il Ministro dei Trasporti Australiano Darren Chester ha dichiarato che i costi non sono stati un fattore importante per la sospensione delle ricerche e che ogni decisione per continuare gli sforzi sottomarini resta principalmente nella responsabilità del governo Malese che, dal canto suo, dice di considerare il fermo delle indagini un’umiliazione, ma che la totale inutilità delle ricerche ha fatto prendere la decisione definitiva.
L’area perlustrata passando al setaccio fondali fino a 6 mila metri ed in condizioni atmosferiche con onde alte fino 20 metri è ampia come quasi la metà della nostra penisola.
Le polemiche con i parenti delle vittime avevano persino anche incrinato i rapporti tra Malesia e Cina ed oggi, alla notizia della cessazione delle ricerche, la reazione non è stata ancora una volta tenera: la figlia di una vittima ha detto che «Non è una situazione accettabile. Come si può permettere che accada una cosa del genere e lasciarla insoluta?» e Voice 370, un gruppo nato per il sostegno ai parenti, ha affermato in un comunicato che «fermare le ricerche a questo punto è a dir poco irresponsabile».
Nessuna sicura ipotesi anche per i motivi del disastro, gli investigatori avevano accertato che l’aereo aveva eseguito una virata volontaria verso sud-ovest, precipitando poi a causa del carburante esaurito dopo sette ore di volo, quindi restano aperte tutte le ipotesi, dal suicidio di almeno uno dei piloti a quella del dirottamento che, come per il luogo dove si trova l’aereo, rimarranno per ora avvolte nel mistero.

LA BREXIT RISCHIA DI RIACCENDERE IL CONFLITTO IN IRLANDA DEL NORD

DI PIERLUIGI PENNATI
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La situazione è calda in Irlanda del Nord, le dimissioni del primo ministro irlandese, il repubblicano cattolico Martin McGuinnes, hanno automaticamente provocato la caduta anche della prima ministra unionista protestante Arlene Foster, poiché in base all’accordo di pace fra protestanti e cattolici le due comunità devono governare assieme spartendosi contemporaneamente i poteri.
L’accusa è ufficialmente di conflitto di interessi in un affare legato alla gestione sbagliata di un programma di incentivi a fonti di energia rinnovabili, ma nella realtà come si è potuto giungere ad una così profonda crisi dopo tanti anni di stabilità politica sembra essere dovuto ai contrasti sempre più profondi ed incolmabili tra unionisti e repubblicani seguiti al voto sull’Unione Europea che ha diviso le due comunità: i protestanti sono convinti di voler uscire dall’Europa, mentre i nazionalisti cattolici vorrebbero fare di tutto per restarvi.
Oggi la premier Inglese Theresa May esporrà il piano di Londra per affrontare la Brexit, un piano in 12 punti che secondo le indiscrezioni porterà al divorzio netto da Bruxelles e dal mercato unico europeo. L’attesa per il suo intervento è alta anche in Irlanda del nord e comunque si risolverà la crisi sarà davvero difficile ricucire la spaccatura nonostante le elezioni anticipate al 2 marzo decise dal governo centrale di londra.
Mentre unionisti e repubblicani litigano potrebbe aumentare il pericolo delle frange estremiste, dato che le ferite lasciate da trent’anni di guerra settaria non si sono ancora del tutto rimarginate ed i fanatici da ambo le parti potrebbero tornare attivi e riprendere a colpire in un’Irlanda del nord ancora molto fragile.

ALLE IMPRESE SVIZZERE PIACE LA DEMOCRAZIA

DI PIERLUIGI PENNATI
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Gli esempi di democrazia diretta nelle imprese non mancano certo nel mondo ed in Germania, lo stato già definito come “la locomotiva d’Europa”, questo si chiama “cogestione”, fornisce stabilità all’impiego ed avviene addirittura per legge, mentre da noi passa nel silenzio generale degli economisti italiani al governo che invece tendono a ridurre i diritti dei lavoratori e la loro stabilità.
Tutti sanno bene che la Germania è passata indenne, o quasi, anche alla riunificazione a seguito della quale è stato cambiato il Marco Tedesco dell’est, che non valeva la carta su cui era stampato, alla pari con quello dell’Ovest, da sempre tradizionalmente forte, eppure in questo paese così economicamente solito i lavoratori non sono hanno più diritti, ma le rappresentanze sindacali hanno persino un potere significativo nella gestione dell’azienda, anche se la giurisprudenza in materia di cogestione prevede il diritto di sola informazione, consultazione diretta e rappresentanza dei lavoratori nei processi decisionali, indicando precisamente quali siano gli ambiti decisionali per i quali i lavoratori devono essere informati, devono dare un’approvazione mediante votazione e quelli per i quali operano i loro rappresentanti.
Anche nella fredda e pragmatica Svezia, i lavoratori eleggono due o tre rappresentanti nel Comitato Esecutivo, ed hanno eventualmente altri referenti nell’audit aziendale, in Svizzera, invece, ultimamente c’è persino chi rivendica la democrazia diretta anche  sul posto di lavoro.
La Svizzera che tutti conoscono meglio per essere stata, ed in parte ancora esserlo, un paradiso fiscale, patria del formaggio e degli orologi, viene sperimentato da anni un modello di gestione aziendale per il quale i dipendenti possono nominare i loro superiori e se non sono contenti del loro operato, sfiduciarli.
Il tutto non in un’azienda famigliare, ma in una società che sviluppa software con più di 200 dipendenti nel Cantone San Gallo.
I titolari della società Umantis, dichiarano che il loro obiettivo è quello di migliorare l’ambiente lavorativo ma anche la produttività, per questo i loro dipendenti non si limitano ad eseguire gli ordini impartiti dai superiori ma vengono anche coinvolti in modo attivo in tutte le decisioni centrali per l’azienda.
Alla microfoni di Radio Svizzera Italiana il co-fondatore e presidente del consiglio di amministrazione di Umantis, Hermann Arnold, racconta che quattro anni fa aveva deciso di lasciare la direzione dell’azienda a favore del suo vice, “gli ho detto ti vedrei bene come mio successore, entrambi abbiamo però anche ritenuto che questo cambiamento doveva essere approvato dai collaboratori ai quali avrei potuto dire ‘ecco mi dimetto e questo è il vostro nuovo direttore’ ma non ci sembrava giusto ed abbiamo voluto sentire il parere del personale” e così, per la prima volta nel 2013, i dipendenti di Umantis hanno potuto designare il loro nuovo direttore. Da allora la nomina si ripete ogni anno e la prossima si terrà a fine mese.
Ma i dipendenti di Umantis non scelgono solo i membri della direzione, ma anche i responsabili delle varie divisioni e sono già capitate mancate riconferme: “anche per i dipendenti a volte non è facile togliere la fiducia ad un capo che si apprezza come persona ma che si ritiene non sia al posto giusto”, racconta Cornelia Huber del reparto vendite, aggiungendo che chi non viene rieletto solitamente rientra nel suo vecchio team.
Inoltre il personale,  fin dalla nascita dell’azienda avvenuta nel 2000, si esprime anche sulle nuove assunzioni, Arnold ha sempre sottoposto le decisioni strategiche agli impiegati ed afferma: “nel 2007/2008 anche noi siamo stati travolti dalla crisi e siamo stati costretti a risparmiare abbiamo proposto di ridurre lo stipendio dei membri della direzione del 20% e del 10% per tutti gli altri c’è stata una votazione e tutti hanno detto si”.
Il manager è un grande ammiratore della democrazia diretta elvetica e sostiene che strutture meno verticistiche e più democratiche rafforzano la motivazione e migliorano l’ambiente di lavoro e per questo ha recentemente deciso di estendere ulteriormente i diritti dei dipendenti introducendo in azienda il diritto di iniziativa e di referendum. “C’è ancora tanto da imparare e da fare, il mio obiettivo è quello di mettere a punto un modello di gestione aziendale che permette di creare un buon clima di lavoro per spronare tutti quanti a dare il meglio di se”.
Ma non sono solo rose e fiori, secondo il manager i dipendenti non hanno solo più diritti ma anche più responsabilità, “tentiamo di distribuire in modo equo i frutti del nostro lavoro, ma pretendiamo anche di più dai collaboratori visto che vengono coinvolti nel processo decisionale se c’è qualcosa che non funziona non possono semplicemente lamentarsi ed addossare tutte le colpe ai superiori il concetto piace ai dipendenti ciò che si ripercuote anche sull’andamento degli affari di Umantis nel 2000 quando è stata fondata l’azienda contava 4 collaboratori, oggi sono più di 200.”
Che dire, se la democrazia in azienda vale più della dittatura, forse varrebbe la pena di fare qualche riflessione anche nel nostro paese.

TRUMP: INFANGANDO GLI ALTRI SI SEMBRA PIÙ PULITI

DI PIERLUIGI PENNATI
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Sembra essere questa la strategia di insediamento del neoeletto presidente Trump, allontanare dall’America l’attenzione: in fondo se gli altri sono sporchi anche i nostri problemi sembreranno macchioline.
Così parlando con i quotidiani Bild (Germania) e Times (Inghilterra), attacca l’Europa, ed Angela Merkel in particolare, dicendo di lei «la rispetto e mi piace, ma credo che abbia fatto un errore catastrofico, lasciando entrare nel paese tutti questi illegali, nessuno sa da dove vengono, e lo scoprirete», e considerando l’Europa «un mezzo per raggiungere i fini della Germania», ha elogiato la Brexit, sostenendo che i Britannici sono stati pronti a reagire alla situazione ed anche la NATO non è stata risparmiata e definita «obsoleta».
Il segretario di Stato uscente John Kerry, però, ha difeso la Merkel definendo «coraggiose» le sue scelte sui profughi e preso le distanze da Trump definendo «inopportune» le sue parole.
Anche le risposte europee non si sono fatte attendere, senza però cadere troppo nella provocazione, Merkel risponde senza esitazione che «noi europei siamo padroni del nostro destino» e senza perdere la calma afferma anche che «quando Trump sarà in carica vedremo come potremo collaborare», nel frattempo dice di pensare «che noi europei abbiamo il nostro destino nelle nostre mani» e di continuare ad impegnarsi «affinché i 27 Stati membri collaborino in modo intenso e soprattutto rivolto al futuro».
La cancelliera aggiunge anche di voler aspettare l’insediamento del presidente americano per poter cooperare con la nuova amministrazione e vedere «che tipo di intese possiamo raggiungere», per Merkel la lotta al terrorismo è «una sfida globale», ma da tener nettamente separata dalla questione dei rifugiati.
Sulla NATO, Martin Schaefer, portavoce del ministero degli Esteri tedesco, ha detto in conferenza stampa che non è obsoleta ma un’istituzione «di grande significato per l’Europa e per tutti», mentre sul «dominio tedesco in Europa» di cui parla Trump ha voluto sottolineare che «l’Ue non è mai stata per la Germania uno strumento per raggiungere degli scopi, ma il destino di una comunità, rispetto al quale ci riconosciamo oggi più che mai».
Anche il presidente francese Hollande ha detto la sua e risposto che «l’Europa sarà sempre pronta a proseguire la cooperazione transatlantica ma questa si determinerà in funzione dei suoi interessi e dei suoi valori. Non ha bisogno di consigli dall’esterno che le dicano cosa fare».
Anche la Nato non tace, la portavoce Oana Lungescu afferma che «l’Alleanza è completamente fiduciosa sul fatto che la nuova amministrazione americana resti impegnata nella Nato», forte delle parole del segretario generale Jens Stoltenberg, che il 6 dicembre scorso ha dichiarato fiducia assoluta e garantita da un colloquio avuto con Trump poco dopo l’elezione, che «gli Stati Uniti vogliano conservare il loro impegno forte nella Nato, nei legami transatlantici e le garanzie di sicurezza per l’Europa».
È favorevole, invece, il parere di Dmitri Peskov, portavoce di Putin, che si è dichiarato d’accordo con Trump nel definire la Nato «una reliquia che difficilmente può essere definita moderna e in linea con le idee di stabilità e sicurezza», in quanto a sua parere avrebbe «come obiettivo sistemico lo scontro» ed affermato che non è attualmente in corso nessun negoziato sul disarmo nucleare.
Trump non sembra voler aspettare ad ingranare le marce alte e date le responsabilità che avrà da presidente americano speriamo che la sua partenza non sia subito “col botto”.

LA RIVOLUZIONE NON FINISCE CON FIDEL

DI PIERLUIGI PENNATI
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Siamo al dopo, ormai nessuno se lo aspettava più: Fidel Castro era un mortale e come tale ha tenuto fede al suo destino. In fondo la vita è l’unica malattia che porta con certezza alla morte e così è stato.
Si dice che nella storia uno solo sia tornato, unendosi poi al padre celeste, ma sappiamo che moltissimi sono rimasti tra noi, con le loro idee, le opere o soltanto l’esempio.
In perfetta linea con la filosofia del Foscolo sarà tumulato in un luogo fisico, ma il suo sepolcro è già, e sarà per sempre, la trasmissione del patrimonio umano che ha generato e che lo colloca a pieno titolo tra i più grandi eroi della Storia.
Al termine di un lungo percorso terreno, Fidel Castro lascia un’eredità davvero pesante e che, forse, nessun altro potrà raccogliere, né il fratello Raul, né i suoi tanti seguaci. Il Castro che tutti conosciamo era differente da qualsiasi altro uomo, non un vero dittatore ma, che piaccia o meno, un reggente fermo con in mente una sola passione, il suo popolo.
Un padre idealista e forse troppo severo, ma alla fine, io credo, un buon padre per tutti i cubani e non solo per i suoi dieci figli, al punto che, fatta eccezione per Raul, la sua famiglia genetica è quasi sconosciuta ai più.
La morte di Castro accende al contempo miriadi di attese, speranze e dubbi: come sarà la situazione politica dell’isola in futuro? Resterà tutto immutato o, addirittura, Cuba potrebbe persino tornare quella che era prima della rivoluzione a causa di un mondo che nel frattempo si è globalizzato e dipende quasi esclusivamente dall’economia di larga scala?
Castro era cuore ed anima della sua nazione, Castro era Cuba stessa, tanto che tutti, persino noi, lo chiamavamo con il nome di battesimo, Fidel.
Lui era l’ultimo baluardo rivoluzionario delle sue stesse idee, che in ogni caso hanno consentito ad un popolo intero di sopravvivere e persino di eccellere in molte discipline. Arte, medicina e scienze a Cuba sono al massimo dell’espressione umana possibile al netto delle difficoltà economiche, naturalmente, il massimo, ma non i miracoli, impediti da un embargo devastante della maggioranza del resto del mondo.
Oggi è già domani, Cuba è gravida di cultura ed il popolo cubano è eccezionale e pieno di vitalità, se il dopo Fidel sarà ben gestito i popoli di tutto il mondo dovranno temerne la concorrenza, ma anche gioirne per l’apporto formidabile che potrà portare, altrimenti sarà la sua stessa catastrofe.
Alla camera ardente di Fidel si stanno avvicendando migliaia di persone, alla fine, forse, sanno milioni, sinceramente affrante, ipocriti, curiosi e persino narcisisti che potranno dire “io c’ero”, magari con un macabro con un selfie davanti alla bara di un gigante della storia.
Quello che impressiona di più, però, è il saluto affettuoso degli studenti, giovani che non hanno aspettato di potersi mettere in fila e che fin dal principio si sono riuniti davanti alle scuole per manifestare il loro sincero cordoglio.
Può accadere che chi ha vissuto prima della rivoluzione od anche solo nel ricordo dei suoi genitori possa scapparvi, ma chi vi è nato, come i giovani di oggi, testimoniano che quel regime di oppressione condannato da molta parte del mondo è largamente accettato dalle nuove generazioni, senza rassegnazione, per lo più con convinzione e non si dica che hanno tutti, ma proprio tutti, ricevuto il lavaggio del cervello e non possono capire.
Gli studenti di Cuba sono vivaci ed intelligenti e la scuola cubana insegna loro libertà e pluralismo, al contrario della nostra scuola che insegna economia e competizione, eppure noi facciamo le guerre e scappiamo in massa emigrando, i cubani sono in pace con tutti e restano per lo più in patria.
Se oggi è da apprezzare chi, come Obama e pochi altri, non ostenteranno ipocrisia nel fare la fila con il cappello in mano davanti a delle spoglie mortali, dobbiamo sperare che vi sia già chi sta pensando ad un dopo Fidel sostenibile dove lo spirito di democrazie e libertà prevalga, purtroppo, la “normalizzazione” imposta da Raul, con il processo di riforme economiche avviato e l’apertura economica ai capitali Usa e non solo, fanno oggi pensare ad un futuro per Cuba più di tipo Cinese.
Per assurdo, oggi più che ieri il popolo cubano ha bisogno di Fidel Castro, la rivoluzione non è terminata.

CHE NE SARA' DEI CUBANI

DI PIERLUIGI PENNATI
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Se non siete mai stati a Cuba è più difficile capire, ma anche dopo essere stato a Cuba molto sfugge ancora alla mia comprensione.
Quando ho visitato l’isola, circa venticinque anni fa, Fidel era ancora al potere e quello che ho visto era devastante, una società in contraddizione con se stessa dove orgoglio, apprezzamento rivoluzionario, voglia di evasione e rassegnazione convivevano conflittualmente tra loro e l’aria che si respirava era libera e pesante al tempo stesso.
Turista ignaro, ma curioso, come sono sempre stato, finivo in un villaggio turistico italo-cubano, dove Cuba (Fidel, dicevano tutti) aveva il 51%. A Cuba non era possibile avere qualcosa per più del 49% e Fidel era Cuba stessa, tanto che tutto veniva considerato suo, a partire dal rum invecchiato 15 anni che veniva detto “riserva di Fidel”. Solo lui poteva permetterselo, il solo cubano a possedere tutto, spirito ed anima dell’isola, nazione vivente.
Nel villaggio tutti erano laureati, o quasi, dal personale delle pulizie ai cuochi, tutti giovani, belli ed apparentemente spensierati. Il ragazzo che tagliava la poca frutta disponibile per gli ospiti era un geologo, la splendida ragazza dell’animazione che stava con il cuoco italiano, sposato ma con la famiglia lontana, ingegnere, e così via, fino agli inservienti che avevano frequentato “solo” le scuole superiori. Tutti a pieni voti.
Il perché mi veniva spiegato successivamente, a Cuba vi erano solo due modi vi vivere, rendersi utili o sopravvivere con le razioni statali.
Le razioni statali comprendevano riso, latte e generi alimentari differenziati a seconda dell’età e sempre insufficienti, tanto che la popolazione delle periferie tentava di coltivare qualcosa in segreto, dato che la terra era dello stato e le coltivazioni, fino all’orto di casa, di sua esclusiva pertinenza e sotto autorizzazione.
Solo le sigarette erano abbondanti, marca “Popular”, senza filtro ed in confezioni di sola carta costituita da due involucri a bicchiere rovesciati uno sull’altro. Un pacchetto da venti al giorno per ogni adulto, chi non fumava le rivendeva ai turisti per pochi spiccioli di dollaro, moneta non detenibile dai cubani ma unica veramente utile per fare acquisti, dato che il peso cubano, pur essendo fissato alla pari con il dollaro da Fidel, non veniva scambiato in nessuna altra baca del mondo ed era vietato il possesso da parte dei cittadini dell’isola.
Così, miseria, corruzione, prostituzione, mercato nero ed ogni altro tipo di attività illecite proliferavano sotto un’apparenza completamente pulita all’ombra di una rivoluzione ormai lontana e distante da quei giovani che incontravo.
L’altro modo di vivere era rendersi utili. Il come era davvero variegato, trovare un lavoro difficile, gli stipendi erano unificati, dai due ai tre, massimo cinque pesos al mese a seconda se si facevano le pulizie o si era rettori universitari, la vera differenza consisteva nel benessere dato dal prestigio o dalla possibilità di arrotondare diversamente, così, a parità di stipendio, fare lo steward per la Cubana de Aviacion era meglio che lavorare nella fabbrica di tabacco o le pulizie in un hotel per turisti migliore che il direttore generale delle poste.
La seconda settimana mia moglie veniva colpita da un virus intestinale, tutti ne soffrivano, l’acqua della zona era contaminata e le medicine disponibili il frutto della Guaiava che veniva definito “meglio del Bimixin”, antibiotico contro questo tipo di problemi.
Finivamo in un ospedale dove medici meravigliosi e competenti avevano a disposizione solo acqua e sale, così tenevano mia moglie a digiuno per un giorno con le sole flebo ad alimentarla. Passata la crisi e recuperata la febbre venivamo consigliati di andarcene da lì, non avevano da mangiare per nessuno e, soprattutto, nessun antibiotico da fornirci e l’ospedale “non era il miglior posto per una persona debilitata, dato che tutte le malattie possibili erano lì presenti”.
Eravamo a Moron, cittadina sperduta sull’isola, da soli e non vi erano Taxi, così superate le difficoltà con il telefono, difficile da usare e sotto controllo, dicevano, l’unico albergo locale inviava un cliente italiano, che si era offerto volontario, a prenderci con la sua auto noleggiata all’Avana, mille chilometri distante.
L’italiano aveva famiglia, ma trascorreva da uno a due mesi all’anno a Cuba, dove aveva una fidanzata fissa, una ragazza dall’apparente età di circa vent’anni che per il periodo di permanenza viveva con lui in hotel e con la benedizione della famiglia. Lui, cinquantenne, in cambio portava antibiotici all’ospedale locale, vestiti per la famiglia e comperava generi alimentari per tutti sul posto. Il ricco italiano con la ventenne.
Tutto può sembrare squallido, ma è tipico della povertà, per contro il popolo negava tutto, chi poteva cercava un matrimonio con un turista, uno qualsiasi, maschi, femmina, bello o brutto, bastava andare via, chi restava si ingegnava, più o meno dignitosamente.
Mancava tutto, cibo e materiali, quello che non mancava era l’allegria, lo spirito di rivalsa e la voglia di un futuro migliore sull’isola, amata ed odiata al tempo stesso, ma quasi nessuno osava avanzare ipotesi di morte per Fidel.
Fidel era Cuba, il fratello Raul non era così ben visto, qualcuno diceva che stava preparando il dopo Fidel opzionando l’isola agli stranieri, una sorta di reazionario sotto traccia, ma nessuno osava mettere in dubbio la sua autorità, non con Fidel vivo e saldamente al potere.
I funzionari locali del governo venivano a mangiare a turno nel villaggio, li riconoscevi perché prendevano un tavolo con tutta la numerosa famiglia, erano cubani e non turisti e si servivano abbuffandosi come se non vedessero cibo da anni, ma una volta alla settima facevano il giro, ogni giorno un hotel differente, così erano tutti grassi. La domenica venivano fin dal mattino, dopo pranzo il funzionario prendeva dal bar varie bottiglie di rum invecchiato, offerte dalla direzione, e si ubriacava in spiaggia insieme a degli amici, l’ho visto fare per tre settimane di fila.
Per rientrare al villaggio dovemmo affidarci ad un cubano che aveva un coche, no, non una macchina, un cocchio con un cavallo, a differenza dello spagnolo in cubano l’automobile si chiama carro.
Il padrone del cocchio ci portò a casa sua dove da una sorta di fienile estrasse una vecchia 124, ma di marca russa, ci fece salire ed andò in una strana periferia dove, in un’altra abitazione privata, comprò della benzina al mercato nero.
Cento chilometri ci separavano dal lusso del villaggio, almeno tre volte la macchina si fermò, la benzina non era buona e dovevamo pulire il filtro, ad un posto di blocco dichiarammo di essere amici che andavano a pesca per non essere arrestati e finalmente al villaggio tornammo alla quasi normalità, ma nel frattempo avevamo perso l’unica connessione aerea con l’Italia della settimana, dovendoci fermare un’altra settimana.
Queste non furono le uniche cose negative che vidi, la lista è lunghissima, ricordo che un giorno dissi ad un ragazzo dello staff, con cui disquisivo spesso di cultura, che avevo l’impressione che queste joint venture con soggetti stranieri per il turismo e l’industria stavano facendo cambiare le cose a Cuba, che il vento del cambiamento si sentiva già. Rispose con un lapidario “lo diceva anche mia nonna, ma è morta senza vedere nulla”.
Ma se la povertà ed i regimi sono simili dappertutto, quello che era differente a Cuba era l’impressione diffusa di una giustizia sociale orizzontale e comune, le persone si arrangiavano, però tutto era per tutti, alla sera gli inservienti avevano il diritto di stare con i turisti ed usufruire della discoteca, era normale, non c’erano ceti sociali, delle gerarchie necessarie, ma non ceti sociali. Se il professore universitario guadagnava di più era per il suo ruolo, ma quel “di più” era poca cosa, non il divario sociale che è qui da noi, il professore aveva un po’ di più ma viveva in una casa assegnata da “Fidel”, come tutti e come tutti aveva il cibo razionato.
L’orgoglio di una popolazione che forse non era differente dalle altre era insito in quella giustizia sociale che anche il nostro premier Renzi aveva usato come bandiera, ma Fidel, il vero Fidel, era un’altra cosa.
Forse un sognatore forse un dittatore, forse cieco davanti alla situazione complicata del suo paese, ma un grande padre per tutti, un padre in fondo buono che, come tutti i padri, può sbagliare nell’accudire i propri figli, ma resta il loro padre.
Oggi quel padre amoroso non c’è più, cosa sarà dei suoi figli solo il tempo potrà dirlo, quello che è certo è che con lui se ne è andata la Cuba che conoscevamo, che potevamo criticare, ma che non potevamo fare a meno di amare.
Tu amor revolucionario te conduce a nueva empresa donde esperan la firmeza de tu brazo libertario.
Hasta siempre comandante!

NON CREDO ALLA BREXIT

DI PIERLUIGI PENNATI
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Prima del voto in Inghilterra nessuno pensava fosse nemmeno possibile votare, dopo di esso nessuno mette in dubbio che sia avvenuto e che l’Inghilterra lascerà l’Unione Europea.
Ma alla fine, chi e cosa lascia? L’UE ha migliaia di dipendenti inglesi, che fine faranno? Persino il nuovo vice direttore generale dell’Ufficio Immigrazione comunitario è inglese e appena nominato, nonostante l’Inghilterra abbandoni il campo.
Inoltre tutti sanno che l’Unione Europea altro non è che un accordo economico tra banche centrali, che come effetto ha, ovviamente, la libera circolazione delle persone e delle cose, altrimenti non sarebbe stato sostenibile, e l’adozione più ampia possibile di titoli valutari comuni. Infatti abbiamo notato tutti che sulle banconote dell’Euro è apparso il Copyright che non esiste su nessun’altra banconota al mondo.
Questo perché non è una valuta corrente, lo dicono gli economisti, ma solo un titolo reciprocamente riconosciuto dalle banche, quindi non di proprietà di uno stato e con la necessità di protezione da copia.
In fondo se non fosse stato così non avremmo avuto le recenti crisi, della Grecia in particolare. Ad una banca centrale è sufficiente stampare valuta, non avendo la necessità di copertura finanziaria che è garantita dallo stato, per l’euro, invece, si è reso necessario un prestito al FMI che viene ripagato dallo stato con sacrifici per la sola popolazione cui è riferito il prestito.
La banca centrale europea, quindi, può fallire, al contrario di una banca centrale governativa.
Per questo la Brexit fa paura, perché all’Unione Europea mancheranno le risorse inglesi, mentre il mercato interno molto probabilmente ne beneficerà, allora avanti tutta: tutti contro l’Inghilterra!
Ironia della sorte il primo ministro che dovrà gestire questa uscita era anche il politico che più l’avversava ed ora si trova una bella gatta da pelare.
Molti anni fa, poco prima dell’imminente arrivo dell’Euro sui mercati mi trovavo in Svizzera a colloquio con il titolare di un piccolo ospedale privato, ma molto conosciuto, e parlando della situazione politica europea chiedevo come avrebbero sostenuto in Svizzera l’arrivo dell’Eurozona, sarebbero stati un’isola in un mare compatto. La risposta fu lapidaria e profetica: “non credo che la Svizzera resterà per sempre fuori dalla Comunità Europea, troppi interessi economici.”
Oggi vediamo come la Svizzera vada progressivamente incontro all’abolizione del segreto bancario, come abbia aderito ai patti di Schengen per la libera circolazione delle persone, come, nonostante le resistenze, faccia parte del programma di accoglienza europeo per i rifugiati e via dicendo.
L’Inghilterra non sarà da meno, oggi giorno gli interessi economici superano gli interessi della persona e persino dei governi, gli inglesi resteranno in Europa, anche se in fondo non ci erano ancora proprio entrati, non dovranno cambiare moneta e rivedranno gli accordi economici, un cliente in più interessa all’Europa, come un mercato in più interessa all’Inghilterra.