OGGI DIMEZZATO IL QE: 15 MILIARDI AL MESE. IMPLICAZIONI NELL’ECONOMIA ITALIANA

DI VIRGINIA MURRU

 

Il programma di riduzione degli stimoli monetari da parte della Bce,  iniziato nel 2017, prosegue: da oggi il Quantitative Easing sarà ancora dimezzato, e gli acquisti di titoli saranno ridotti a 15 miliardi di euro al mese, fino al 31 dicembre, quando la politica monetaria di ‘accomodamento’ sarà completamente azzerata.

Durante il corso dell’ultima conferenza stampa del 13 settembre scorso, la  BCE ha ricordato che al momento è ancora prematuro parlare della possibilità d’incrementare i tassi di interesse.

La Banca Centrale Europea ha tuttavia assicurato, dopo l’ultima riunione del Consiglio Direttivo, che la sua attività continuerà sul mercato, attraverso il reinvestimento delle somme derivanti dal rimborso dei titoli acquistati, per un tempo “abbastanza esteso”, dopo la fine del Qe. In ogni caso, aveva affermato il presidente Draghi, il tempo necessario a “mantenere condizioni di liquidità favorevoli, e un conseguente livello di accomodamento monetario” – “Gli acquisti restano parte degli strumenti di politica monetaria che potranno essere utilizzati in particolari situazioni”.

Vigilanza, insomma, affinché le ottime performance raggiunte dall’economia dei Paesi dell’Eurozona, non subiscano ‘traumi’ in seguito alla sospensione dell’acquisto di asset. Attualmente, l’economia europea,  evidenzia un trend di crescita solido, malgrado le incidenze negative legate alla politica del protezionismo portata avanti dall’establishment Usa, e al conseguente clima d’incertezza a livello globale, soprattutto a danno delle economie emergenti.

In Eurozona dunque si viaggia sicuri, e nonostante qualche  incertezza riscontrata negli indicatori economici, che tuttavia non compromette la solidità dell’area. Nemmeno il clima di sfiducia sulla politica italiana, ha finora creato problemi seri ‘di contagio’, i mercati, dopo le reazioni negative non durate a lungo, si sono ricomposti, e non si sono verificati riflessi preoccupanti sull’andamento dell’economia negli altri paesi della zona euro.

Uno dei più importanti investitori a livello globale in obbligazioni, Pimco, circa un anno fa, aveva pronosticato, in riferimento alla fine del Qe, un clima “nefasto” per l’Italia, che avrebbe raggiunto il suo epilogo drammatico con la ‘vendita’ del debito, e un incremento d’interessi tale da compromettere del tutto la crescita economica. Pimco (Pacific Investiment Company Management, LLC), è una nota azienda californiana di gestione globale degli investimenti, che opera in titoli a reddito fisso.

Il ‘top’ di questo dissesto, secondo i dirigenti di Pimco,  avrebbe portato al “bail-out”, con una congiuntura insostenibile sul piano economico-finanziario. Il resoconto di questo ‘infausto outlook’, era stato pubblicato dal ‘Telegraph’ lo scorso anno.

L’ottimismo, ad un anno di distanza, non è poi migliorato di molto, e proprio le recenti iniziative di politica economica avviate dal Governo, non aiutano ad intravedere solide  prospettive per il Paese.

Intanto la Bce ha rivisto al ribasso, sia pure di poco, le previsioni di crescita per l’anno in corso e il 2019; ma restano ancora in positive per quel che concerne l’area euro. Il Pil, secondo le stime, subisce una lieve flessione, passando al 2% (dal 2,1%) nel 2018; mentre nel 2019, passerà dall’1,9% all’1,8%. Confermate le stime per il 2020, che restano all’1,7%. L’obiettivo inflazione al 2%, non è stato ancora raggiunto, ma ha fatto notevoli passi avanti, le stime per il triennio 2018/20, restano all’1,7%.

Fermi i tassi ufficiali, quindi confermati a -0% (tasso di riferimento) e lo 0,40% quello sui depositi alla Bce – tasso di rifinanziamento marginale 0,25%. I tassi non subiranno variazioni fino all’estate del 2019, secondo le decisioni prese all’unanimità dal Consiglio Direttivo della Bce, o comunque, come precisa il presidente Draghi, “il tempo necessario affinché la crescita dell’inflazione segua il trend di aspettative orientato al 2%”.

Secondo alcuni economisti ed esperti, non sarebbero tanto i conti pubblici in Italia a subire le conseguenze del mancato sostegno del Qe, ma piuttosto il settore privato dell’economia. La Bce ha in ogni caso assicurato che non abbandonerà il mercato, e non lascerà ‘sola’ l’economia dell’area euro, in caso di difficoltà, dopo la fine della politica monetaria espansiva, proprio perché, come ha precisato,  continuerà ad acquistare titoli di stato tramite l’investimento di quelli in scadenza.

Fin qui le risoluzioni dell’attuale Consiglio Direttivo, ma la situazione potrebbe subire variazioni nel 2019, anno in cui è previsto il cambio di guardia ai vertici della Bce. A questo punto potrebbero mutare le condizioni per quei paesi dell’area euro, la cui economia, presenta ancora fragilità.

A partire da febbraio/marzo scorso, intanto, si è fermata la corsa del ‘super euro’, che già a settembre 2017, aveva quasi raggiunto quota 1,21 nel cambio col dollaro, conseguenza positiva scaturita anche dal sentiment che si era venuto a creare nei mercati in seguito alla pubblicazione dell’indice PMI (Purchasing Managers Index, ossia Indice dei Direttori agli Acquisti), schizzato a quota 60, 6. Tenendo conto che si considera positivo già quando supera quota 50.

La corsa dell’euro,  ha raggiunto il culmine nel cambio col dollaro (1,23 – apprezzandosi del 2,5%)), intorno alla seconda settimana di gennaio,  ma dietro questi risultati c’era anche la debolezza del biglietto verde, che nei mesi successivi invece a ripreso la sua forza.

La forza acquistata dall’euro aveva comunque a inizio anno  destato  perplessità e riserve, dato che un euro così forte, col tempo, avrebbe potuto innescare riflessi negativi per l’export europeo, soprattutto nei paesi dell’Eurozona. I trader si sono orientati verso l’euro, quando ha cominciato ad allentare il programma di acquisto di titoli, creando di fatto un rafforzamento della divisa europea. Rientrata poi, in termini di rapporto con il dollaro, in primavera ed estate, quando appunto, come si è accennato, il dollaro ha ripreso vigore.

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APPROVATA LA NOTA DI AGGIORNAMENTO AL DEF. DOVE CI PORTERA’ QUESTO “GIOCO D’AZZARDO”?

DI VIRGINIA MURRU

 

Dunque hanno vinto loro, i due Vice-premier Di Maio e Salvini (ma Conte esiste nel ruolo di Presidente del Consiglio?), si va a sforare il 2% di deficit sul Pil, l’accordo è esattamente per 2,4% per 3 anni; il ‘dopo virgola’, in termini di miliardi, non sono comunque bruscolini..

In tutto il ‘prestito’ ammonta a 27 miliardi di euro. Una manovra rischiosissima: la Nota di Aggiornamento al Def è stata varata ieri notte, era il limite di tempo richiesto (manca il lasciapassare del Presidente Mattarella, ma non dovrebbero esserci intralci). Nonostante gli entusiasmi dei due alleati, Di Maio e Salvini, l’Italia è fortemente esposta al rischio: con le risorse disponibili anche nei prossimi anni, potrebbe non riuscire a trainare un carro con un indebitamento così pesante.

Intanto non c’è il placet dei mercati, che anzi sussultano e si rivoltano alla scelta di politica economica del Governo, all’ennesimo stato di allerta sui conti pubblici, all’instabilità che ne consegue.

Si renderanno disponibili dunque 10 mld per il reddito di cittadinanza (e pensioni di cittadinanza), dei quali beneficeranno circa 6,5 milioni di persone. 1,5 mld saranno destinati a coloro che hano subito truffe dalle banche, più o meno a titolo di rimborso. A gennaio non dovrebbero scattare le clausole di salvaguardia Iva; è previsto un limite di tasse del 15% per un milione di persone, e pax fiscale, con ‘chiusura’ di cartelle esattoriali e contenziosi con liti pendenti, fino ad un importo di 100 mila euro.

Il tutto dovrebbe rientrare nel ‘prestito’ (o meglio indebitamento) di 27 miliardi di euro. Nel 2019 pertanto, il rapporto deficit/Pil sarà pari al 2,4%. E il contratto di Governo è salvo, si dovevano a tutti i costi mantenere le promesse solenni fatte in campagna elettorale, e per questo il titolare del Mef, Giovanni Tria, è stato quasi minacciato d’essere perfino destituito.

E’ da irresponsabili esultare e sostenere che ha “vinto il popolo”, il popolo è nelle mani di questi politici digiuni d’esperienza, che finora ha fatto di tutto per foraggiare gli entusiasmi delle famiglie che hanno necessità di sostegno e certezze. La realtà però è un’altra cosa, è fatta di numeri che devono tornare, di conti che devono avere precisi riscontri, di impegni con l’Ue che devono essere rispettati.

Finora, la Commissione europea è stata fin troppo duttile nei confronti delle richieste di flessibilità del Governo (anche quello precedente), ora c’è un vero e proprio stato di allarme. Siamo sorvegliati speciali, e i richiami continui all’ordine, diventano un’umiliazione, se si considera che, nonostante tutto, l’Italia ha una notevole potenzialità, sul versante industriale siamo la seconda potenza in Europa.

Ma i conti sono in perenne scostamento dai parametri, e questa volta le sanzioni sono nell’aria, il monito del resto è già arrivato da Bruxelles. Se poi l’ambizioso progetto varato dal Governo dovesse tradire le aspettative, e i conti dovessero sprofondare in un girone infernale ancora più nero, in zona euro potrebbero metterci alla porta per incompatibilità con i Trattati a suo tempo firmati.

La Germania vorrebbe uscire volontariamente dal sistema Euro, ma perché non vuole più saperne di “risk-shared” . Per l’Italia il discorso è diverso: andrebbe via perché non sussistono più le condizioni per il rispetto dei parametri. Non si tratta di catastrofismo se in una simile congiuntura s’intravede lo spettro del default. In recessione già eravamo nel 2014.

Inutilmente ci si chiede perché, un’Italia che ha necessità d’investimenti in infrastrutture, di creare nuova energia nel versante occupazionale, disperda mezzi così consistenti con l’assistenzialismo. I 10 miliardi destinati al reddito di cittadinanza, diventano in gran parte una dispersione di risorse, e avrebbero invece potuto essere investiti in opere pubbliche, delle quali si ha un gran bisogno. Intanto, molti edifici scolastici, solo per citare una delle tante lacune, sono fatiscenti, quando non ruderi. Perché non investire una parte di questi miliardi per la costruzione di nuove strutture, incrementando l’occupazione e dando l’opportunità ai lavoratori di guadagnare dignitosamente uno stipendio?

Non si può capire questa smania di accattivarsi la simpatia della gente in modo sterile, e sul piano economico assolutamente deviante.

Noi cittadini, impotenti davanti agli esiti di questi azzardi, possiamo solo sperare che abbiano ragione loro, ossia Conte & company, gli esponenti del governo che hanno tentato questa via, ma non si può mettere a tacere la ragione, non si può investire solo sull’intraprendenza. Questa volta l’Italia è nelle mani dei funamboli, di chi si sta giocando il futuro del Paese con scommesse in cui il rischio è la posta in gioco, e qualora si precipitasse da quell’asse, non ci sarebbero coperture per la salvezza.

I mercati si stanno rivoltando perché un’Italia che viaggia con i conti così in dissesto, e un debito pubblico schiacciante, ha necessità di un percorso sicuro, il livello di rischio è altissimo. Giovanni Tria questo lo sa, non ha certamente ceduto a Salvini e Di Maio di buon grado, davanti a scelte di politica economica di questa portata. L’Italia si aspetta atti di governo che implichino una svolta, certamente, ma con una buona dose di buonsenso, non si può andare allo sbaraglio nello stato in cui ci troviamo.

Da quest’anno la crescita è in flessione, dopo oltre 3 anni di progressi: numeri, non opinioni. Per il 2019 agli Outlook delle Agenzie di rating, esperti, economisti e Organizzazioni internazionali, non sono orientati verso l’ottimismo.
La pariglia Di Maio-Salvini replica che non c’è nulla da temere, “i mercati se ne faranno una ragione”, lo sforamento del deficit è stato presentato come una vittoria. Ma i 27 miliardi dovranno rientrare nel volgere del breve periodo, e garanzie al riguardo non ce ne sono.

Si replica che il reddito di cittadinanza se lo può permettere la Germania, dunque perché non provarci anche noi? Certo che i tedeschi possono permetterselo, con una “dispensa” ben più fornita della nostra, trattandosi della prima potenza economica dell’Ue, quella che traina l’Eurozona.

E’ un confronto da irresponsabili, questo, basterebbe dare uno sguardo al differenziale di rendimento – che peraltro stamattina è schizzato fino ad oltre 280 punti base – per capire in quale tunnel poco illuminato ci stiamo inoltrando. O un semplice sguardo ai decennali del Tesoro tedeschi per capire che si sta paragonando il giorno con la notte.
No, i mercati non hanno brindato con i ministri che hanno approvato questo salto nel buio. Nessun cittadino, tuttavia, dovrebbe augurarsi che questa manovra sia l’anticamera di un’erta.

Sono tante le promesse fatte agli italiani, ma le promesse diventano poi “debiti”, nella vera accezione del termine. Con un debito pubblico che marcia ad oltre 2.330 miliardi, e un debito pro capite di oltre 38.700 euro, c’è poco da scherzare, e da azzardare.

Anche Francia e Spagna andranno oltre le transenne dei parametri imposti dai Trattati, lo hanno già reso noto a Bruxelles, che prevedono un deficit per il prossimo anno di circa 2,8% sul Pil. Ma la Spagna, nel 2017 ha marciato con un Pil pro capite superiore al nostro, ci ha superato. Un Pil misurato in PPP, ossia Power Purchasing Parity – tenendo conto della parità del potere d’acquisto.

Un governo ambizioso, il nostro, e questo poco male; quando si “va a fare la spesa”, se si eccede, si possono firmare cambiali, ma devono esserci garanzie e garanti.
Senza dimenticare che il primo di ottobre, il Quantitative Easing continuerà il suo processo di tapering (ché di questo infine si tratta), e verrà dimezzato ancora, passando dagli attuali 30 mld ai 15 mld al mese, fino al 31 dicembre prossimo.

Per un Paese che ha i conti in dissesto come l’Italia, il Qe è stato provvidenziale,  aiuto notevole l’acquisto di asset ogni mese da parte della Bce. Il venir meno della politica monetaria espansiva, per noi sarà una certezza e un sostegno dei quali si avvertirà la mancanza, e non dettagli di poco conto.

Non si può dire oggi che l’Italia sia al di là della sponda; anche se i due ‘Caronti’ al governo hanno chiesto di apparecchiare il tavolo con una mensa allettante, e tanta abbondanza, non è detto che possano permettersi poi di “pagare il conto”.

Speriamo che non sia così, per il popolo, una parola fin troppo abusata nel 2018, ma lo spread a quota 280 punti base, non è un buon auspicio, e nemmeno il rendimento dei Btp a 10 anni, che supera il limite di guardia del 3%..

ROMA: UNA CIVILTA’ CHE SCAVALCA I MILLENNI E NON PERMETTE OBLIO

DI VIRGINIA MURRU

 

Il ritrovamento a Como delle 300 monete d’oro d’epoca romana, non contribuiranno a ridurre il debito pubblico italiano, ma certamente arricchiranno i musei; simili scoperte non possono che avere un’importanza storica rilevante.

Le monete sono state rinvenute, come si sa, in un sito del centro storico della città, (Via Diaz), cantiere Cressoni, durante i lavori di sbancamento del cinema-teatro, che dovrebbe lasciare posto ad un nuovo edificio.

Sono stati gli operai del cantiere a ritrovare, ad appena un metro di profondità, il contenitore di particolare fattura, realizzato con pietra ollare; ha una certa similitudine con le urne nelle quali solitamente si custodivano i tesori. E di tesoro si tratta, non vi sono dubbi su questo, l’oro utilizzato dai romani ha un alto grado di purezza, è evidente dal colore delle monete, ritrovate impilate una sull’altra, sembra che abbiano appena lasciato la zecca, tanto sono lucenti.

Il ritrovamento ha un notevole valore storico, dato che, nei lavori di scavo susseguitisi nel corso dei secoli, non sono state rinvenute grandi quantità di “sesterzi aurei” coniati dai romani.
Dichiara il ministro dei Beni Culturali, Alberto Bonisoli:

“Gli archeologi stanno valutando la portata storica e culturale della scoperta, e la direzione scientifica che sovraintende agli scavi, ha subito trasferito le monete in una sede di restauro del Mibac a Milano, dove l’urna che le conteneva è già oggetto di studio e di analisi.”

E’ stata subito informata la Sovrintendenza Archeologica, e sul sito del ritrovamento ora proseguono gli scavi, si pensa che le monete e i monili siano solo un indizio per altri importanti reperti.

Intanto gli esperti hanno stabilito che il ritrovamento potrebbe collocarsi in epoca bizantina, o risalire ad uno/due secoli prima di Cristo, questo sarebbe il quadro temporale più attendibile. Gli oggetti preziosi ritrovati insieme alle monete si suppongono legati alla fondazione e origine stessa della città di Como, ma gli orientamenti temporali non sono ancora certi: potrebbe anche trattarsi di un periodo precedente, quando il territorio era abitato da tribù di Celti e Galli.

Si va dai due secoli A.C. al IV secolo D.C., più avanti gli studi sui reperti esprimeranno una datazione più attendibile.
La Civiltà romana e i suoi tesori, ogni tanto tornano in superficie in seguito a scoperte casuali, e altre portate avanti con mesi e a volte anni di scavi da parte di squadre di archeologi.

Casuale fu anche il ritrovamento di Orselina, nel Canton Ticino, quattro anni fa: com’è noto, in un terreno privato nel quale si eseguivano lavori di scavo per ragioni ben lontane dall’eccezionale scoperta, furono rinvenute in un contenitore di ceramica, migliaia di monete in bronzo d’epoca imperiale, risalenti ai primi secoli d.C.

E’ verosimile che questi tesori venuti alla luce dopo alcuni millenni, e conservatisi perfettamente integri, dentro anfore di materiale diverso, siano stati nascosti per essere protetti da eventuali insidie provenienti da nemici esterni al territorio, non ultimi le orde di barbari che giungevano continuamente dal Nord.
La presenza dei Romani a Como e dintorni, è un dato certo, gli studi sulle monete e l’anfora che li contiene, saranno utili per una conoscenza più profonda della presenza romana nella città, e magari per rivelare ulteriori dettagli sui traffici commerciali che il lago permetteva.

Di certo si può dire che si tratta della scoperta più sensazionale avvenuta nell’ultimo decennio, per il prezioso valore storico e numismatico degli oggetti rinvenuti, non solo in Italia ma nell’intera Europa.

PICCOLA VITA IGNARA..

DI VIRGINIA MURRU

 

Ero una piccola vita
con l’anima intrecciata a fili di paglia
cresciuta dentro un nido sopra i rovi
come una parola tesa verso l’alto
che non aspetta l’eco del ritorno.

E raccoglievo bacche nelle siepi
salivo a piedi nudi sulle piante
credendo fosse il vertice del mondo.

Era semplicemente vita
quella che non domanda da chi viene
offre sorrisi anche alle tempeste
non cerca strade larghe al suo andare
cammina con i chiodi sotto i piedi.

Quella era vita immune da pensiero
con vuoti di tempo da riempire a caso
nemmeno si facevan congetture
sulle ragioni del Cielo quando piove.

Mentre lente avanzavano le sere
senza spiegarmi nulla, senza amore,
ombre armate di male, di silenzio
avevano già scritto il mio destino

contavano le lacrime sul volto
fino a riempire il mare ed anche oltre.

BOERI: “CONTROLLARE LA PRESENZA DEI MIGRANTI, PROBLEMA SERISSIMO PER I FLUSSI CONTRIBUTIVI”

DI VIRGINIA MURRU

 

Il presidente dell’Inps Tito Boeri non usa eufemismi per mettere in rilievo il rischio che comporta per il sistema pensionistico la riduzione del flusso di migranti. lo ha espresso con toni preoccupanti nel corso del suo intervento al Festival del Lavoro, che si è tenuto a Milano al  Centro Congressi Mi.Co, il 28 giugno ( si concluderà oggi).

All’appuntamento annuale, organizzato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, giunto alla sua nona edizione, erano presenti 270 ospiti, tra i quali il ministro del Lavoro Luigi Di Maio e il ministro dell’Interno Matteo Salvini, accademici ed esperti a vario titolo del tema ‘Lavoro’.

Nel suo intervento, il presidente dell’Inps ha fatto considerazioni importanti, che mettono in discussione la politica di controllo sui migranti  portata avanti dal Governo, e che peraltro sta infervorando il dibattito in ambito europeo, suscitando anche tensioni non facilmente superabili.

Ora le contrapposizioni interne in tema di flussi migratori emergono chiare dalle dichiarazioni di Boeri:

“Stanno diventando preoccupanti gli scenari sulla spesa pensionistica, a causa del controllo dei flussi migratori. Sul piano demografico in Italia è in atto un calo delle nascite rilevante, il sistema pensionistico non è in grado di adattarsi a questo fenomeno, a causa delle forte interdipendenza, si tratta di un problema serissimo, e riguarda l’immediato.”

“Volenti o nolenti – ha proseguito Boeri – la costante presenza dei migranti può aiutarci a gestire questa difficile transizione demografica. Quand’anche ci fosse in Italia un’inversione di tendenza a livello demografico, ci vorrebbero almeno 20 anni prima che questi contribuenti fossero in grado di compensare il gap col versamento dei contributi. Attualmente questo flusso contributivo  per il sistema pensionistico è importante, con la diminuzione dei flussi, l’arrivo di migranti “comincia ad essere non più sufficiente” a controbilanciare “il calo degli autoctoni.”

Affermazioni in linea con l’Ufficio parlamentare di bilancio, che proprio il giorno prima (il 27 giugno)  aveva ricordato in una relazione, l’importanza dell’arrivo degli immigrati per i conti pubblici, per le stesse ragioni sottolineate dal presidente dell’Inps, ossia il sostegno contributivo.

In evidente contrapposizione con le recenti misure adottate dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, il quale, anche attraverso un tweet, ha espresso tutto il suo dissenso nei confronti delle dichiarazioni di Boeri:

“Secondo Boeri, presidente dell’Inps, la “riduzione dei flussi migratori” è preoccupante, perché sono gli immigrati a pagare le pensioni degli italiani…..
E la legge Fornero non si tocca.
Ma basta!!!”

Al Festival del Lavoro ancora in corso a Milano, Boeri ha fatto anche riferimento alla “quota 100”, riforma che dovrebbe permettere di neutralizzare la legge Fornero, ma che avrebbe riflessi non di poco conto sulla spesa pensionistica, e non solo: non migliora il rapporto tra pensionati e lavoratori. Boeri sottolinea il fatto che aumenterebbe il numero dei pensionati, circa un milione, ma diminuirebbero i lavoratori per via delle tasse sul prelievo pensionistico.

Il presidente dell’Inps ha poi espresso qualche considerazione sulle cosiddette “pensioni d’oro”:

“interventi di questo tipo, sono auspicabili nel momento in cui il debito pubblico è molto alto, e quando si volesse abbassare la pressione fiscale sul lavoro finalizzata al rilancio dell’economia.”

RAPPORTO CSC: “L’ITALIA CRESCE, MA TROPPO POCO, PLAUSIBILE MANOVRA CORRETTIVA”

DI VIRGINIA MURRU

 

Secondo il Centro Studi Confindustria (CsC), l’economia italiana sta rallentando più di quanto ci si aspettasse nelle stime di dicembre 2017. I riscontri, per quel che concerne il tasso di crescita del Pil, sono infatti inferiori rispetto ai target: -0,2%, ossia, non la crescita del +1,5%, ma del +1,3% in termini reali. Gli economisti ed esperti del Centro studi di Viale dell’Astronomia, prevedono anche per il 2019 una flessione più ampia rispetto alle aspettative, ossia +1,1%. L’analisi riguarda il biennio 2018/19.

Secondo gli studi del Centro, la decelerazione nella crescita prosegue in modo graduale, e tanti sono i fattori che hanno inciso nella determinazione di queste dinamiche ‘involutive’.

A questo punto diventa ragionevole e ‘plausibile’ una manovra correttiva, stimata dell’ordine di 9 miliardi di euro. L’aggiustamento richiesto per il 2018, sarebbe pari allo 0,5% del Pil, mentre il  prossimo anno, si dovrebbe intervenire con  0,6 punti (equivalgono a circa 11 miliardi). Sarebbe più o meno l’equivalente del valore della clausola di salvaguardia, qualora fosse stata attivata.

Nelle previsioni sui conti concernenti il 2019, c’è l’ipotesi di sterilizzazione completa delle clausole di salvaguardia Iva, che peraltro è stata inserita nella risoluzione di maggioranza del 19 giugno, al Documento di Economia e Finanza. La copertura della sterilizzazione Iva dovrebbe attuarsi attraverso la già annunciata manovra di agevolazioni fiscali  sulle imposte dirette, e di un previsto aumento di quelle in conto capitale. Non vi sarà, come per gli anni scorsi, finanziamento in deficit.

I rischi, secondo il Centro studi Confindustria, per la crescita dell’economia italiana sono dietro la porta, soprattutto in riferimento allo scenario globale, che ultimamente ha presentato serie ragioni d’incertezza e tante incognite. Le politiche protezionistiche e le recenti misure d’inasprimento sui dazi, portate avanti dal governo americano, sono motivo di preoccupazione, non solo in Italia, ma in tutta l’Unione europea (e oltre com’è noto). I riflessi di queste politiche economiche sul nostro export sono stati severi, e potrebbero essere causa di un ulteriore rallentamento dell’economia, qualora il conflitto commerciale in atto dovesse proseguire in modo spregiudicato.

Intanto è pesante, sempre secondo il CsC, la flessione della domanda estera, e la conclusione del ciclo positivo degli investimenti sul piano nazionale, dinamiche negative derivanti dalle condizioni d’incertezza in cui si muovono gli operatori economici, sia in ambito internazionale che interno. Sull’aumento rilevante riscontrato negli anni scorsi, s’inserisce poi “un aggiustamento fisiologico”.

La crescita a livello globale dell’export, rimane stabile e positiva nel biennio considerato, trainata anche dal crescente sviluppo delle maggiori economie emergenti. Nonostante le incertezze sui tanti fronti dello scenario internazionale, non si avvertono scosse che fanno pensare ad un’inversione del trend, ossia alla fine del ciclo di espansione globale. Incoraggianti i ritmi degli scambi, anche se ci sono da considerare i rischi al ribasso, proprio per le dinamiche insite negli scambi globali, dove entrano in merito le politiche protezionistiche degli Usa, oltre alle incognite fisse che riguardano le tensioni geopolitiche, fattori che mettono in gioco la stabilità, con annesse le ripercussioni sui mercati finanziari. Il rialzo dei tassi (da parte della Fed) potrebbe causare “turbolenze” finanziarie nei mercati emergenti.

Sullo sfondo di questo panorama economico globale, il CsC  opta per una revisione al ribasso sulle previsioni relative al 2018, per quel che riguarda l’export del Paese di beni e servizi (che incide per circa il 32% sul Pil). Dopo un 2017 all’insegna del boom nell’export, si assisterà ad una contrazione della domanda mondiale nel biennio considerato. Non accadeva dal 2013, ossia da quando il Paese stava imboccando la via della recessione. Si perderanno, in considerazione di queste valutazioni, consistenti quote di mercato.

Del resto, un primo segnale di questa inversione di tendenza nell’export, si è avuta nel primo trimestre del corrente anno. In conto sui dati negativi riscontrati, il rafforzamento del cambio dell’euro soprattutto nella seconda metà del 2017, e nei primi mesi del 2018. Un riflesso negativo deriva anche dalla contrazione degli scambi esteri dei paesi europei, che ha notevolmente penalizzato l’export italiano.

Si legge nel rapporto del CsC:

“L’Italia ne ha risentito per via della specializzazione in beni semilavorati e strumentali che rispondono più rapidamente a variazioni del ciclo. Comunque, l’andamento dell’export va valutato su un

periodo più lungo, data la normale volatilità degli scambi e considerato che nel 2017 l’espansione

è stata molto sostenuta”.

Secondo Confindustria, il Pil rallenta anche a causa del clima d’incertezza, “serve un’Italia forte in un’Europa forte”.

Come si è visto, Confindustria ha fatto il punto sullo stato dell’economia italiana,  in funzione degli scenari globali, del resto non si potrebbe prescindere, anche alla luce degli ultimi allarmi provenienti dalle risoluzioni della politica economica americana.

 

“Dove va l’economia italiana, e una proposta per l’Eurozona”, è stato dunque il tema dell’incontro organizzato dai rappresentanti degli imprenditori.

In evidenza, negli studi degli economisti di Confindustria, alcuni dati macro, tra i quali lo stato dell’occupazione, che è previsto in aumento di circa l’1,0% nel biennio 2018/19, con intensità inferiore rispetto al Pil.

Nei primi mesi del 2018 ha interrotto la crescita il lavoro a tempo indeterminato, mentre si rileva un considerevole aumento di quello a termine.

Il deficit si contrae ma troppo lentamente: “dal 2,3% del Pil nel 2017, all’1,9% dell’anno in corso, e all’1,4% nel prossimo.” Tenendo conto dell’annullamento della clausola di salvaguardia, per la quale, come si è accennato, andrà in compenso l’aumento delle imposte dirette e quelle in conto capitale.

 

Il Centro Studi Confindustria sostiene l’Europa e la sicurezza che rappresenta per il Paese: “un’opportunità per tutti i paesi membri, Italia in primis”, proprio per la vulnerabilità derivante dalla crescita troppo lenta, per ragioni di fluttuazioni del ciclo, e conseguenti turbolenze dei mercati finanziari. E’ necessario migliorare “questa” Europa, secondo gli economisti del Centro, ma allontanarsene sarebbe una follia.

 

Vincenzo Boccia, presidente della Confindustria, sostiene che è presto per giudicare le scelte del governo appena insediato, saranno i mercati, giudici severi, a esprimersi al riguardo. Intanto l’Italia è attualmente a rischio per la zona euro. Boccia fa diversi riferimenti al mercato del lavoro, e si riferisce con particolare preoccupazione ai contratti a termine: “non bisogna renderli più cari”.

 

Per quel che riguarda l’Ue, tante sono state le proposte del CsC, tutte volte all’integrazione dei paesi membri, alla luce del dibattito europeo, che vede dominante la visione tedesca e il suo rapporto di forza, in virtù della solidità della sua economia. E tuttavia, sostengono gli economisti, prima di richiedere una maggiore condivisione del rischio nell’area, è necessario operare e collaborare con serietà e rigore, per la riduzione stessa del rischio, responsabilità implicita per i paesi che presentano divergenze nei conti rispetto ai parametri previsti.

 

ANCORA UNA VOLTA I MERCATI RINGHIANO CONTRO I DAZI IMPOSTI DALL’ESTABLISHMENT USA

DI VIRGINIA MURRU

 

Le “incursioni” sui dazi imposti dal governo americano colpiscono ancora, ormai a livello globale, non si salva nessuno, dall’Europa all’Asia, a Wall Street: i mercati finanziari sono impietosi e rispondono per le rime alle insidie di destabilizzazione sul versante commerciale.
La minaccia sul fronte dei dazi riguarda ora l’import di automobili, comparto che verrà colpito del 20%, misure già peraltro annunciate le scorse settimane. Nemmeno l’Unione europea ha intenzione di subire passivamente questi ‘raid’ fortemente penalizzanti per l’Europa; le contromisure sarebbero in dirittura d’arrivo, c’è una vasta gamma di prodotti made in Usa, che subirà la legge del contrappasso in questo conflitto commerciale senza esclusione di colpi.
E’ stato il Wall Street Journal a darne l’annuncio, giustificando i provvedimenti del governo americano con l’intento di arginare lo strapotere della Cina nei settori dell’Hi- tech. Ci sono nuovi piani per contenere gli investimenti in aziende partecipate da azionisti cinesi. Restrizioni che non piacciono affatto al gigante delle economie emergenti..
E prima o poi si dovrà considerare il fatto che la Cina controlla ancora parte del debito americano. I cinesi continuano a ‘comprare’ il debito Usa: proprio nel mese di febbraio hanno acquistato Treasuries per un importo pari a 8,5 miliardi di dollari, portandosi dunque a quota 1.180 miliardi, e confermandosi pertanto il primo creditore degli States.
L’Amministrazione Trump non potrà prescindere a lungo da queste valutazioni.
Mentre all’inizio di luglio partiranno i dazi americani contro il dragone, sembra prossimo il ‘pacchetto’ di misure protezionistiche per colpire il settore automobilistico europeo, altra mossa avvertita dai mercati come un’insidia pericolosa.
Intanto la produzione di motociclette dirette verso il mercato dell’Ue, sarà portata fuori dagli States, lo ha dichiarato Harley-Davidson.
A risentire in borsa delle correnti contrarie che vengono da oltre Atlantico, sono soprattutto i settori azionari del tecnologico e dell’auto, risposte nella logica dei mercati, che hanno reagito con un’escalation di vendite.
A soffrire quindi sono i settori azionari dell’auto, tecnologici e finanza, mentre Cina e Unione Europea stanno valutando le contromisure da adottare. In Europa i paesi più colpiti sono Italia e Germania, ma anche a causa di un altro conflitto in corso, di matrice tutta europea: il braccio di ferro sui migranti.
Insomma, l’establishment di Donald Trump, con le scelte di politica economica spregiudicate, continua ad insidiare gli scambi commerciali, e nel mirino c’è soprattutto la Cina e l’Ue.
Oggi in borsa le recenti dichiarazioni del presidente Usa hanno avuto l’effetto di una tempesta, Piazza Affari è stata investita da queste raffiche d’instabilità, e il risultato è che il Ftse Mib cede il 2,44%. Lo spread riprende a salire, solo da due/tre settimane, con il raggiungimento della stabilità politica, aveva perso quota. Il differenziale di rendimento ora viaggia a 247 punti base.
Come si è accennato, i crolli si sono verificati un po’ ovunque, non solo nei listini europei; anche quelli asiatici hanno sofferto il clima assolutamente sfavorevole per le contrattazioni. Non ultima Wall Street, che cede l’1,4%, in piena sintonia con il trend globale. Giù dunque il Dow Jones, che lascia sul campo l’1,45%, il Nasdaq il 2,10%, lo S&P l’1,52%. Una sorta di boomerang per gli States.
L’euro si sta rafforzando sul biglietto verde.
La politica sui dazi non piace ai mercati, ma non siamo agli esordi, già da quando erano stati annunciati  quelli su acciaio e alluminio (misure che hanno preso avvio il primo giugno), le reazioni erano state forti, ora il clima di conflitto sul piano commerciale si fa più minaccioso, la conseguenza più ovvia è l’instabilità, l’incertezza, nebbia nei rivolgimenti politici dei prossimi mesi che si traduce in perdite ormai consistenti ovunque.

CROLLANO LE BORSE ASIATICHE DOPO L’ANNUNCIO DEI NUOVI DAZI CONTRO LA CINA

DI VIRGINIA MURRU
 
Un “dèjà vu” che i mercati non hanno gradito, era già accaduto il 23 marzo scorso del resto, dopo l’annuncio del presidente Usa d’introdurre i dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio, che avrebbero in particolare colpito quelle provenienti da Pechino.
 
Si ripropone lo stesso scenario, e non solo sulle piazze asiatiche e del Pacifico. In apertura di seduta anche Piazza Affari è in calo, effetto domino che perpetua una tendenza diventata norma per i mercati finanziari, i quali agiscono come obiettivi sensibili, su onde d’urto provenienti dalle scelte più incisive della politica economica. Incidono anche le recenti risoluzioni dell’Eurotower, che ha annunciato, alcuni giorni fa, lo stop al Quantitative Easing entro dicembre.
 
L’ultima incursione dell’establishment americano non è uno scherzo: i nuovi dazi colpiranno l’import dalla Cina per un valore di circa 200 miliardi di dollari, qualora i cinesi si azzardino a proteggere a loro volta le importazioni dagli States, attraverso contromisure.
 
Per il governo cinese, che ha minacciato ritorsioni, si tratta di un autentico “ricatto”, ma tant’è: Trump ha già dimostrato che gli interessi americani vengono prima dei rapporti diplomatici, prima della distensione nelle relazioni internazionali, prima del rischio di un conflitto commerciale.
I mercati lampeggiano in rosso, e reagiscono con perdite consistenti al clima d’instabilità proveniente dalla guerra commerciale tra Cina e Usa. A Piazza Affari il Ftse Mib sta cedendo l’1,44%, in rosso anche le altre piazze europee, ma i crolli più rilevanti si riscontrano nei mercati asiatici: Shanghai cede il 3,82%, Shenzhen il 5,30%, Hong Kong perde il 2,72%.
Il Nikkei ha chiuso la sessione con un calo dell’1,73%, sulla stessa linea Taiwan.
 
Diverso il clima a Wall Street, che non ha riportato grandi turbolenze dopo le dichiarazioni di Donald Trump. L’S&P ha registrato un lieve calo: -0,40%, e il Dow Jones -0,21%, il Nasdaq ha chiuso in positivo, sia pure lievemente.
 
 

GIUSI MERLI, INTERPRETE DE “LA GRANDE BELLEZZA”: “IL TEATRO E’ LA PIU’ GRANDE METAFORA DELLA VITA” (Intervista)

DI VIRGINIA MURRU

 

Il film “La grande bellezza” è Arte contemporanea pura, riconosciuto dalla critica come un capolavoro del cinema italiano, se n’è parlato tanto, e se ne continua a parlare, perché un ‘masterpiece’, suscita curiosità, istiga la ricerca degli aspetti più inediti.

In apparenza è una ‘storia’ senza  legante preciso, o un fil rouge che segua con coerenza la logica di un ‘io narrante’; invece, nell’interpretazione di ogni personaggio, c’è un aspetto di vita che viene illuminato a giorno. Emerge come olio sull’acqua il clima di decadenza della borghesia romana, che cerca tuttavia di sopravvivere, di celebrare se stessa, attraverso gli esigui spazi temporali che offre il terzo millennio. Ci sono i dilemmi del proprio tempo, visti nella penombra di un’indagine psicologica che resta indefinita; tutto è estremizzato, dilatato sulla linea degli eccessi.

Il protagonista (Jep Gambardella) è impietoso quando deve definirne i tratti, e non indulge sulle inesorabili vacuità  del vissuto, non immune dall’insidia delle convenzioni, dal ripiego alle evanescenze della bellezza. Nel film si possono trovare quei ‘luoghi’ inediti dell’anima e i non luoghi della vita. In questo ‘viaggio’ dell’assurdo e del paradosso, sembrerebbe che ad essere raccontato sia l’inconscio del protagonista, in libera associazione di pensiero. Tecnica narrativa che rimanda in qualche modo all’”Ulysses” di J. Joyce, in una sequenza d’immagini e dinamiche scenografiche che mettono in rilievo questo rovescio d’anima, in cui la ragione non viene chiamata in causa. E’ un universo interiore che si materializza in immagini e in azioni secondo un ordine che proviene, appunto, più dall’inconscio che dalla coscienza.

E’ in definitiva una finissima sapienza artistica, tipica di un certo ‘narrare’ nel cinema, alla quale non è estranea la ricerca psicologica, che appartiene solo ai grandi. Qualcuno ha scritto che non vi è relazione ‘parentale’ tra Fellini e Sorrentino. Purtroppo, ogni volta che nasce una nuova ‘creatura’, dobbiamo a tutti i costi trovare somiglianze e similitudini nei ‘tratti somatici’, con i ‘genitori’ o collaterali, come fosse un atto dovuto.  Se relazione artistica o ‘trait-d’union’ deve esserci tra i due registi,  il connubio è legittimo, perché Sorrentino ha tutte le credenziali, l’estro e il genio per continuare l’opera di Fellini.  In Italia ci sono tanti buoni registi, ma Sorrentino è forse l’erede più degno del Maestro.

Egli, in un’intervista, ha del resto dichiarato di essersi ispirato ad alcune importanti personalità del nostro cinema, in primis Federico Fellini, ossia il Maestro ‘by definition’. La grande bellezza è dunque un richiamo allo stile felliniano, ad alcuni suoi capolavori, quali Otto 1/2 e la Dolce Vita; dopo avere visto il film si conclude che il richiamo è naturale.

“E’ un film innamorato dell’Italia” – sostiene Sorrentino –   e Roma rappresenta proprio quella “grande bellezza”  a cielo aperto, che scintilla  in visioni notturne dirompenti verso sensi. Anche se, fa notare Giusi Merli, una delle interpreti, in definitiva, la ‘grande bellezza’ alla quale rimanda il film, non è stata ‘trovata’ (ma nel film lo dice chiaro anche il protagonista).

Il film  ha ottenuto tutti i riconoscimenti possibili nell’ambito del Cinema: dall’Oscar, per il migliore film straniero, ai numerosi David di Donatello, Nastri d’Argento, Golden Globe, European Film Awards, tanto per citare solo i più prestigiosi.

Il cast è importante: oltre a Tony Serpillo, nel ruolo di protagonista,  c’è Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Giusi Merli, Pamela Villoresi, Isabella Ferrari, Roberto Herlitzka, Serena Grandi, insieme ad altri attori di notevole spessore artistico e professionale.

Giusi Merli  interpreta il ruolo di Suor Maria,  “la Santa”, personaggio di forti magnetismi spirituali,  misteriosi ed eloquenti silenzi. Non poteva mancare questo ruolo nella compagine della narrazione, la spiritualità è un’’accezione’  che avvolge la città eterna come un centro di gravità, scorre tra le mille stazioni della religiosità romana, ne rappresenta semanticamente l’essenza: ne è satura l’aria.

Le  interpretazioni della Merli si caratterizzano per la forte spiritualità, a prescindere dal ruolo.   Espressione di questa  peculiarità è anche la sua partecipazione ad un cortometraggio ambientato in Sardegna, “A casa mia”,  diretto da Mario Piredda (di origini sarde), nel quale l’attrice recita in sardo. Il corto è stato premiato col David di Donatello, nella categoria short movie.

Giusi Merli sostiene che ‘La grande bellezza’  è un film  “fortemente spirituale, e non un’esibizione da cartolina delle attrattive artistiche di Roma”, interpreta in modo ineccepibile la parte della religiosa, che allude alla figura di Madre Teresa. Bellissima la scena del ‘soffio’, così spiritualmente potente da far spiccare il volo ad uno stormo di fenicotteri rosa, dei quali la Santa conosce il nome, uno per uno.

E’ un’attrice Pisana ‘di lungo corso’ (40 anni di esperienza in teatro), Pisa è anche la città nella quale ha concluso l’iter dei suoi studi, nella cui Università ha conseguito la laurea in  Lingue e Letterature straniere.

“Iniziata’ al palcoscenico in teatro, su una linea contemporanea d’avanguardia, dove si esprime al meglio, è un’attrice duttile sul piano interpretativo, con un volto particolarmente espressivo. Ha recitato un po’ ovunque in Italia, Europa e Stati Uniti. L’aspetto fisico asciutto del suo “corpo senza tempo”, sono un tutt’uno quando va il scena.

La vera protagonista del film “La grande bellezza alla fine è Roma, in tutta la sua monumentale magnificenza – ed è subito chiaro fin dalle prime scene – insieme alla sua ‘gente’ più autentica, i romani, con la celebrazione dei loro vizi e virtuosismi. Il film racconta un “viaggio” immaginario tra i meandri mondani di una Roma eterea, notturna, compiacente e complice, talora contradditoria, indifferente. Non per nulla nella ‘narrazione’ l’incipit è la citazione di un’opera di Céline: “Viaggio al termine della notte”.

In quei fermenti notturni, dove la vita scorre tra ozio e indolenza, c’è qualcosa di fluttuante che va oltre la rappresentazione e l’inerzia di quel mondo patinato. I personaggi percorrono senza sapere il tracciato di un viaggio vagheggiato,  attraverso gli itinerari surreali di una società che in apparenza vive di superficie, quasi nel non senso, e ignora il volto più profondo e reale della Vita. Una ricerca non certo proustiana, immaginifica, ma pur sempre la ricerca di qualcosa che pulsa intorno all’esistenza, si direbbe passiva dei personaggi. In quel loro porgersi generoso e acquiescente, dove a volte le parole, le relazioni, riflettono silenzi e negazione, non partecipazione attiva ed entusiasmo di esserci. Semmai apparire.

La ‘storia’ gravita intorno a Jep Gambardella (ruolo magnificamente interpretato da Tony Serpillo), scrittore in crisi d’ispirazione, e giornalista di un sistema d’informazione un po’ mainstream. Jep è l’epicentro di uno stile di vita borghese, vagamente in  dissoluzione, che inconsapevolmente si dibatte come un funambolo nella vita reale, per via di quell’ambivalenza di ruoli, cedimenti alle inconsistenze, al trasognamento.

E’ talmente assorbito dall’intrigo della mondanità notturna romana, da risultare più incline,  in certo qual modo, ad assumere il profilo di un “perdigiorno”.  Peculiarità paradossale che non disturba il ritmo di un’esistenza rivolta alla ricerca di qualcosa d’indefinito e  sfuggente, che lo stesso protagonista non riesce perfettamente a focalizzare.

Uomo maturo, ma tanto assorbito da quel fervore di vita notturna da farlo apparire un apprendista della vita, mai assuefatto ai ritmi indolenti di quelle feste, oppio che lo immobilizza sul nulla, quel nulla del quale vorrebbe scrivere, ma non sa scuotersi dai conflitti di un sé totalizzante; dal blocco del suo estro creativo. “Guarda la mia vita: il nulla” – “E’ tutto sedimentato tra il chiacchiericcio e il rumore..”.

Ama la mondanità e lo stile di vita un po’ borderline, ma in fondo è un nostalgico, a tratti vagamente bohèmien. In questa mancanza di logica narrativa, si scorge un sottile legame con gli aspetti assurdi dell’esistenza, rappresentati da Beckett, nel quale non di rado domina proprio il non senso della vita. Avanguardismo comunque, che spezza la trama e l’ordito del razionale, di una logica guidata dalla coerenza della ragione.

‘La bellezza salverà il mondo’ – bellezza rivolta all’Arte, alla creatività proveniente dall’estro umano – anche Dostoevskji, ne ‘l’Idiota’,  mise in bocca questo assioma al personaggio chiave del suo romanzo.

Jep viaggia quasi in incognito nella sua esistenza, più  che vivere sembra procedere per inerzia, sottoscrive quotidianamente le clausole essenziali e vincolanti della vita, verso la quale è fedele a modo suo, ossia un po’ da ignavo un po’ da istrione. Certo si riconosce il diritto di sbagliare e cadere, senza impedimenti moralistici o deragliamenti in sensi di colpa. E’ un viaggio in appendice, il ruolo di questo singolare personaggio, senza voli pindarici di retorica sul senso di un procedere a distanza di sicurezza dal mondo che lo circonda.

Ho incontrato Giusi Merli, una delle interpreti, durante una serata culturale, nella quale le è stato assegnato un riconoscimento alla carriera. E’ una donna semplice, sensibile alle problematiche sociali. Nonostante una vita dedicata al teatro, e i numerosi riconoscimenti ricevuti, il suo porgersi alla gente è schietto e diretto, dal suo volto luminoso traspare disponibilità verso gli altri, e nessuna pretesa di privilegi nel suo ruolo di personaggio pubblico. Tra i numerosi premi che le sono stati assegnati, c’è anche quello relativo ad un corto, quale migliore attrice, a Barcellona.

Dopo decine d’anni di esperienza sui palcoscenici di mezzo mondo, ritiene che ci sia più realtà nello spazio scenico di un teatro, o nella vita?

“La vita è un grande teatro. Il teatro di per sé è la più eloquente metafora della vita, perché mette a fuoco il senso stesso dell’esistenza umana”.

Qual è l’opera che più la rappresenta tra le tante che ha interpretato?

Sì, in effetti sono tante, ma non posso negare il fascino che su di me esercitano le opere di Shakespeare, tra queste, “La tempesta”, nota opera teatrale in 5 atti.  E’ semplicemente meravigliosa. Mi ha dato tanto in termini di gratificazioni, io ho interpretato il ruolo di Calibano. L’opera è stata tradotta in napoletano del ‘700 da Eduardo De Filippo, che non portò tuttavia mai in scena. E’ invece andata in scena nel carcere di Arezzo, dove allo spettacolo hanno partecipato attivamente  i detenuti. Si tratta di un’esperienza unica, che mi ha trasmesso davvero molto sul piano umano.

Cos’è per lei l’Arte e la sua rappresentazione?

E’ prima di tutto un mezzo di comunicazione di fondamentale importanza, è semplicemente un modo per trasmettere qualcosa a chi ascolta, veicola infatti dei messaggi non criptati. L’Arte, quella autentica, dà un indirizzo, induce a pensare.

C’è relazione di affinità tra ‘La grande bellezza’ e qualche opera di Federico Fellini?

Se proprio si dovesse cercare un’affinità, io la trovo con Satyricon, celebre film di Fellini del 1969, ispirato all’opera dell’autore latino Petronio.

E’ la Vita “La grande bellezza”?

La bellezza non è l’aspetto fisico delle cose, nell’arte come nella vita, non solo questo, sarebbe riduttivo. La bellezza è qualcosa che trascende i sensi, la fisicità, perché è l’essenza spirituale di ogni cosa creata. Bellezza fisica e spirituale sono un tutt’uno, come un’accezione cosmica: sono una la metamorfosi dell’altra, due anime che si ‘parlano’ e si fondono in una.

 

 

 

BCE. DAL 2019 FINE DEL QE E DELLA POLITICA MONETARIA ESPANSIVA

DI VIRGINIA MURRU
Il presidente della BCE, Mario Draghi, nella conferenza stampa di oggi, ha annunciato che il Qe, ossia il programma di acquisto di titoli governativi di quasi tutti i paesi dell’area euro, è giunto al suo capolinea: entro il 2018 il ‘protocollo di cura’ sarà chiuso.
Attualmente la portata degli acquisti mensili è di 30 miliardi al mese (da gennaio), oggi Draghi ha annunciato che a partire da ottobre prossimo il ritmo sarà dimezzato, ossia 15 miliardi al mese fino a dicembre. Da gennaio 2019, lo stimolo monetario cesserà del tutto. Ora Draghi, non ripeterà più, la sua intercalare fissa: “or beyond if necessary” (o anche oltre, se necessario).
Missione compiuta? Non propriamente, nell’area persistono ancora difficoltà, legate non solo al basso tasso d’inflazione. In alcuni Stati, i conti con la crisi economica non sono ancora chiusi. Per dirla alla ‘Merkel’: in Eurozona si viaggia a due velocità, ed è anche per questo che l’Eurotower ha deciso di lasciare i tassi invariati.
L’Europa, dopo essere stata investita e quasi travolta dalla grande crisi economica del 2008, per la Bce è stata un “paziente” non facile da trattare. La terapia intensiva, ossia l’acquisto di asset tramite le Banche Centrali, è durato più del previsto, perché le conseguenze contorte della crisi sul sistema – che ha presentato problemi di deflazione e d’instabilità dei prezzi – hanno richiesto accomodamenti di politica monetaria necessari a sollevare e sostenere gli Stati coinvolti nei negativi rivolgimenti economici e finanziari.
Dal 2017, ossia da quando la ripresa e la crescita dell’economia in area euro si è stabilizzata, la Bce ha deciso di ridurre il volume di acquisti, portandoli da 80 miliardi di euro al mese, a 60 (ad aprile). Le strategie di tapering sono state graduali, e infatti si è atteso fino a gennaio 2018 per la successiva riduzione degli acquisti, che sono stati portati a 30 miliardi al mese.
L’Eurozona è stata simile – tanto per restare nell’allegoria – ad un organismo dopato, ovviamente per evitare interruzioni traumatiche al sistema, si è proceduto in modo graduale, affinché ogni Stato coinvolto potesse di nuovo essere in grado, lentamente, di camminare con le proprie gambe.
Questo delicato aspetto della politica monetaria dell’Eurotower, implica scelte decise all’unanimità dal Consiglio Direttivo, si è deciso di ridurre gradualmente l’acquisto di attività, perché si sono presentate le condizioni e le premesse, nell’economia relativa all’eurozona, per una contrazione degli stimoli.
Lo start del programma di acquisto di titoli pubblici, o Quantitative Easing, come si è detto, è avvenuto nel 2015, attraverso le rispettive Banche Centrali dei paesi dell’area, intervento noto anche come “Expanded Asset Purchase Programme, APP”.
Ma la Bce era già intervenuta un anno prima, sempre su delibera del Consiglio direttivo, con la riduzione dei tassi d’interesse ufficiali, e rendendo il costo delle operazioni di rifinanziamento prossimo allo 0, portando nel contempo su valori negativi il rendimento applicato ai depositi degli istituti di credito presso l’Eurosisema.
Attualmente, per quel che concerne l’Italia, la Banca Centrale Europea, possiede nei suoi depositi 340 miliardi di euro in titoli, ovvero, più o meno, il 15% del nostro debito pubblico. Che la politica monetaria espansiva abbia dato un grosso impulso all’economia italiana, è indubbio. Ma naturalmente ha sostenuto anche le economie più solide dell’area euro, non solo i Paesi più provati dalla crisi.
La Bce, se si considerano tutti gli Stati che hanno beneficiato degli stimoli monetari, ha acquistato attività per un importo pari a 2.300 miliardi.
Certamente, la fine di questa ‘manna’, non sarà dolorosa solo per l’Italia. Sì, perché, in un sistema così dopato, un po’ di crisi di astinenza sarà fisiologica, a dir poco. Ed è anche implicito che non tutti i Paesi dell’eurozona ‘soffriranno’ allo stesso modo per la ‘mancanza’, per la stessa ragione per la quale l’onda d’urto della crisi ha avuto un impatto diverso nelle economie più resistenti.
Per l’Italia sicuramente non sarà semplice, con i suoi 2.300 miliardi di debito pubblico, tutto diventa più complicato. Ora il Paese dovrà entrare con le sue forze nella giungla dei mercati e affrontare gli investitori internazionali, perché finanziarsi con la vendita di titoli sarà una necessità primaria. E c’è da sperare che i rendimenti diventino sempre più bassi.
La musica, con la fine del Qe, potrebbe cambiare anche per chi ha acceso un mutuo a tasso variabile, e per chi si accinge a farlo, mentre più sicuri saranno coloro che hanno scelto un tasso fisso, non soggetto a rischi di tempesta nel sistema finanziario.
Intanto, per il momento, secondo le dichiarazioni del presidente Draghi, i tassi d’interesse non subiranno variazioni. Ma non sarà una decisione a lungo termine, i tassi riprenderanno a salire, e molto probabilmente dal prossimo anno, dipenderà da una serie di fattori.
Il Qe ha agevolato di certo la disponibilità del credito, e l’accesso ai mutui, che a loro volta hanno contribuito a stimolare, tra gli altri, anche il settore immobiliare.
La Fed, negli Usa, è intervenuta ancora al riguardo, aumentando i tassi di un quarto di punto. Ma il climat degli States è diverso da quello europeo.
Il settore più esposto, dopo la fine del Qe, resta quello bancario, senza gli stimoli della Bce, la disponibilità del credito potrebbe diminuire, con tutte le conseguenze che questo comporta in un sistema economico di mercato, dove gli investimenti e l’accesso ai finanziamenti sono l’energia migliore per la crescita e lo sviluppo.
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IL MINISTRO DELL’ECONOMIA GIOVANNI TRIA E’ PER LA SVOLTA, MA CON CAUTELA

DI VIRGINIA MURRU

 

Il ministro dell’Economia e delle Finanze è un economista, professore ordinario di economia politica all’università di Tor Vergata, ha le idee chiare sul programma presentato da Lega e 5 Stelle, e non sembra nemmeno intimorito di esprimere pareri che rischiano di diventare voci fuori dal ‘coro’.

E’ più vicino in generale alle posizioni della Lega, piuttosto che ai punti chiave del programma sostenuti dal Movimento 5 stelle, perché non convinto sulle garanzie di copertura relative al reddito di cittadinanza, verso il quale ha già espresso le sue riserve.
Sostiene al riguardo:

“In realtà ancora non è chiaro l’impatto dei costi determinato dal reddito di cittadinanza, l’entità delle risorse che richiederà e l’ampiezza in termini di beneficiari dell’indennità, che in definitiva è legata alla disoccupazione. Si tratta di un’ Iniziativa già intrapresa in Francia, peraltro. Tale indennità dovrebbe anche essere estesa a coloro che sono alla ricerca di un primo impiego, al momento, tuttavia, gli effetti di questo provvedimento sono pieni di incognite”.

Molto più favorevole, e non ne ha mai fatto mistero, il ministro Tria, alla Flat tax, vessillo della Lega, e alla cosiddetta Pace fiscale. Il professore spiega che perseguire un obiettivo di riduzione della pressione fiscale, è in piena sintonia con la base di una politica rivolta alla crescita.
Si tratta di una scelta, secondo il ministro Giovanni Tria, non semplicemente orientata a rendere disponibile una maggiore base di reddito per famiglie e imprese, finalizzata quindi a sostenere la domanda interna.

La prospettiva è quella di portare in crescita fattori produttivi quali lavoro e capitale, a beneficio di un ventaglio d’investimenti più consistente.
Si discute tanto, secondo il ministro, intorno alla doppia aliquota, o a quella unica, ma in realtà conta l’intervento di semplificazione del sistema, oltre che la sua sostenibilità in termini di copertura, che dipende anche dal livello delle aliquote.

In una lunga intervista concessa nei giorni scorsi al Corriere della Sera, il ministro spazia in lungo e in largo sulle strategie previste dal Mef per l’attuazione del programma di governo.
Sulla domanda circa i timori della Germania sulle forzature che l’Italia potrebbe esercitare in ambito Ue, in tema di debito pubblico, qualora i partner europei non concedessero l’elasticità necessaria a portare avanti i punti chiave previsti dal programma del nuovo esecutivo, egli si è dimostrato ottimista, e non ha espresso particolari preoccupazioni al riguardo:

“Sono già in contatto con il collega tedesco Olaf Scholz, il presupposto principale delle relazioni con i paesi della zona euro è il dialogo, non abbiamo alcuna intenzione di usare l’arma del ricatto per ottenere margini di flessibilità sui conti pubblici. Penso che cercherò di persuadere i partner che un’italia che corre su un obiettivo di crescita e risanamento dei conti, è nell’interesse di tutti, e su questa base pensiamo di trattare, ovviamente su un fronte di fiducia reciproca.”

Giovanni Tria rassicura sul fatto che l’intesa del governo su temi fondamentali è unanime.
Quanto al settore bancario, alla necessità di riforme, afferma:

“è ancora presto per fare il punto sulle strategie, ma il settore indubbiamente necessita di solidità, anche se la strada è stata intrapresa dal precedente esecutivo, c’è stata una riduzione delle sofferenze bancarie del 25%, è un notevole passo avanti: si proseguirà su questa linea.”

Sulla possibilità di saldare i debiti commerciali attraverso l’emissione di “mini-Bot, è piuttosto esplicito:

“i debiti dello Stato nei confronti delle imprese, sono un problema, ma sono convinto che per risolverlo sia necessario eliminarlo alla radice, ossia facendo in modo che i pagamenti siano regolati in denaro ed entro i tempi previsti. I mini-Bot sarebbero soluzioni tampone, e non l’eliminazione del problema”.

Sull’opinione che Mario Monti esprime da anni circa lo scomputo degli investimenti dal patto di Stabilità, Tria sostiene che egli ne è stato in qualche modo il precursore: lo ripete da decine d’anni. “Il fatto è che – precisa – anche se si estrapolasse dal calcolo del deficit, con il lasciapassare di Bruxelles, si potrebbe ‘spendere’ di più, ma l’impatto sul debito ci sarebbe lo stesso.”

Quanto all’obiettivo di ridurre il debito nel corrente anno e nel 2019, Tria conferma che si tratta di un punto fondamentale del programma, sulla base dei presupposti fino ad ora già fissati, e con l’intento della riduzione graduale nei prossimi anni. L’incertezza resta l’andamento dell’economia e le relative stime, difficile secondo il ministro, fare previsioni, al momento.

E’ ovvio che alla luce del fatto che il governo si è appena insediato, non si possono tracciare conclusioni, se non tenere presente una linea programmatica che dovrebbe portare via l’Italia dal rischio di speculazioni, e per questo invita spesso il governo a “pesare le parole”, visto che ogni dichiarazione alla stampa, può suscitare reazioni su bersagli sensibili quali i mercati.

Intanto il nuovo ministro ha davanti tanti impegni, non semplici da ‘onorare’, come il disinnesco delle clausole di salvaguardia, che potrebbe creare comunque problemi e malcontento. Parlando alla platea di Confcommercio alcuni giorni fa, al riguardo, il ministro del Lavoro Luigi Di Maio, ha stimato che ci sarà un costo di 12,4 miliardi di euro il prossimo anno, e 19,5 miliardi nel 2020.

Restano tuttavia un’incognita le risorse da reperire per la copertura finanziaria. L’aria che tira in proposito sarà più chiara dopo il 19 giugno, quando in Parlamento si affronterà il tema del Def. Da qui partiranno i primi interventi – dopo la risoluzione della maggioranza – sulla procedura da avviare in termini di applicazione della dual tax, per imprese e famiglie.

E contemporaneamente si aprirà il varco per disinnescare le clausole di salvaguardia, i due interventi sono legati. Sulla Flat, si stima una spesa iniziale di circa 30 miliardi di euro, ai quali si aggiungeranno gli oltre 12 miliardi per evitare che scatti l’aumento dell’Iva il prossimo gennaio (al 24,2%).
Sfide importanti per il nuovo esecutivo, e per Giovanni Tria, quasi fondamentali per l’attuazione del programma. Afferma il ministro in proposito:

“Nella nota di aggiornamento del Def saranno presentati i nuovi conti, appuntamento previsto nel prossimo settembre. Conti che, per ovvie ragioni, devono essere coerenti con l’obiettivo della riduzione sostanziale del rapporto debito/Pil. E’ uno degli impegni più decisivi, sottolineato anche il presidente del Consiglio. Si lavora per la crescita dell’occupazione, attraverso un programma basato sulle riforme strutturali, che col tempo creerà le basi per condizioni più favorevoli in termini di investimenti e opportunità di lavoro.

Il ministro Tria si esprime in modo rassicurante, indirettamente anche verso i mercati, non intende aggiungere paglia al fuoco, alimentare allarmismi o foraggiare la speculazione. E’ una fase di transizione e di svolta, un passaggio delicato, che è necessario attraversare con la dovuta cautela. Per questo non si stanca di ripetere che bisognerebbe affrontare le difficoltà con senso di equilibrio e responsabilità, senza angosce, “anche perché, sostiene, i fondamentali della nostra economia sono a posto.”

Certo, non manca di precisare, la zavorra del debito pubblico, è un’eredità ingombrante che viene da lontano..
E poi c’è la Legge Fornero, così tanto demonizzata, eppure così intoccabile secondo Confindustria..
“Via la legge Fornero, e partiamo” – dichiara il ministro del Lavoro Di Maio.

Il Contratto relativo al programma Lega- Movimento 5 Stelle, precisa, è fondamentale per l’attuazione, e quindi l’abolizione degli squilibri del sistema previdenziale introdotti proprio dalla riforma delle pensioni, che comporterà un budget di spesa di circa 5 miliardi di euro.

Il ministro Tria al riguardo è piuttosto cauto, non si è espresso sulla volontà di abrogare la riforma Fornero, né fa riferimento alla proposta della coalizione sulla nota “quota 100”. Egli sostiene che la riforma necessita d’interventi di miglioramento, ma non si esprime sull’immediata abrogazione. Troppi nodi e troppi ‘nemici’ dietro la porta. La riforma Fornero è stata, nella precedente legislatura, il delicato ago di una bilancia, e non sarà facilissimo spazzarla via.

Secondo Giovanni Tria, non si può andare allo sbaraglio sulla materia: “in tema di sistema pensionistico, è necessario, non solo guardare a breve, ma soprattutto a medio e lungo termine, e valutarne le conseguenze.”

C’è la prudenza in persona, alla guida del Mef, e del resto, i tempi sono delicati come calici di cristallo, essere impulsivi e avventati, potrebbe alimentare il rischio, comunque sempre presente per la stabilità dell’economia italiana in questo momento.

TORNA IL CLIMA DI FIDUCIA NEI MERCATI, MALGRATO GLI ESITI TURBOLENTI DEL G7

DI VIRGINIA MURRU
 
Le borse europee modificano il trend negativo, e oggi, in apertura di seduta, l’esordio è decisamente positivo. I mercati sono stati notevolmente galvanizzati dalle dichiarazioni del nuovo ministro dell’Economia Giovanni Tria, il quale ha espresso la volontà di non allontanarsi dalla strada dell’euro, e di escludere inversioni di rotta al riguardo.
 
Un’affermazione importante, rassicurante, che in qualche modo riafferma il principio della stabilità della quale i mercati hanno bisogno per operare in sicurezza.
 
Rassicurazioni che hanno portato bene al fronte valutario, all’euro che ha fortemente risentito dello stallo in cui si è venuta a trovare l’Italia nella formazione del nuovo esecutivo.
Piazza Affari sta ottenendo nelle prime ore di questo lunedì ottime performance, guidata dal settore bancario che fa da traino, in particolare da Unicredit e BPM; l’indice Ftse Mib è in rialzo, in area 21.880 punti.
 
Attese novità dalle Banche centrali, il Consiglio dell’Eurotower giovedì prossimo potrebbe decidere la fine, già peraltro ventilata, dell’acquisto di asset, scelta importantissima, così tanto invocata dagli esponenti dell’alta finanza tedeschi, i quali hanno sempre avversato la politica monetaria della BCE.
Si attendono al riguardo indicazioni prospettiche, ossia una forward guidance orientata sulla svolta della politica monetaria.
 
Possibile anche l’annuncio, in settimana, della Fed, che si accingerebbe ad una nuova stretta monetaria, la seconda del 2018, quasi certo un intervento di rialzo sui tassi.
 
L’esito piuttosto turbolento dell’ultimo G7, che si è tenuto in Canada, chiuso in tensione tra il primo ministro canadese Trudeau e Trump, non sembra avere impressionato i mercati, neppure quelli asiatici, a parte le piazze cinesi di Shanghai e Shenzhen, lievemente in negativo.
 
Le borse asiatiche non sono nemmeno preoccupate per la delicata situazione geopolitica tra Usa e Corea del Nord; l’incontro tra il presidente Donald Trump e Kim Jong-Un è imminente. La Borsa di Tokyo ha chiuso in rialzo.
Delle tensioni serpeggianti che si sono addensate sul tentativo di un accordo con Donald Trump al G7, circa i provvedimenti sui dazi, non c’è ombra di schiarita.
 
Anche quel barlume di possibilità che era trapelato tra i capi di Stato dei 7 paesi più industrializzati del pianeta, è svanito con un tweet di Trump, lapidario:
 
“Non sosterremo più l’intesa finale, stiamo pensando ai dazi sulle auto importante negli Usa..”
 
Altro che accordi, il clima di conflitto commerciale tra Stati Uniti, Ue, Canada, Cina e altri paesi nel mirino dell’amministrazione Trump, continua in un braccio di ferro che sta rischiando di creare un cerchio di forti tensioni sul piano internazionale, specialmente nelle relazioni commerciali.
 
Trump contro tutti, in particolare nei confronti del premier canadese, il quale, sostiene, “avrebbe pugnalato alle spalle i delegati Usa”. E tutti contro Trump, Angela Merkel in testa, che peraltro è stata messa in guardia da Trump sui Fondi Nato.
Due giorni di negoziati e incontri bilaterali, per trovare soluzioni all’impasse sui dazi, i quali sembrano filo spinato, un muro di confine invalicabile.
 
E’ già tanto che i mercati per il momento non si siano lasciati condizionare, Piazza Affari è stata una sorpresa stamattina, dopo settimane d’inferno, in un’escalation che stava rischiando di diventare drammatica. Risorse ingenti sono state bruciate e immolate all’instabilità politica del Paese; ora secondo gli esperti, è diventato strategico recuperare i 22mila punti di quota, affinché costituisca un incentivo per la fiducia nelle contrattazioni.
 
Delle tensioni roventi tra Usa e Canada ne ha risentito il dollaro canadese, mentre l’euro recupera sul dollaro, per quel che concerne il versante valutario, e infatti il cambio va su dello 0,3%, ora quindi è a 1,182.
 
Sulla medesima lunghezza d’onda positiva, la scia di umori nell’ambito del differenziale di rendimento, tra Btp e Bund: il percorso si avvia verso il calo, in mattinata è intorno ai 240 punti base, il rendimento dei decennali italiani intorno al 2,9%.
 
 
 

FUORI DAI TARGET AD APRILE GLI ORDINI ALL’INDUSTRIA IN GERMANIA

DI VIRGINIA MURRU
Ogni tanto anche l’economia più prospera dell’Unione europea, ovvero “la prima della classe”, inciampa su qualche performance non propriamente in linea con i dati tendenziali riguardanti la crescita. “E’ tutto normale – rassicura però il governo – sono risultati destinati a rientrare in un trend positivo di espansione”.
Il calo non è comunque una sorpresa, nonostante quello che si scrive al riguardo, visto che il 2018, per quel che concerne gli ordinativi all’industria, non è partito benissimo. Ad aprile, secondo i dati statistici diffusi da Destatis, sembra che gli ordini abbiano subito una flessione pari al 2,5%, in termini destagionalizzati, mentre su base annua si va a -0,1%, rispetto al calo rilevato a marzo (che era stato rivisto da -0,9%) dell’1,1%.
Gli analisti si aspettavano un incremento dello 0,8% su base mensile, ma gli ordini esteri sono calati del 4,8% e quelli domestici sono in flessione: – 0,8%.
In calo anche gli ordinativi provenienti dall’area euro: -9,9%.
Si parla tanto di ‘dati inattesi’, ma in realtà il calo degli ordini all’industria riguarda gli ultimi quattro mesi, seondo i dati diffusi dall’Agenzia federale di statistica, Destatis. Dopo il dinamismo registrato nell’ultimo trimestre del 2017, il nuovo anno non è partito con slancio, e già il terzo trimestre ha dimostrato una tendenza alla flessione.
Ad aprile, la bilancia commerciale, destagionalizzata, ha messo in rilievo un saldo positivo pari a 19,4 miliardi; anche qui siamo in calo se rapportato al dato di marzo, che era di 21, 5 miliardi. Gli analisti si aspettavano un avanzo di circa 21 miliardi, dunque inferiore alle attese. Si pensa che il dato abbia risentito dell’incremento delle importazioni, pari a +2,2%, variazione sempre su base mensile.
Al ministero dell’economia contano sul portafoglio ordini più positivo per la seconda metà dell’anno, anche se qualche timore resta, dato che le aspettative erano diverse.
C’era stato un lieve incremento a febbraio, ma la produzione industriale in Germania dà segni di cedimenti da alcuni mesi, dopo un anno di forte espansione nel 2017. Sono poi diversi gli indicatori che vanno fuori dai target.
La produzione industriale a febbraio ha messo in rilievo una contrazione dell’1,6%, un gap notevole se si considera che il prospetto degli analisti era rivolto alla crescita, sia pure lieve dello 0,3%. Certamente il braccio di ferro sui dazi tra Usa e Cina non crea il clima migliore, ma a prescindere da questo, l’economia tedesca ha espresso nel 2018, qualche segnale di arresa. Non tale da metterne in discussione la solidità, ma sono risultati che restano comunque, secondo gli economisti, una sorta di fulmine a ciel sereno.
Il ministro delle Finanze tedesco, Olaf Scholz, non sembra molto ottimista quando afferma che “la produzione industriale ha perso slancio”, e mette in guardia dal rischio di un serio rallentamento. Tanti sono infatti gli indicatori sulla salute del “Made in Germany” che scricchiolano, fin dai primi mesi dell’anno. Si tratta di scosse nel sistema che, per ovvie ragioni, mettono in allarme il governo della Cancelliera.
Cedimenti in diverse aree, dunque: dalla produzione industriale, ai servizi, alla bilancia commerciale, al grado di fiducia di investitori e classe imprenditoriale.
A febbraio scorso, la produzione di beni capitali era diminuita del 3,1% in un solo mese, mentre quella dei beni al consumo dell’1,5%, insieme ad altri comparti, come le costruzioni, in negativo del 2,2% in un mese.
A questi cedimenti si aggiunge il vero e proprio tracollo dell
a domanda nel settore dei veicoli ferroviari, navi e aerei. In questo versante gli ordini sono crollati del 35,9% rispetto al mese precedente (mese di riferimento aprile).
Secondo il ministero dell’Economia sono dati in relazione con la carenza di ordinativi di “veicoli diversi dalle automobili e dai camion, oltre che da beni strumentali”, in flessione per il 5,6%.
Un crollo di quattro mesi consecutivi negli ordini all’industria non si verificava dal 2012.
Sicuramente questa successione di dati negativi ha creato perplessità, e non solo tra gli analisti tedeschi.

FLAT TAX DAL 2020 PER TUTTI. PACE FISCALE DA SUBITO

DI VIRGINIA MURRU

 

DISSESTO 10 BANCHE: COMMINATE SANZIONI PER SOLI 67 MLN, MA 28 MLD DI PERDITE

DI VIRGINIA MURRU
 
Sono stati 10 gli istituti di credito italiani interessati dalla crisi, le conseguenze hanno lasciato segni profondi nel settore, dai quali si rilevano perdite per gli azionisti e risorse non di poco conto elargite con interventi pubblici dello Stato. Il dissesto delle banche è costato anche in termini di perdita di posti di lavoro, una delle conseguenze più serie.
 
Ma secondo il segretario di First Cisl, Giulio Romani, non esiste in Italia una legge che disciplini il “disastro” bancario, una lacuna inaccettabile, e per questo non si possono sanzionare veramente i responsabili. Inoltre, secondo il segretario Romani, occorrerebbe un garante pubblico nei Consigli di Amministrazione, proposto da Banca d’Italia e Mef, nonché una rappresentanza di dipendenti nei principali Organi di Controllo.
 
First Cisl ha portato avanti in questo ambito uno studio articolato, dal quale si rileva che “le sanzioni a manager e istituti di credito aggrediti dalla crisi nel 2011, sono state pari a 67 milioni di euro. Intanto, i vertici delle banche, hanno beneficiato di bonus per un importo pari a 113 mln di euro.. Importi che francamente questi istituti non si potevano permettere.
 
Lo studio approfondisce dunque la ricerca sulle 10 banche colpite dalla crisi, che comunque sono purtroppo note: Monte dei Paschi, Banca Etruria, CariChieti, Banca Marche, in seguito passate a Ubi e Carife transitata su Bper. oltre alle due Banche Venete (Poplare Vicenza e Veneto Banca), che sono finite nel gruppo Intesa Sanpaolo. Le tre casse acquisite da Cariparma, ossia Carismi, Caricesena e Carim.
 
Pessima la gestione, troppi compensi agli amministratori, le 10 banche travolte da scelte scellerate, hanno causato esiti veramente drammatici, secondo First Cisl, a partire dal 2011, ossia: 27,6 mld di perdite, 10,6 miliardi di risorse pubbliche impiegate per affrontare le emergenze finanziarie, 3,4 miliardi di finanziamenti del Fondo Atlante, inghiottiti dal dissesto, 4,7 mld ottenuti dal Fondo di Risoluzione.
 
A fronte di tanto spreco, il dato più eclatante: 14mila posti di lavoro persi, bruciati, ai quali, secondo gli studi di First Cisl, si sommano 5.000 uscite in Intesa, 470.000 azionisti che hanno in pratica perso in parte o del tutto i loro risparmi, nonché migliaia di obbligazionisti coinvolti nella medesima deriva. A questi ultimi sono stati rimborsati 181 milioni provenienti dal Fondo interbancario.
 
E’ possibile che si sia arrivati a tanto nella gestione di questi istituti, senza una sosta per fare dei rendiconti e prendere tutti i provvedimenti del caso, piuttosto che lasciare fluttuare queste barche che continuavano a perdere acqua da tutte le parti? Il segretario di First Cisl è veramente sconcertato, le ricadute di carattere economico-finanziario e occupazionali, sono veramente gravi.
 
Dichiara il responsabile dell’Ufficio studi di First Cisl:
 
“Fa specie lo scarso potere di controllo e deterrenza esercitato dalle Autorità italiane ed europee, i cui meccanismi sanzionatori non hanno saputo incidere e punire i responsabili, tanto che le sanzioni comminate risultano in definitiva la metà dei compensi elargiti con eccessiva generosità agli amministratori”.
 
 

ALITALIA. INDAGATI 3 AMMINISTRATORI DELEGATI PER BANCAROTTA FRAUDOLENTA

DI VIRGINIA MURRU
E’ la procura di Civitavecchia, guidata dal dott. Andrea Vardaro, che sta conducendo l’inchiesta sul crac Alitalia per bancarotta fraudolenta, dalla quale emerge un’insolvenza di oltre 400 mln di euro. Nel registro degli indagati alcuni manager che hanno svolto importanti funzioni ai vertici della compagnia.
 
Alla notizia ha dato ampio risalto “La Stampa”, i nomi dei tre Ceo, che hanno svolto il loro ruolo prima della gestione commissariale, hanno suscitato un pò di clamore, nonostante fosse ovvio che a monte della deriva Alitalia vi fossero responsabilità precise riguardanti le precedenti amministrazioni.
 
Si tratta di tre Amministratori Delegati, gli ultimi della gestione Etihad, personaggi di grande rilevanza nel mondo dell’imprenditoria: Luca Cordero di Montezemolo, Silvano Cassano e Mark Ball Cramer (australiano). Tutti con accuse di responsabilità nel crac che ha travolto Alitalia, dando avvio, nel 2017, al commissariamento.
 
Una settimana prima la procura aveva ordinato il sequestro, eseguito dalla Guardia di Finanza, di documenti, file e materiale utile alle indagini (nonché
computer), negli uffici dell’ex compagnia di bandiera italiana.
L’inchiesta è partita dai rendiconti dei liquidatori, i quali hanno constatato responsabilità di gestione negli anni precedenti il commissariamento (cominciato a maggio 2017).
 
Tra le cause d’insolvenza riferimenti a precise condotte ed errori che hanno poi determinato il dissesto della società. Oggetto di valutazione delle irregolarità è stato il bilancio, l’ultimo depositato, il quale mette in evidenza una perdita d’esercizio di oltre 400 milioni di euro.
 
Le relazioni dei commissari, sulle presunte colpe dei tre Amministratori Delegati, sono state depositate a Civitavecchia, presso la Procura competente per territorio. La sede di Alitalia è infatti Fiumicino.

MOODY’S AVVERTE: 12 BANCHE ITALIANE A RISCHIO DOWNGRADE

DI VIRGINIA MURRU

 

Non è a rischio di declassamento solo l’economia italiana, ma anche 12 istituti di credito, tenuti sotto osservazione dall’Agenzia di rating Moody’s. Una sorta di effetto collaterale del possibile downgrade al quale è esposta l’Italia a causa della forte instabilità politica emersa nelle ultime settimane.
Non mancava che questo all’incubo degli “spettri ” che imperversano sul Paese.
Al momento sotto questa insidiosa lente d’ingrandimento c’è Banca IMI, Cdp, Unicredit, Mediobanca, BNL, Cariparma, FCA Bank, Cassa Centrale Raiffeisen, Credito Emiliano, Invitalia, Intesa Sanpaolo e Banca del Mezzogiorno.
Un bel drappello del comparto bancario che potrebbe passare sotto i cingoli impietosi dell’Agenzia statunitense, a seguito della riduzione dei rating sovrani dell’Italia, ma anche per ‘demerito’ di questi istituti stessi, causato dalle non ottime performance a livello operativo, dalle perdite conseguite e ridotta capitalizzazione, nonché scadimento nella qualità degli asset.
Queste le ragioni addotte da Moody’s Corporation (società con sede a New York). Per ora è un monito, e per prevenire la ‘sentenza’ definitiva occorrono misure immediate, prima di tutto in ambito politico, e poi in quello finanziario.
Sotto osservazione anche un nutrito elenco di utility, dunque si considera l’eventualità di abbassare i rating a lungo termine di Società che erogano servizi alle famiglie, quali Hera, Snam, Terna, Compagnia Valdostana delle acque, Italgas, Cdp Reti. Sotto analisi anche i più importanti gruppi del Paese (sempre in ambito servizi) : Rai, Poste ed Eni.
Dalla mannaia di Moody’s per ora saranno escluse Enel, Acea ed Edison.
Il rating attuale italiano è Baa2, e resterà tale qualora si portassero avanti interventi tanto significativi da persuadere queste “ombre sul fianco” che il Paese si è rimesso su una traiettoria di autentica ripresa, attraverso un piano di riforme strutturali che costituisca una garanzia, ovvero solide credenziali per il futuro.

SPREAD BTP-BUND, RIFLESSI NEGATIVI OLTRE I CONFINI EUROPEI

DI VIRGINIA MURRU

 

Inutile cercare eufemismi, l’Italia sta vivendo uno dei momenti più drammatici, purtroppo non solo nel versante politico, ma anche in quello economico-finanziario (semmai queste variabili interdipendenti potessero essere considerate in modo disgiunto..). Momenti in cui anche le parole diventano cristalli da maneggiare con cura, perché possono essere recepite e interpretate nella loro pura accezione letterale.

I mercati finanziari sono diventati bersagli sensibili, più che mai. Certo era evidente per tutti che i risultati delle urne, in Italia, avrebbero portato sconvolgimenti negli assetti politici, e ribaltato gli equilibri in Parlamento, ma francamente era difficile presentire un tale dissesto.

Non era previsto questo sconquasso generale, e le ripercussioni così pesanti sul piano finanziario, con Piazza Affari che sembra essere diventata un faro che trasmette segnali di allarme in tutto il pianeta.

Che l’Italia, da seconda economia industriale europea, esercitasse il suo peso in ambito Ue, e l’Eurozona in particolare, era evidente, ma che rischiasse di essere pure determinante per la solidità dell’Euro, era una concezione lontana, o meglio: non era in discussione.

Dalla settimana scorsa lo spread sembra l’ago di una bussola impazzita, nei mercati si avverte tensione al limite del panico, e così si susseguono le sedute, una dopo l’altra. con avvio e chiusura in negativo.
Oggi l’indice Ftse Mib è ancora in perdita: -1,8%, a 21.535 punti. Nel mirino di questa crisi politica, che tutto sta travolgendo sotto il suo passaggio, i maggiori istituto di credito italiani, che con fatica stavano riacquistando credibilità sul piano internazionale.

Nei giorni scorsi ci sono state perdite consistenti registrate da Unicredit, Bpm, Mps. Anche Poste è stata interessata dal cliclone, ma ovviamente il repertorio è ben più ampio. Oggi l’avvio a Piazza Affari non promette di meglio, le banche in primo piano, le più bersagliate nel sistema.

Solo ieri a Milano il Ftse All Share (indice di tutti i titoli del listino), ha lasciato sul campo l’1,88%, mandando così al rogo 12 mld di euro. Ora il saldo della capitalizzazione, bruciato in una decina di sedute, va oltre i 62 miliardi di euro. Sempre ieri sera lo spread ha chiuso in forte ascesa: a 233 punti base.

Sul settore bancario sta imperversando il sell-off, effetto di un certo panico diffuso nei mercati, causato dall’ascesa turbolenta dei rendimenti sul Btp, mettendo in risalto la relativa solidità di un comparto che ancora stenta a riprendere quota. E così l’osservatorio internazionale punta la lente da vicino agli istituti di credito italiani. Ieri, intanto, l’indice Ftse All-Share Banks, ha chiuso in forte perdita: -3,67%, e tanti titoli che a causa del sell-off percorrono la via della volatilità.

La causa principale di questa ‘aggressione’ all’indice del comparto bancario è, neanche a dirlo, lo spread; le conseguenze, se l’andamento negativo dovesse persistere, è di un’inversione del trend principale, (rispetto ai mesi precedenti).

La coalizione Lega-5Stelle non è andata avanti con la formazione del nuovo governo, e dunque la mancanza di stabilità pesa come il piombo sull’attendibilità di una nazione solida sul piano politico ed economico. Tanto basta ai mercati per scatenare reazioni a catena, che col passare dei giorni diventano sempre più insidiose per la precarietà dei conti pubblici del Paese.

Ancora incertezza in prospettiva, dunque, e gli effetti, come un boomerang, stanno intaccando l’euro, che è diventato nelle ultime settimane vulnerabile, non solo nei confronti del dollaro. Il monito del presidente della Confindustria, Vincenzo Boccia, non è da sottovalutare: “L’Italia senza l’euro? Sarebbe davvero la fine, non si può nemmeno scherzare su certe cose.”

Intanto, se non ci saranno le premesse per una solidità politica degna di questo nome, sarà come costruire alle pendici di un vulcano in eruzione, tutt’altro che in stato di quiescenza. Gli effetti della crisi politica sono stati amplificati sul piano finanziario, perché il Paese aveva solo negli ultimi anni intrapreso la strada delle riforme strutturali e del controllo dei conti pubblici. E proprio su queste fondamenta ancora ‘fresche’, non propriamente solide, si è scatenata una tempesta praticamente senza precedenti a livello politico.

Piazza Affari ha influenzato i mercati europei, ma, come si è accennato, anche il resto del pianeta. Proprio oggi è evidente che il ‘contagio’ è giunto anche sulle borse asiatiche, che danno una lettura forse distorta delle nuove elezioni che si svolgeranno quasi sicuramente entro l’anno in Italia. Il rimando è alla possibilità che l’esito sia un test sulla permanenza o meno in area euro.

Una crisi al di là di ogni valutazione o previsione, nessuno immaginava che diventasse simile ad un sasso scagliato in una superficie d’acqua più o meno immobile, e che le sue onde concentriche finissero per arrivare anche nei punti più lontani del pianeta.

L’auspicio ovviamente, per tutti, è che questo clima di emergenza finisca, se continuasse sarebbe davvero arduo delimitarne i confini. Già qualche flessione nella produttività sul piano globale si avvertiva, ora potrebbe innescare effetti imprevedibili.

Forse non sarebbe poi così improprio il rimando ai mutui subprime, i quali sembravano una mina vagante e sommersa, che in breve tempo avrebbe esaurito il suo potenziale esplosivo, e invece, prima che ciò sia avvenuto, si sono bruciate immense risorse, non solo negli Usa, e poi inevitabilmente in Europa, ma anche oltre.

MOODY’S. SULL’ITALIA INCOMBE LA MINACCIA DI DECLASSAMENTO DEL RATING

DI VIRGINIA MURRU
L’Agenzia di rating statunitense, Moody’s, ritiene critico il nuovo assetto politico in Italia, dichiara che il Paese è sotto osservazione, e stima alquanto probabile un declassamento.
La decisione è maturata in seguito al “rischio concreto d’indebolimento in termini di efficienza del bilancio, considerati anche i punti programmatici fondamentali presentati dalla nuova coalizione di governo, nonché dal venire meno degli interventi diretti alle riforme strutturali. C’è poi l’incognita sul versante del Welfare, in particolare il ribaltamento proposto in ambito pensionistico.”
Un mezzo sisma che, secondo l’Agenzia, potrebbe aprire crepe e voragini in un sistema già di per sé vulnerabile.
L’orizzonte politico è tempestato di nebbia, e l’ipotesi di un downgrade non è catastrofismo, può essere la semplice conseguenza maturata all’ombra di troppe incertezze. Intanto il rating BBB del Belpaese è a rischio, ci aveva promosso per la prima volta a ottobre scorso S&P, che non ha la ‘promozione’ facile.
Moody’s però non è nuova alle incursioni sull’economia italiana: aveva minacciato declassamenti anche alla vigilia del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, dichiaratamente schierata verso il ‘Sì’.
Ma con Moody’s (Agenzia di rating americana) non si salva nessuno, nemmeno gli Usa, esplicitamente messi in guardia proprio a febbraio scorso, a causa delle politiche fiscali e protezionistiche dell’Amministrazione Trump, oltre che per l’incremento del debito federale.
Senza dimenticare che a gennaio 2017, il Dipartimento di Giustizia americano, a sua volta, non ha fatto sconti all’Agenzia di rating con “marchio” Usa: le ha infatti comminato una sanzione per diversi milioni di dollari (per la precisione 864 mln), a causa di un “taroccamento” dei suoi rating (di alcuni) – che erano ad alto rischio – e per non avere rivelato i pericoli ai quali erano esposti.
Si tratta degli anni precedenti la crisi scatenata dai mutui subprime, ma il Dipartimento di Giustizia non ha sottovalutato l’operato di Moody’s e l’ha messa sotto accusa.
Proprio in quel periodo l’Agenzia canadese Dbrs, aveva declassato l’Italia, la quale perse l’unica ‘A’ rimastale, che però le consentiva di usare i titoli di Stato quale garanzia di possibili finanziamenti, e che sono poi costati al settore bancario 30 miliardi di euro. Le maggiori Agenzie di rating hanno un potere enorme, e lo esercitano a tutto campo.
Proprio perché esercitano un grande strapotere, e condizionano i mercati, sono uno spettro perennemente incombente, al punto che in un meeting del G20, di recente, c’è stata la proposta di abolirle: sono viste come degli avvoltoi che si avventano non di rado sulle fragilità
economiche degli Stati, anche quelli più potenti e blasonati.
L’Italia, insomma, non è messa bene; non solo sul piano interno, ma anche oltre i suoi confini. Siamo marcati a vista, controllati, tallonati da orde di autorità che giudicano, valutano la congiuntura economica e lo stato di dissesto sul piano politico, e poi esprimono prognosi e diagnosi, talvolta infauste, come si accingerebbe a fare, appunto, Moody’s.
Si tratta comunque di un giudizio che incombe su un’economia, quella italiana, in via di ripresa da una crisi che aveva già messo in ginocchio Paesi ben più solidi. Il Paese ci stava provando, e l’impianto strutturale dei nuovi interventi messi sul campo stava producendo i primi buoni risultati.
Tuttavia, l’esito delle ultime consultazioni elettorali, hanno espresso una forte smania di svolta sul piano politico, un desiderio ineludibile di cambiamento.
Un ciclone che ha fatto la sua irruzione su uno status quo  non  in fin dei conti preparato al grande salto, ad un’inversione di rotta così epocale, perché l’avvicendamento presuppone davvero un cambio di guardia e azzardi che lasciano perplessi e intimoriti, in primis i mercati finanziari.
Che già hanno detto la loro, e non è stata una risposta di assenso e di ripiego. In ogni caso, le due forze politiche vincenti, che si accingevano a guidare questa svolta così chiacchierata all’estero, avevano i numeri e l’investitura del popolo per governare.
Certo con tutte le riserve del caso, ché quel programma somigliava un po’ al cappello di un illusionista, ma era giusto provarci, magari l’azzardo, e il luogo comune che vuole vincenti gli audaci, poteva funzionare.
Intanto l’Italia è precipitata nel kaos, e purtroppo siamo pure costretti a subire, non solo anatemi e minacce dalle autorità finanziarie di mezzo mondo, ma anche l’ironia pesante fino all’insulto di certa stampa mainstream.
Moody’s, a quanto pare, ha un’altra freccia pronta sulla faretra: sorveglia i conti pubblici italiani, e soprattutto l’incidenza del debito sovrano sul Pil. Chiaro il ringhio dei mercati nei confronti del nuovo assetto politico, che minaccia rivolta verso Bruxelles, e insomma, ci sono tutti gli ingredienti per creare un clima di destabilizzazione che porta verso l’ignoto.
Nessuno ignora che, almeno nel breve periodo, il nuovo programma politico, se attuato in modo ortodosso, secondo Salvini , potrebbe causare squilibri e pericoli in diversi settori, non ultimo quello bancario, che già ha lottato strenuamente per ridurre la consistenza degli Npl, con risultati apprezzabili, e gli encomi della BCE e Bruxelles.
Non si può ignorare o prescindere dal settore bancario (sarebbe a rischio con il programma della nuova coalizione politica), perché rappresenta la linfa di ogni economia, una sorta di “spia” lampeggiante e luminosa del suo “sistema immunitario”: quando è forte può tollerare incursioni e imprevisti del sistema, quando è “depresso”, può diventare un bersaglio e concorrere al travolgimento di un’economia, fino a causarne il default.

SPREAD IN FIBRILLAZIONE, RIFLESSO DI UN’INCERTEZZA POLITICA CHE FRENA I MERCATI

DI VIRGINIA MURRU

Lo spread Btp-Bund continua a salire (ieri è arrivato a 216 punti base), ultimo rilevamento delle 8:00 di oggi è di 206,7 pb), ossia un differenziale di rendimento ai massimi da quattro anni a questa parte. L’eziologia di questa febbre è evidente: l’incertezza di un quadro politico che i mercati interpretano con preoccupazione. Resta il fatto che in una decina di giorni Piazza Affari ha visto andare in fumo oltre 51 miliardi. Madrid non ha saputo fare di meglio, ma il Pil in Spagna viaggia a +3%, ossia al di là della media europea (2,4%), e marcia in positivo con +3% da tre anni consecutivi. Tutta un’altra storia.

La Borsa di Milano ha rilevato ieri perdite pesantissime  tra i maggiori istituti di credito (oggi a inizio seduta Piazza Affari è in negativo): Bpm è andata a -7,3%, Mediobanca -4%, Unicredit -3%, Intesa Sanpaolo -4%; insomma i maggiori istituti hanno subito le pressioni negative provenienti dalle incertezze dell’orizzonte politico. Vanno giù anche Eni e Saipem, che hanno risentito del calo di prezzo del petrolio.

Un baratro che si è aperto in poche settimane, dato che lo scorso 7 maggio, il Ftse Mib a Piazza Affari aveva chiuso la seduta con un massimo storico, risultati che non si vedevano dal 2008.

L’insofferenza di Matteo Salvini verso i richiami provenienti da Bruxelles, è una spia che lampeggia verso l’euroscetticismo, e un programma politico che certamente sarà espressione dell’ostilità nei confronti delle autorità dell’Unione europea.

In un momento così delicato per l’Italia, mentre l’economia negli ultimi anni ha cercato di risollevarsi da una congiuntura pesante e molto critica, allontanarsi dall’Europa non sembra indice di buon senso e di prudenza. In un momento in cui l’Italia stava imboccando la strada non semplice del controllo del debito, che da circa un anno ha cominciato a contrarsi, pensare ad un cambiamento di rotta, e avviarsi verso un itinerario politico ed economico, con un programma tempestato d’incognite, non sembra la chiave giusta per traghettare il Paese in una sponda che offra davvero la garanzia di una svolta sicura.

Certo, lo spread a 215 punti base rievoca lo spettro dell’incubo che l’Italia ha vissuto nel 2011, quando si superarono i 500 pb, e si scivolava inesorabilmente verso la recessione, mentre Fitch prendeva atto di quella bussola che sembrava impazzita, e tagliava il rating a 8 banche.

Momenti che dovrebbero fare riflettere, ma seriamente. La fiducia, in particolare all’estero, non è alle stelle. Il nuovo esecutivo presenta punti di programma (Flat tax sul piano fiscale, che rischia di danneggiare e non poco gli istituti finanziari, ma non solo..), che potrebbero destabilizzare i conti pubblici, già in sofferenza. “Bastano pochi mesi per smarrire le redini” – avverte l’attuale premier Gentiloni.

Ma è un coro unanime la sfiducia che circola negli ambienti finanziari, tra i pareri degli economisti ed analisti di tutto il mondo: questo è un governo che rischia di portare l’Italia allo sbaraglio.

Lo spread (termine inglese che significa differenza), torna ad agitare gli animi, ma perché si ha tanta paura del differenziale di rendimento tra i titoli italiani Btp (Buoni del Tesoro poliennali, che poi sono certificati di debito emesso dallo Stato, obbligazioni) e gli omologhi, ossia i Bund tedeschi?

La differenza consiste nell’indice di rischio che il titolo comporta per l’investitore che compra Btp e quello che acquista i Bund. Se lo spread aumenta, significa che nei confronti del Bund, il Btp esprime un rischio maggiore, e di conseguenza ‘prestare denaro allo Stato italiano’, è più pericoloso, perché lo stato dell’economia riflette incertezze di fondo, e potrebbe non garantire la restituzione del debito.

Lo spread ci dice, con i suoi punti base, quanto è più rischioso il Btp nei confronti del Bund, di per sé solido come una roccia, e per questo per il mercato è il più indicativo quanto a stabilità di valore.

Più aumenta lo spread, e più l’economia – in questo caso quella italiana – è vista dai mercati come un’incognita della quale diffidare, e come ovvia conseguenza anche acquistare Btp diventa un mezzo salto nel buio. Il contrario avviene quando il differenziale si riduce: è segno che ci si può fidare delle garanzie dello Stato, l’economia e i dati macro sono incoraggianti, e quindi acquistare Btp allenta il rischio per gli investitori.

Il metodo di calcolo del differenziale non è difficile, sostengono  gli esperti: si tiene conto di un Btp con scadenza a 10 anni, e si arriva al calcolo del rendimento alla scadenza del titolo. Poi si confronta, seguendo la stessa procedura,  con il Bund tedesco, sempre decennale. Sono i valori espressi dai due titoli che metteranno in evidenza la differenza di rendimento, e qui scatteranno anche i cosiddetti “punti base”.

Uno spread a 215 punti base, significa che il Btp italiano rende intorno al 2,15% in più rispetto al titolo di Stato tedesco. Può certo essere una buona notizia per chi investe, perché aumenta il rendimento, ma non lo è per lo Stato italiano, perché costretto a spendere di più, e perché dal maggiore rendimento si valuta anche il rischio d’insolvenza.

Lo spread pertanto rappresenta le due facce di una medaglia, ed è  uno degli indicatori che misurano lo stato di salute di un’economia.

 

LA CINA DIMEZZERA’ I DAZI SULL’IMPORT DI AUTO, GESTO DI APERTURA VERSO I MERCATI

 

 

DI VIRGINIA MURRU

 

La Cina, tramite una nota del Consiglio di Stato (State Council o Governo), comunica che abbasserà i dazi sull’import di veicoli dall’attuale 25% al 15%. Sulla componentistica per auto le tariffe saranno ridotte al 6%.

Il provvedimento scatterà il primo luglio. Non si tratta propriamente di un exploit a sorpresa, poiché, il Presidente Xi Jinping, lo aveva già annunciato lo scorso aprile (al Boao Forum for Asia), con un cenno significativo in merito: “i dazi sull’import di auto saranno notevolmente ridotti”. Una mossa strategica, che certamente ridurrà la fibrillazione sui mercati, dovuta al ‘conflitto’ commerciale tra Usa e Cina.

La tariffa del 25%, applicata fino ad ora sulle importazioni, era del resto molto penalizzante per l’industria del settore automobilistico all’estero, fin troppo protettiva nei riguardi del mercato interno. Certamente è un’ottima notizia per le Case automobilistiche europee, giapponesi e americane, dato che il mercato cinese ha un’enorme potenzialità sul piano globale.

La conferma di questa scelta importante del Governo cinese, arriva in un momento in cui c’è necessità di distensione, in particolare nei rapporti commerciali e diplomatici con gli Usa. Sembrerebbe in sintonia con l’arrivo – a breve in Cina – del Segretario al Tesoro, Steven Mnuchin. Ci si aspetta una ridefinizione dei negoziati tra le due super potenze.

Un’anticipazione sul provvedimento viene anche dall’Agenzia Bloomberg, la quale scrive di un “piano di imminente annuncio”, e, proprio nella seconda metà di maggio, mentre si svolgono gli eventi legati al Salone dell’auto di Pechino, si parla del contenimento dell’imposta sull’import di automobili, che potrebbe anche tendere ad una riduzione del 10% (dall’attuale 25%).

Una dimostrazione di ‘opening’ verso il mercato, tariffe che non possono essere lette tuttavia come semplici concessioni (all’Occidente in particolare), ma come uno stimolo alle vendite e all’offerta diretto alle Case automobilistiche. I marchi di lusso in particolare saranno avvantaggiati dalle nuove misure di Pechino, in quanto favorirà la competitività sul mercato globale.

E’ anche una strategia per rendere meno significative le differenze sui prezzi applicati dal mercato interno cinese, attraverso l’incentivazione dei consumi. Il Governo  ha considerato l’altro piatto della bilancia, ossia una perdita di quota considerevole nel mercato interno, ma l’intervento è giustificato in termini di stimolo verso una maggiore competitività: le Case automobilistiche cinesi saranno incentivate a migliorare la qualità dei veicoli prodotti, dato che i risultati attuali non sono certo eccellenti, non sicuramente in grado di competere con i migliori marchi esteri.

E’ certo un segnale di apertura, interpretato nel migliore dei modi dall’Unione europea, che ancora attende una risposta circa l’esenzione dei dazi su acciaio e alluminio, richiesta all’Amministrazione Trump; situazione temporaneamente sospesa, anche se negli ambienti di Bruxelles circola un po’ di ottimismo al riguardo. Sarà perché anche sugli Usa incombe l’ombra di una ritorsione commerciale, qualora si dia seguito all’imposizione delle nuove tariffe in ambito Ue.

Decisive per le relazioni commerciali tra i due blocchi, le trattative che avranno luogo nelle prossime settimane.

FMI. CRESCITA STABILE IN EUROZONA, IN ITALIA LA PRODUTTIVITA’ CRESCE SOLO DELL’1%, DAL 2002

DI VIRGINIA MURRU

Nonostante il Fmi cerchi di rendere meno amari per l’Italia i dati del “Regional Economic Outlook per l’Europa”, la situazione della nostra economia, anche alla luce delle vicende politiche legate alle ultime consultazioni elettorali, non sono edificanti. La produttività del lavoro è cresciuta solo dell’1%, dal 2002, un dato che fa riflettere, per il Fondo è quasi un monito.

Si avverte uno stato di allerta ovunque, la stampa internazionale sembra in fibrillazione per l’asse politico Movimento 5 Stelle-Lega Nord. Il Financial Times, (editoriale di ieri) parla di questa ‘pariglia’ della politica italiana come dei “nuovi barbari dentro i palazzi romani”. Il clima è già ostile, e questo non è un buon viatico per l’avvio delle attività del nuovo governo. Il quotidiano londinese rincara poi la dose:

“In Italia prende il potere il governo più inesperto che sia mai andato alla guida di una democrazia europea, a partire dalla firma dei Trattati di Roma”.

Se la fiducia sul nuovo governo fosse, per pura ipotesi, passata nelle mani delle maggiori Organizzazioni internazionali, stampa e Ue compresa, difficilmente avrebbe avuto il passaporto per governare.

Nonostante questo clima ostile, il Fmi, per quel che concerne le riduzioni degli Npl in ambito europeo, sostiene che l’Italia, insieme a Spagna e Irlanda risulta tra le più virtuose. Il Fondo riconosce gli sforzi compiuti per alleggerire gli Istituti di credito, tanto che la situazione è ormai nettamente migliorata. Le conseguenze positive si ritrovano sull’aumento del credito bancario al settore privato.

Il Fmi sottolinea tuttavia che, per una parte rilevante del sistema bancario, risulta poco soddisfacente la profittabilità, nonostante la ripresa economica. Alla base vi sono problemi di carattere strutturale, almeno per quelle banche che risultano meno efficienti a livello redditizio, le quali non incoraggiano per questa ragione gli investitori.

Nell’Outlook, il Fmi, esprime preoccupazione per le incertezze politiche e l’instabilità derivante dai nuovi governi eletti in diversi paesi europei, e non nasconde i rischi che la Brexit ancora rappresenta; il Regno Unito ha sempre avuto un complesso sistema finanziario, con ovvi legami all’economia globale. Uscire dal mercato unico potrebbe innescare meccanismi al momento difficilmente prevedibili. Ora, secondo gli studi del Fondo, se ne percepiscono comunque i rischi. E ancora riferimenti si leggono sul pericolo derivante dal protezionismo e la politica sui dazi dell’Amministrazione Trump.

Nel rendiconto ci sono poi i consueti riferimenti alla crescita economica della zona euro, al riguardo si confermano le stime del World Economic Outlook diffuso nel mese di aprile a Washington.

Si accenna appena al fatto che gli indicatori stanno segnalando qualche lieve rallentamento nell’area, nonostante questo non si intravedono pericoli seri, e il grado di crescita “resta solido”. Le previsioni sulla crescita, per l’anno in corso (area euro), vanno al 2,6%, mentre nel 2019 ci sarà una flessione, e la crescita si attesterà sul 2,2%. Il remark che dovrebbe tranquillizzare viene tuttavia dal trend di crescita positiva rilevato negli ultimi 19 trimestri, supportato da un’espansione economica diffusa , e un aumento degli indici di occupazione, investimenti e consumi, nonché ricchezza delle famiglie, in molti casi andati oltre i target.

E si arriva poi all’analisi più critica per i paesi che ancora oggi presentano un alto grado d’indebitamento, sempre in area euro. Nonostante il supporto del Qe, verso il quale il Presidente Mario Draghi è sempre prudente, i paesi che presentano criticità nei conti pubblici – qualora la politica monetaria diventasse meno accomodante – potrebbero affrontare d’ora in avanti costi di finanziamento più elevati. Tutto questo davanti ad un bilancio per il quale poco è stato fatto, così come in termini di riforme strutturali.

Nel “Regional Economic Outlook per l’Europa”, il Fmi conferma le previsioni già espresse per l’Italia: il Pil si confermerà all’1,5% nel corrente anno, ma subirà una riduzione nel 2019: ossia l’1,1%.

Sul piano europeo, il Fondo auspica che la politica monetaria della Bce non subisca variazioni che possano avere conseguenze nel trend di crescita dell’Eurozona, nonché sull’inflazione, uno dei principali problemi dell’Eurotower.
Nelle sue previsioni, il Fmi, elogia Cipro, risollevatasi dalla grave crisi e recessione del 2013, che ebbe come conseguenza “l’incursione” nel sistema bancario del bail-in, applicato in modo ‘forzato’, oggi viaggia sul versante economico a vele spiegate.

La ripresa dell’isola è stata rapida, tra le migliori dell’area euro, nel volgere di pochi anni. Ormai si accingono a superare l’Italia in termini di crescita, sono considerati più ricchi, secondo gli studi del Fondo, dato che nella tabella relativa al Pil pro capite, i ciprioti (nel 2020) supereranno gli italiani. E non si tratta di una partita di calcio, dove una squadra blasonata subisce una sonora sconfitta da una formazione di periferia. Ma del resto ci aveva già superato anche Malta pochi anni or sono.

Una batosta in più o in meno.. Ma il problema è che siamo già stati surclassati dalla Spagna, e non basta ancora. Secondo l’Outlook, e le previsioni per il prossimo quinquennio del Fondo, nel 2022 passeranno davanti all’Italia, ossia alla seconda potenza industriale europea (sempre in termini di reddito pro capite), Lituania, Repubblica Slovacca e Repubblica Ceca.

LEONE JACOVACCI. LA PAGINA PIU’ NERA DELLO SPORT ITALIANO

DI VIRGINIA MURRU
La storia di questo eccezionale boxeur è una vergogna tutta italiana. Grande pugile, campione dei pesi medi e medio-massimo, nato nei primi anni del novecento, le vicende che riguardano Jacovacci hanno rimandi leggendari, nonostante l’epoca in cui è vissuto, e la struttura di una società asservita ad un regime autoritario, quale il Fascismo poteva essere tra gli anni ’20 e ‘40.
Dopo un secolo, l’Italia, che prima ha fatto di tutto per ignorare il suo talento, lo ha dimenticato. E’ solo grazie a Mauro Valeri che le reali vicissitudini di questo campione italiano sono state portate all’attenzione della gente, e riscritte secondo criteri di obiettività. Valeri ha infatti pubblicato un libro di circa 500 pagine, “Nero di Roma”, edito da Paombi, nel quale ha ripercorso tutte le tappe e i traguardi dell’esistenza di questo straordinario sportivo italo-congolese. Ne è scaturito una sorta di ‘processo’ storico, civile e sociale, per dire pane al pane, e rivedere la Storia con una lente più chiara. Quella che si conosceva, anche attraverso il filmato dell’ incontro di boxe decisivo per il titolo italiano ed europeo, era una verità ‘manomessa’, scassinata e manipolata; un po’ bastarda.
Un documentarista, Tony Saccucci, partendo da ‘Nero di Roma’, e in collaborazione con l’Istituto Luce, ha poi portato lo scandaglio fin dentro i fondali di questa vicenda, denunciando gli abusi del regime, i cui tecnici, all’epoca, spezzarono la parte finale del video dell’incontro, proprio quando il giudice alza in alto il braccio del vincitore: ossia quello di Jacovacci..
Non si doveva sapere troppo in giro che uno sportivo di colore era il vero campione: era italiano ‘solo’ a metà.. Insomma, un abominio del più perverso razzismo. Il film-documentario è uscito nelle sale solo di recente.
Leone Jacobacci era un meticcio venuto al mondo esattamente nel 1902, in un paese africano, il Congo indipendente – anche se era in realtà un feudo del Belgio – da padre italiano e madre congolese, una principessa del posto, figlia del Capo Tribù.
Il padre, Umberto Jacobacci, persona istruita (era agronomo-ingegnere), riteneva che egli dovesse crescere a Roma, dove egli stesso aveva vissuto, così lo condusse proprio qui, affidandolo alla guida dei genitori, i quali faranno del loro meglio per impartirgli una buona educazione, ed un’adeguata istruzione.
Compito tutt’altro che facile, la società romana dei primi decenni del novecento non era quella imperiale, dove nelle strade era possibile trovare non solo barbari, ma persone che provenivano da tutti i paesi del Mediterraneo. Un meticcio, pertanto, soprattutto se facente parte della borghesia, poteva facilmente diventare oggetto di discriminazione. E per questa ragione la famiglia di Leone finì per trasferirsi nelle campagne del Viterbese. Senza saperlo, il bambino viveva già la sua prima esperienza di rifiuto ed emarginazione.
Nella personalità di Leone, fin da bambino, c’era però un forte istinto di libertà, e la tendenza a svincolarsi dalle regole che gli risultavano oppressive, per questo fuggì in diverse occasioni dagli istituti in cui era stato condotto per ragioni di studio. La severità, il clima di chiusura e forse di solitudine e squallore sul piano affettivo, non si confacevano al carattere irrequieto ed esuberante, non propriamente alieno alla disciplina, ma certamente insofferente alle regole dei collegi romani.
Dallo sguardo diretto e intenso, era possibile intuire che non avesse temperamento remissivo, rispettava chi gli stava intorno, ma aveva necessità di respirare liberamente senza eccessive imposizioni.
Come se il richiamo latente dell’Africa, fosse un’ombra discreta che lo accompagnasse e ne guidasse i gesti; non intendeva reprimere il senso di quell’appartenenza lontana. Così, quell’identità divisa a metà, tra Italia e Congo, sembrava in perenne conflitto dentro di lui.
Il padre di Leone rientrò a Roma nel 1916, e il bambino, per un breve periodo sembrò più sereno, ma l’istinto di allontanarsi per rincorrere un vago sogno d’indipendenza era insopprimibile: è attratto dal mare, e dentro l’animo misterioso del ragazzino, forse inconsciamente, si aprono i vasti orizzonti di libertà delle foreste africane.
Comunque cerca evasione, e sarà proprio il mare, voce ineludibile che chiama con prepotenza, a spingerlo a raggiungere Napoli, e qui a imbarcarsi in un mercantile inglese, con la ‘qualifica’ di mozzo. Non se ne cura, l’importante è andare, ogni maschera poi è valida, pur di lasciare il confine di una patria che gli ha mostrato il volto peggiore, quello dell’indifferenza, anzi peggio: dell’ostilità appena mitigata da un velo di tolleranza. Quello è il vero confine che deve abbandonare, l’Italia non è stata un nido accogliente, una patria della quale essere fieri. Nelle strade, nelle relazioni umane, la serpe del rifiuto strisciava silente, e Leone, sia pure adolescente, avvertiva l’acre sapore di quel veleno. Lontano dunque, fuori da quello squallore falsato da perbenismo.
Era stata probabilmente per una questione di rivalsa, che nel corso della prima guerra mondiale, Leone si era arruolato con l’esercito britannico; del resto si era lasciato alle spalle gli anni vissuti a Roma e dintorni, e aveva perfino cambiato identità: via anche il nome italiano. Da allora il rapporto con l’Italia sarà di odio-amore, diventerà il soldato Walker.
Eppure scorre dietro di lui un sottile soffio del destino, questa volta la boxe fungerà da trait d’union per un ritorno in Italia, anche se non immediato.
La sua seconda patria, forse sempre inconsciamente, lo richiama a sé, e Leone, che non poteva sopprimere quel vincolo di sangue, cercherà, nel volgere di pochi anni, di rifare un nodo stretto a quel legame: invano..
Finita, dopo la guerra, l’esperienza nell’esercito, si ritroverà a Londra nei pressi del Tamigi, quando verrà notato da un allenatore di boxe, che ha necessità di un pugile di colore per sostituire quello che ha disertato l’appuntamento col ring. Lo aspettava una sfida con un campione britannico, e Leone, che aveva solo un fisico asciutto e prestante, naturalmente dotato di ottimi muscoli, rischia e accetta l’improvvido incontro.
Pur essendo a digiuno di pugilato, con un allenamento approssimato, vinse l’incontro: ed eccolo il destino, a contare i suoi passi, a dirigerlo verso la gloria delle sfide combattute e vinte con orgoglio, ma anche sofferte, a causa di quel vecchio continente che non gli perdona di avere una madre africana.
Lascia Londra proprio per questo, perché ai pugili di colore non è consentito aspirare ai titoli più ambiti.
Delusione repressa, e altra migrazione, questa volta in Francia, che al contrario dell’Inghilterra sembra un porto franco. I pugili africani sono infatti apprezzati per l’impeto e la grinta che esprimono sul ring. Non importa se deve cambiare nome, diventando Jack (tiene il cognome Walker, però), l’importante è vivere alla pari, stringere mani meno ipocrite, confrontarsi con una dignità senza riserve di razza. Era quello che cercava, la dignità ti fa sentire in patria ovunque, senza compromessi vili, senza piegarti in obbedienza alla presunzione della superiorità.
Si sentiva a casa, Leone a Parigi, stimato e apprezzato per le sue indiscutibili doti professionistiche nella boxe, riesce così con forza ad affermarsi, ad andare oltre il filo spinato dell’intolleranza, a stabilire amicizie e relazioni durature. Aveva però dichiarato d’essere un afro-americano, e non riuscirà a provarlo, perché gli mancano i documenti. Risolse così di rientrare in Italia, sotto mentite spoglie, ma non per molto: decise infatti che di maschere ne aveva abbastanza. Confessa di essere italiano: “mi chiamo Leone Jacovacci..” E sulle prime i connazionali sono entusiasti di lui, perché sembra figlio di un cielo amico, che lo ha messo al mondo per vincere, già in retrovia. Leone è in effetti ben temprato, fin da piccolo, per essere un combattente, anche nelle strade storte e dissestate della vita. Non conosce arrese, neppure verso il subdolo nemico che lo lusinga, facendogli però sentire fin nelle ossa il “peccato” dell’origine.
Era leone di nome e di fatto. Si batteva davvero come un leone nell’arena, e non graziava nessuno, ben raramente subì disfatte sul ring, la vittoria, il senso di supremazia sull’avversario, sembravano scritte sui muscoli delle sue braccia, negli occhi pieni di sfida e smania di riscatto. Liquidava uno per uno i campioni europei dei pesi medi e medio-massimo. Sembrava invincibile come Sansone.
I titoli conquistati tuttavia non gli erano riconosciuti dalla Federazione italiana della Boxe. Con una serie di pseudo ragioni che partivano dal colore ambrato della sua pelle, e finivano nel delirio della razza ariana -della quale, per esigenze di regime, la stirpe italica faceva parte – lo si teneva ai margini, nonostante le eccezionali doti che aveva manifestato.
Milano contendeva a Roma il ring degli incontri più rilevanti in ambito europeo, e vantava campioni di primo livello; Leone era il ‘nero di Roma’, e la città pertanto lo considerava il proprio campione. Milano gli opponeva Mario Bosisio, campione italiano in carica.
Si organizzò un incontro ‘valido’ per il titolo italiano a Milano, durante il quale Leone prevalse su Bosisio, ma la vittoria, dai tre giudici milanesi, fu assegnata proprio a quest’ultimo. Era già scritto. Per fare tacere il coro di voci nella capitale, che parlava di sopraffazione e ingiustizia, il partito Fascista organizzò un’altra sfida a Roma. Il titolo italiano, e anche quello europeo, potevano ancora essere contesi (detentore dei due titoli al momento era Bosisio) dai due sfidanti che si erano affrontati a Milano qualche mese prima.
Leone ebbe il sopravvento, davanti a 40 mila spettatori, non c’erano dubbi sulla superiorità e la classe che lo aveva sempre contraddistinto. Diventa il 4° Campione Europeo (in Italia), ed è un italiano a tutti gli effetti a vincerlo, anche se per il diritto di cittadinanza dovrà lottare con tutte le sue forze, lui è un indomito lottatore. Finalmente, dopo 4 anni di dure battaglie, mentre i funzionari pubblici esercitavano il più bieco ostracismo, riuscì a farsi riconoscere cittadino italiano.
Sa che la sua lotta per la dignità non è mai finita, la sua Italia è stata intaccata, ‘punta’ dall’aspide: il razzismo. Bisogna prenderne atto e difendersi, ma come?
Come? E’ un campione, non c’è sfida che vada oltre i suoi limiti, lo sport, la boxe, sono il suo riscatto e il legittimo lasciapassare, prima o poi la sua patria razzista se ne farà una ragione. Era la giusta equidistanza tra orgoglio e giustizia.
Ma tant’è: il contorto animo umano non conosce limiti quando si prefigge di annientare il proprio simile.
I titoli legittimamente conquistati non gli furono mai riconosciuti, il filmato dell’incontro con Mario Bosisio, fu letteralmente manipolato, per evitare che la gente gli riconoscesse i meriti conquistati. La stessa Gazzetta dello Sport, il giorno che seguì all’incontro con Bosisio, dopo la clamorosa vittoria di Leone, titolò: “Non può essere un nero a rappresentare l’Italia all’estero” – ossia la gola profonda del Fascio aveva parlato.
Ecco la vergogna del sopruso, dell’imbroglio, la tendenza del regime a cambiare la carte in tavola.
Non è mia intenzione addentrarmi in considerazioni di carattere antropologico, e tanto meno fare dissertazioni sulle cause delle leggi razziali. Forse la responsabilità non è però riconducibile solo al regime, vi sono ragioni di fondo, di indole del popolo italiano, che il razzismo lo ha sempre avuto in stato di latenza dentro l’anima. La civilissima Cultura Latina non è stata un esempio in questo senso, dato che definiva “barbare” le popolazioni del Nord Europa, ritenute inferiori, rozze, e non al passo delle loro conquiste. Nemmeno i sardi sono stati risparmiati dai  Romani dell’epoca, chiamarono “Barbaria” (da qui il toponimo Barbagia) le regioni dell’interno dell’isola, solo perché occorsero anni per avere ragione del loro istinto ribelle e autonomo, e lottarono strenuamente per ostacolarne la conquista.
Dopo le delusioni in Italia, ancora una volta Leone decide di andarsene, troppi dolori e umiliazioni, non si poteva tollerare. Torna in Francia, poi sopraggiungono gli eventi dell’occupazione nazista, si arruola  di nuovo nell’esercito inglese, e combatte con questa divisa anche in Italia. Poteva forse arruolarsi come camerata nei battaglioni del Fascio?
Fascista, nonostante quello che si è scritto al riguardo, non lo era mai stato. Frattanto, aveva trovato il tempo di formare una famiglia, e, tanto per cambiare, anche questa era clandestina: la moglie era di origini ebree. Da una fuga rocambolesca all’altra, la sua vita. Dopo la guerra diventa portiere di un palazzo a Milano, in via Ghibellina. L’Italia lo ringraziò così, non un riconoscimento per i momenti importanti di gloria che aveva saputo dare allo sport italiano. Fu scaraventato nella deriva dell’oblio.
Le strade, le piazze della Vita, sono  luoghi in cui gli esseri umani si misurano senza ricorrere ai piedistalli di razza, o presunte superiorità. Sono i luoghi in cui alla dignità si dà del tu.
Sono – dovrebbero essere – luoghi dell’Umanità in cui i valori autentici dialogano e s’incontrano, qualunque sia il colore che i geni hanno deciso di dare alla pelle di un uomo.
E non si argomenta intorno ad un passato poi così remoto, l’inquisizione sulla razza è andata ben oltre, lo sappiamo bene, ce la portiamo ancora sotto i piedi, a volte velata di false concezioni.
Il razzismo è stato ovunque anche dopo la seconda guerra mondiale, ne sanno qualcosa gli afro-americani, e non solo. Il dopo guerra non è stato lo spartiacque che si sperava per l’Occidente, che aveva subito una dura lezione dietro il filo spinato dei lager.
Eppure l’Umanità non ha imparato nulla dal terribile squallore in cui ha scaraventato i diritti umani, nulla da quell’abominio. I lager, con i loro rituali infernali e altari capovolti, erano i luoghi del delirio in cui in realtà si immolava e processava il valore più assoluto dell’essere umano: la dignità.

ILVA, ENIGMA IRRISOLTO, SALTA L’ACCORDO E IL DOSSIER PASSA AL PROSSIMO GOVERNO

 
DI VIRGINIA MURRU
La questione Ilva resta un’incognita, un filo rovente che ha portato ieri all’interruzione delle trattative tra Governo, la società ArcelorMittal e i sindacati. I sindacati non accettano le proposte del governo, e il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, a questo punto, si arrende e passa il dossier al prossimo governo, che si auspica prenda le redini del Paese nel più breve tempo possibile.
 
In un comunicato stampa, la Fiom, annuncia proprio il ritiro dei sindacati dal tavolo delle trattative, nessuno accordo con questo governo “ponte”. Ieri, giovedì 10 maggio, era stato convocato l’incontro presso il Ministero dello Sviluppo Economico, presente la società ArcelorMittal, potenziale acquirente della disastrata Ilva, che ha alle spalle la storia travagliata di una crisi mai risolta.
 
Il ministro Calenda ha proposto l’assunzione di 10 mila lavoratori (a tempo indeterminato), da parte di Am Invest, e spiega l’aspetto solo formale della “discontinuità”, in quanto, ai lavoratori assunti, saranno riconosciuti i diritti pregressi. La società Am Invest ha assicurato un impegno fino a giugno 2021, e a trasferire competenze alla “Società per Taranto”, che Ilva e Invitalia hanno costituito per almeno 1.500 dipendenti (a tempo pieno).
 
Degli accordi proposti fanno parte anche gli interventi per la gestione di esodi volontari, quali auto imprenditorialità, incentivi, accompagnamento alla quiescenza, per i quali sono pronti circa 200 mln di euro, preziosi per incentivare l’esodo volontario.
 
Niente da fare, i sindacati non accettano le proposte di Calenda, e lo dichiarano tramite i segretari generali di Fim, Uilm e Fiom, abbandonando il tavolo delle trattative, in quanto non ritengono soddisfacente il piano del ministro, né corrispondente alle aspettative.
 
Gli esuberi, secondo i sindacati, sono “l’oggetto del contendere”, dato che permangono, e ben pochi sforzi sono stati compiuti in tal senso. Secondo il parere di Marco Bentivogli, Segretario Generale Metalmeccanici Fim Cisl, la società Mittal “non ha apportato sostanziali cambiamenti”. Anzi, secondo il segretario della Fim, sarebbe la solita solfa.
Il ministro Calenda si è sentito a questo punto non legittimato a trattare (secondo il parere di alcuni sindacalisti), e rimanda la trattativa al nuovo ‘titolare’ del Ministero, di prossima investitura.
 
Calenda ha comunque chiesto alle organizzazioni sindacali, nel corso dell’incontro avvenuto ieri, la sottoscrizione del documento definito “Punti principali dello schema di accordo Ilva in A.S. – Am Investco (cordata formata da ArcelorMittal e Marcegaglia) – OO.SS”.
 
Da non dimenticare che l’Ilva è sempre al centro di un fuoco di fila di polemiche a causa delle criticità sul piano dell’impatto ambientale, non solo a Taranto, ma anche a Genova (nel 2002 furono chiuse le cosiddette ‘cokerie’).
 
Nel 2013, come si ricorderà, la città di Taranto fu chiamata ad esprimere un parere sull’impatto ambientale rappresentato dall’attività dell’Ilva, tramite un referendum consultivo, che si concluse con un nulla di fatto, poiché non si raggiunse il quorum (del 50%), avendo partecipato solo il 19,5% della popolazione. In ballo c’era il valore ‘salute’, ma anche l’altra faccia dura della medaglia: la chiusura delle Acciaierie..
 
Diverse le cause intentate con accuse d’inquinamento, che hanno anche portato a condanne penali per alcuni esponenti ai vertici dell’industria siderurgica, e in particolare Emilio Riva.
Secondo il comunicato stampa diffuso ieri da Fiom “Il documento, nella sostanza, non rappresenta altro che la sintesi dei punti e delle condizioni che il Governo ha negoziato con ArcelorMittal, e da ormai diversi incontri si ripropone alle Organizzazioni Sindacali quale possibile accordo”.
 
Tutto questo, dunque, non viaggia nella medesima lunghezza d’onda delle aspettative dei sindacati, i quali sono inflessibili e ribadiscono la necessità di assumere i 14 mila lavoratori proposti, e l’impegno da parte di ArcelorMittal, di farsi carico di tutto l’organico dei dipendenti. Sottolineando nel contempo, la continuità del rapporto di lavoro, e la possibilità di esternalizzare 1.500 lavoratori con attività e mansioni varie, anche di nuova costituzione, con “la possibile partecipazione di soggetti pubblici e privati”.
 
Premesse imprescindibili per trattare con ArcelorMittal – dichiarano i sindacati. Scrive la Fiom nel suo comunicato:
 
“Alla luce della situazione attuale è necessario continuare con le assemblee dei lavoratori, sia per un aggiornamento della situazione, sia anche per valutare l’avvio di una fase di mobilitazione sindacale.”
 
Preso atto invece dell’insuccesso dell’incontro, il ministro Carlo Calenda, deluso dell’opposizione dei sindacati (che definisce ‘populismo sindacale, ossia una cosa che sta a metà tra il populismo sindacale e il sindacalismo politico’) dichiara:
 
“Abbiamo messo in campo ogni possibile strategia per salvaguardare l’occupazione, gli investimenti ambientali e produttivi, anche attraverso considerevoli risorse pubbliche.
 
Da non dimenticare, infatti, che il Governo ha finanziato l’Ilva durante la crisi e l’Amministrazione straordinaria, con importi non di poco conto: quasi un miliardo di euro.
 
 
 
 

DEF IN PARLAMENTO, STRATEGIE E PROPOSTE PER EVITARE IL RIALZO DELL’IVA

DI VIRGINIA MURRU
L’incertezza sulla formazione del nuovo esecutivo sta diventando sempre più pesante, un macigno disposto di traverso sulla strada della continuità politica e amministrativa. Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, già da alcune settimane esprime perplessità e timori sulle conseguenze di questo stallo.
Il ministro è in audizione in parlamento, malgrado lo stato d’immobilità in cui le forze politiche alle quali gli elettori hanno conferito il loro mandato, stiano rendendo il clima sempre più teso e incerto, sono stati avviati i lavori relativi al “Def tecnico”, presentato una decina di giorni fa.
Il dibattito che scaturirà sul Def potrebbe rappresentare la prova del nove per un possibile orientamento di maggioranza, ovvero di fatto, visto che quello politico è ancora sulla via di Damasco, e ormai si parla sempre più di tornare alle urne.
Non si può bloccare l’attività di governo in attesa di una soluzione sulle intese politiche per la formazione del nuovo; quello uscente deve comunque gestire la fase di transizione. E tuttavia, di accordi, tra la coalizione di Centro Destra e il Movimento 5Stelle, neppure l’ombra.
Si cerca intanto un’intesa tra parlamento e governo per evitare che scattino le cosiddette “clausole di salvaguardia”, le quali, in fin dei conti, avrebbero un peso pari a 12 mld per il 2018, e 19 mld nel 2019.
Padoan non intende seguire le proposte del leader del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio, e quindi procedere con una sorta di “manovrina”, per il disinnesco delle clausole: il ministro è piuttosto preoccupato per il freno che la situazione politica sta causando sulla crescita del Paese, e in particolare “sulla ripartenza degli investimenti pubblici”. Dichiara Padoan:
“Il rialzo dell’Iva si può evitare, come del resto è avvenuto negli anni precedenti, il mancato gettito potrebbe essere sostituito da misure complementari, tramite altri interventi legislativi, uno di questi potrebbe essere la Legge di Bilancio 2019”.
E sottolinea nel contempo che, una parte non indifferente delle clausole di salvaguardia per il prossimo anno, è stata già disattivata per un importo di 4,4 mld, mediante interventi inseriti nel Dl 50 del 2017. Dalla Legge di bilancio del corrente anno, ulteriori 6,1 mld, e dal Dl 148, per 340 milioni.
Da Bruxelles le pressioni sembrano essersi allentate, questo il tenore delle dichiarazioni rassicuranti provenienti dal portavoce della Commissione europea:
“Abbiamo fiducia nel Presidente Sergio Mattarella, e nella serietà delle Istituzioni..”
Il Governo Gentiloni ha definito il Documento di Economia e Finanza “tecnico”, ossia formulato con linee essenziali, per esprimere la dirittura che l’economia del Paese seguirà nei prossimi mesi, senza consistenza di carattere politico, visto che, del nuovo esecutivo, non c’è neppure un’idea approssimata.
Ma l’urgenza di proseguire sulla strada delle riforme strutturali, chiodo fisso dell’Ue, è palpabile, come anche le conseguenze sui mercati: è evidente che l’incertezza non consolida la strada intrapresa della crescita.
Il dibattito sul Def potrebbe tuttavia essere una buona base di partenza per la condivisione di precisi impegni politici volti a bloccare l’aumento dell’Iva, previsto dal 2019. Un intervento mirato a rinviare lo scatto dell’imposta, potrebbe trovare soluzione con un provvedimento da avviare prima dell’estate, o un intervento sulla Nota di Aggiornamento, in calendario a settembre.
Conferma al riguardo il ministro Pier Carlo Padoan:
“C’è una volontà, diffusa e condivisa, di disinnescare la clausole di salvaguardia, e si può quindi procedere con la Nota al Def e la Legge di Bilancio, non è necessario un intervento precedente”.
Padoan ha fatto anche riferimento all’attività svolta dal ministero e ne ha rivendicato i meriti:
“Dopo 4 anni di governo, l’Italia può ritenersi con le carte in regola, certamente il livello di crescita non è quello delle principali economie dell’Ue, come si è tante volte osservato, restiamo in coda rispetto agli altri, ma intanto è stata imboccata la strada della crescita. Lo dimostrano i dati in calo del tasso di disoccupazione, e l’ordine dei conti pubblici. E’ necessario gestire con senso di responsabilità questa fase di transizione, perché i rischi di un’involuzione dell’economia sono concreti, l’incertezza politica può innescare meccanismi perversi, e basterebbe osservare l’andamento dello spread negli ultimi giorni.”
Rischi di flessione messi in evidenza anche dalla Corte dei conti, non c’è solo il rischio protezionismo, con i dazi imposti dall’Amministrazione Trump, vi sono altre variabili insidiose, come l’attuazione del tapering nella politica monetaria portata avanti dalla BCE, e dunque ‘l’estinzione’ del Qe, che ha fortemente supportato l’economia dell’area euro nel periodo post-crisi tramite l’acquisto massiccio di asset.
La Corte dei conti, mette anche in rilievo altre fonti di rischio per l’economia italiana, come l’invecchiamento della popolazione e l’inefficienza del sistema fiscale. Da tenere presente la “Spending review”, che deve essere tenuta sotto controllo, ma i tagli sulla spesa non possono sempre causare disagi e privazioni per i cittadini.
“Per questo – sostengono i magistrati della Corte dei conti – il quadro resta complesso, nonostante i progressi ottenuti attraverso le riforme strutturali e le strategie di risanamento adottate dal governo uscente”.

CRISI AIR FRANCE. ESCLUSA IPOTESI DI RICAPITALIZZAZIONE CON AIUTI DI STATO

DI VIRGINIA MURRU
Il ministro francese dell’Economia, Bruno Le Maire, è piuttosto esplicito: “Air France rischia di scomparire, se non si adotteranno le misure necessarie per riportare la Compagnia allo stesso livello di competitività di quelle più blasonate.
 
Dopo le sue dichiarazioni la risposta dei mercati non si è fatta attendere: il titolo è crollato, una batosta pari al 13%, così la prospettiva è diventata ancora più incombente, la crisi più acuta. Anche perché il governo francese non intende soccorrere l’aviolinea con la scialuppa degli aiuti di Stato (peraltro a rischio, dato che Bruxelles ha già chiesto conto al governo italiano del prestito concesso ad Alitalia).
 
Si esclude dunque la ricapitalizzazione, il ministro dell’Economia non intende sacrificare risorse pubbliche su una compagnia che non garantisce in termini di competitività.
Da tutto ciò si capisce che le dichiarazioni del ministro dell’Economia non sono puro catastrofismo . Le Maire, tuttavia non condivide le richieste formulate dai sindacati, che ritiene ingiustificate, e auspica che i dipendenti dimostrino un maggiore senso di responsabilità.
 
Una soluzione, o meglio un tentativo di compromesso, è stato proposto dall’economista Nicolas Bouzou, il quale si chiede se non sia meglio, per lo Stato, cedere il 14% di partecipazione nel Gruppo Air France-Klm, che non sarebbe propriamente conveniente, viste le basse quotazioni del titolo, ma almeno si porrebbe finalmente fine alle rogne che derivano dalla sua presenza nel Gruppo.
 
Intanto, il ministro Le Maire, ha annunciato la vendita delle partecipazioni dello Stato in Aeroporti di Parigi, conseguenze di un ragionamento che porta sulla via delle soluzioni proposte dall’economista Bouzou.
I vertici della compagnia non possono più ignorare l’emergenza, devono trovare, in tempi stretti – secondo le affermazioni del ministro – un accordo con i sindacati, non si può prescindere.
 
La crisi di Air France non è esplosa all’improvviso, si avvertiva già il clima di affanno, ma si pensava alla sua solidità di base, ad un’esperienza sul campo di oltre 80 anni, e dunque non si poteva presentire una situazione di drammatica emergenza. I lavoratori già da febbraio scorso esprimono il loro dissenso con scioperi a intermittenza, che hanno già maturato costi notevoli: centinaia di migliaia di euro in fumo.
 
I dipendenti sono tuttora in sciopero, annunciato peraltro anche per i prossimi giorni, fino a che non saranno prese in considerazione le loro rivendicazioni sui salari. Disagi, com’è facile immaginare, sulla programmazione dei voli, tanti sono stati cancellati.
 
Certamente l’esito negativo del referendum indetto per chiedere ai dipendenti l’approvazione degli accordi salariali, non ha chiuso una falla, ha spalancato anzi definitivamente i cancelli di una crisi dall’esito alquanto incerto e nebuloso. Al momento ci sono le dimissioni di Jean-Marc Janillac, Ceo della compagnia, il quale, dopo il risultato del referendum, ha preferito lasciare l’incarico. Al voto si sono presentati 46.770 dipendenti, e il 55% dei quali si è espresso contro l’approvazione degli accordi salariali.
 
Il Cda ha in ogni caso proposto all’Amministratore Delegato Janillac, di non lasciare l’incarico, di assicurare la presenza fino al 15 di maggio, data prevista per la conclusione dei lavori dell’Assemblea Generale del gruppo, che vertono sulle problematiche derivanti dalla gestione della fase di transizione che si sta prospettando, per la quale non è semplice la soluzione.
 
Intanto siamo al 14° giorno di sciopero dei piloti: quadro d’instabilità che non aiuta l’aviolinea a trovare, in tempi brevi, una soluzione per una crisi definita ormai dalla stampa francese storica.
 

UE. IRRISORI GLI SFORZI STRUTTURALI COMPIUTI DALL’ITALIA NEL 2018

 
DI VIRGINIA MURRU
La Commissione europea, ancora una volta, mette in rilievo il fatto che l’Italia resta in coda, tra i Paesi membri dell’Ue, in termini di crescita, che risulta essere la meno brillante tra i 28, con performance simili a quelle del Regno Unito.
 
Le due nazioni infatti, nel 2018, cresceranno dell’1,5% (Pil), mentre nel 2019 è prevista una flessione pari allo 0,3%, ossia il Pil viaggerà a +1,2%. Le ultime stime sul Pil risalgono al febbraio scorso.
 
Sono dati che emergono dalle “Previsioni economiche di primavera”, e, come di consueto non si tratta di un rendiconto lusinghiero. Le repliche del Mef sono anch’esse arrivate puntuali.
 
A monte vi sono ragioni d’incertezza politica – anche se a Bruxelles, per il momento, preferiscono non esprimersi sulla situazione politica italiana: “No comment” – è la risposta diplomatica della Commissione europea e del Commissario agli Affari Economici Pierre Moscovici. “Se l’instabilità continuasse, comunque – afferma Moscovici – causerebbe volatilità nei mercati e conseguenze sui premi di rischio, noi speriamo che l’italia resti al centro dell’Eurozona.”
E aggiunge:
 
“L’Italia, nel 2018, ha fatto sforzi strutturali pari a zero, sono le deduzioni che emergono dalla previsioni della Commissione, e potrebbero al riguardo esserci naturali conclusioni per quel che concerne la sorveglianza dei conti, ma per questo si rimanda al 23 maggio, al “pacchetto di primavera”.
Portate tuttavia al ribasso, con le previsioni di primavera, le stime su deficit e debito.
 
Non concorda il Ministero dell’Economia, secondo il quale, la valutazione complessiva dei conti riguardanti il 2018, potrà essere apprezzata il prossimo anno in questo periodo, e rifletterà, secondo il ministro dell’Economia, la procedura in regola con le richieste dell’Ue.
 
Peraltro, il deficit strutturale, non presenterebbe variazioni tra il 2017 e il 2018, in base alle stesse stime di Bruxelles, mentre il Governo italiano ha rilevato una riduzione pari ad un decimo di punto percentuale nel corrente anno, riflesso di un saldo 2017 rivelatosi migliore delle previsioni precedenti.
Sostanzialmente vengono confermate le stime di crescita per l’anno in corso e il 2019, ma la Commissione non manca di sottolineare che esistono rischi al ribasso per l’outlook dell’italia.
 
Visti in crescita (nel 2018), i consumi interni, delle famiglie, in sintonia con “il moderato outlook di salari e occupazione”; un valido sostegno agli investimenti in macchinari, dovrebbe provenire dalle favorevoli condizioni di finanziamento e dagli incentivi fiscali. Nel 2018, dalla bilancia commerciale, non dovrebbe provenire alcuno stimolo alla crescita, conseguenza diretta dell’aumento previsto delle importazioni legate agli investimenti. La forza dell’euro dovrebbe invece causare una flessione nella crescita dell’export.
 
Secondo Bruxelles, in conclusione, “l’Italia dovrebbe continuare sulla via della crescita, oltre il potenziale, ma risentirà della domanda globale che darà meno supporto, e della chiusura dell’output gap (ossia, per quel che riguarda il Pil, la differenza tra quello effettivo e il potenziale).
 

ISTAT. STIMA PRELIMINARE DEL PIL: A LIVELLO CONGIUNTURALE +0,3%

DI VIRGINIA MURRU

 

 
Appena pubblicati dall’Istat i dati sulle stime preliminari del Pil, relativi al primo trimestre 2018. Dal punto di vista congiunturale si riscontra un aumento dello 0,3% rispetto al trimestre precedente, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato.
 
Nel comunicato, l’Istat precisa che nel primo trimestre del corrente anno, ci sono state 3 giornate lavorative in più rispetto al precedente trimestre, mentre sono uguali in termini di giorni lavorativi rispetto al primo trimestre del 2017.
Sul piano congiunturale, la crescita del prodotto interno lordo del Paese, è il risultato del valore aggiunto che proviene dal settore dei servizi, pesca e silvicoltura, agricoltura.
 
Il valore aggiunto relativo all’industria non presenta variazioni di rilievo. La domanda interna esprime un trend in positivo, mentre è negativa nei confronti della componente estera netta.
“La variazione acquisita per il 2018 – spiega l’Istat – è pari a +0,8%.
 
Anche nell’ultimo trimestre dello scorso anno la crescita congiunturale era stata pari allo 0,3%, e pertanto si può considerare che nel Paese il Pil, sempre secondo i dati Istat, è in fase espansiva da ormai 15 trimestri, e si rileva, rispetto al terzo trimestre di 4 anni fa, un recupero del 4,4%. Da allora non si sono più verificati rallentamenti, certamente non si tratta di crescita a ritmo sostenuto, ma è sempre un risultato più che positivo.
 
E per ragioni di coerenza con i dati regolarmente pubblicati dall’Istat, raffrontando il dato attuale a quello pre-crisi del 2008, si deve prendere atto che, nonostante il trend positivo, manca ancora un recupero pari al 5,5%. I numeri sono impietosi, e ci dicono che non ci si può lasciare condizionare dall’entusiasmo per i miglioramenti che pure ci sono stati: c’è ancora tanto da fare.
 
La crescita tendenziale, ossia su base annua, è in fase di lieve decelerazione, rispetto allo stesso periodo del 2017, ossia all’1,4%, (-0,2% rispetto allo scorso anno).
 
Per quel che riguarda il Pil dell’Ue e quello dell’area euro, si rileva una crescita dello 0,4%, sempre congiunturale, rispetto all’ultimo trimestre del 2017 vi sono delle differenze, sia pure non sostanziali: in Eurozona l’aumento (sempre secondo i rilevamenti Istat) era stato dello 0,7%, e dello 0,6% tra tutti i Paesi membri Ue.
L’Istat nel suo comunicato sottolinea anche la tempestività delle stime preliminari sul prodotto interno lordo, che è stata accelerata significativamente, riducendo i tempi di oltre due settimane, “ossia da 45 giorni a 30 giorni dalla fine del trimestre di riferimento.”
 
 
 
 
 

AUT AUT DELL’AMMINISTRAZIONE TRUMP ALL’UE : 30 GIORNI PER TRATTARE SUI DAZI

DI VIRGINIA MURRU
Gli Usa hanno messo l’Unione europea davanti ad un ultimatum: 30 giorni per trattare sull’imposizione dei dazi (su acciaio e alluminio), “tempo di riflessione” e azione esteso fino al 1° giugno prossimo, poi saranno effettivi ed entreranno in vigore.
L’Europa non intende farsi intimidire, è muro contro muro. Si potrebbe anzi dire che lo sdegno per il clima di autoritarismo che viene da oltre Atlantico, è palpabile a Bruxelles, dove si esprime dissenso verso le irriducibili misure protezionistiche stabilite dal governo americano.
L’Ue non rifiuta il confronto e il dialogo, semmai ritiene inconcepibile la “dittatura” di regole sul commercio internazionale, che in fin dei conti hanno un carattere unilaterale, poco spazio si lascia alla discussione e ad un’intesa equa per entrambe le parti.
E infatti la Commissione europea ha diffuso un comunicato al riguardo, nel quale si sottolinea che “devono essere raggiunti accordi equilibrati e reciprocamente soddisfacenti, il clima d’intimidazione sull’Europa, da sempre alleata degli Usa, non si può accettare”.
La verità è che gli Stati Uniti sono veramente preoccupati per le sorti dell’industria siderurgica, in particolare in Pennsylvania, polo industriale importante in questo settore. Già da diversi anni qui si avvertono i sintomi di una ‘patologia’ niente affatto endemica, visto che gli effetti della globalizzazione, sono come un’erma bifronte: possono rendere più semplici gli scambi, favorire la competitività e la concorrenza sul mercato globale, ma possono anche presentare effetti collaterali non di poco conto.
Tra questi si sta insinuando il rischio di un conflitto commerciale a tutti gli effetti, con al seguito misure e contromisure, aggressioni con l’arma del protezionismo (così come stanno agendo gli States), e ritorsioni.
La differenza emerge quando a presiedere un’amministrazione repubblicana, c’è un individuo risoluto e per nulla incline a lasciarsi condizionare da chi cerca di trattenerlo per la giacca. Già lo sappiamo, il suo intercalare fisso è: “Prima di tutto l’America”, e altro non c’è dietro questo scudo nazionalistico ad oltranza.
A Trump stanno a cuore i lavoratori e la classe dirigente dell’industria siderurgica americana, proprio dal polo della Pennsylvania gli sono giunti consensi e voti durante le elezioni. Non tornerà indietro, lui non è personaggio che tradisce i fedelissimi.
E gli operai di questi stabilimenti ovviamente sono convinti e sostengono completamente la politica del presidente, anche perché, a monte di tutto il malessere che ha interessato quest’importante area industriale, c’è la spietata concorrenza della Cina, che sul mercato globale vende acciaio e alluminio a prezzi nettamente inferiori : ossia praticando dumping.
Federico Rampini, giornalista di Repubblica, naturalizzato statunitense, che di politica americana se ne intende perché la vive da vicino, sostiene che questo braccio di ferro sui dazi rivela tutti i sintomi di una vera e propria guerra commerciale, senza esclusione di colpi. E infatti Donald Trump non fa sconti a nessuno, e non importa se diventa “fuoco amico”: se tra i bersagli ci sono gli alleati di sempre, quel vecchio Continente che ha solo di fatto trasferito la sua gente nel nord America a cominciare da cinque secoli a questa parte.
Afferma Rampini: “è tempo di sedersi intorno ad un tavolo e ridiscutere tutta l’architettura della globalizzazione: l’Europa deve esserci a questo appuntamento.”
Intanto la tregua sui tassi, riguarda l’Ue e altri Paesi alleati degli Usa, solo la Corea del Sud ha trovato un accordo conclusivo sulla questione.
I dazi dovevano entrare in vigore il 1° maggio, era stato fissato il 25% sull’import di acciaio e il 10% sull’alluminio, in graticola non c’è solo l’Ue, ma anche Messico e Canada. Anche se qualche revisione potrebbe esserci al riguardo negli accordi del Nafta (North American Free Trade Agreement, il trattato americano per il libero scambio commerciale, siglato appunto con questi due paesi).
Gli Usa, tuttavia, con l’Unione europea non possono permettersi l’esuberante performance del pavone, visto che il deficit commerciale nei confronti dell’Ue è quasi decuplicato rispetto alla fine degli anni ’90: si era a 17 miliardi di deficit, allora, adesso siamo a 152 miliardi.. Dietro queste cifre c’è l’import sul manifatturiero dalla Germania, un enorme flusso di acquisti, tanto da rappresentare oltre il 25% del totale rispetto all’Ue..
La Commissione europea è del parere che l’Unione debba essere esentata completamente da queste misure di protezionismo, non giustificabili con “ragioni di sicurezza nazionale”.
E’ certamente più credibile l’intervento sull’import di alluminio e acciaio dalla Cina, il gigante asiatico pratica in realtà dazi ben più consistenti sul piano globale per proteggere la sua industria. E che stia mirando all’egemonia sul piano degli scambi internazionali non è un’idea bislacca. I cinesi non fanno tanto rumore, e il suo establishment si propone sempre in modo rassicurante, ma persegue poi i propri obiettivi, senza moralismi di sorta. Lo ha dimostrato anche nel corso dei meeting in cui si decidevano le misure più efficaci per ridurre l’inquinamento atmosferico, del resto.
Le missioni negli Usa del presidente Emmanuel Macron, della Cancelliera Angela Merkel, e quelle del governo del Regno Unito, ad oggi non hanno prodotto risultati di rilievo, l’ultimatum sui dazi ne sono la prova. Trump non è persona che si lascia impressionare, né condizionare.
L’Ue, Gran Bretagna inclusa, mira dunque ad ottenere l’eliminazione integrale delle imposte dovute per i dazi doganali decisi dagli Usa (sull’importazione di alluminio e acciaio); c’è preoccupazione negli ambienti politici e ancora di più in quelli dell’industria siderurgica europea.
Theresa May si è impegnata in primo piano per offrire mediazione con il governo americano. Le prossime settimane saranno decisive, le trattative potrebbero sortire un’ulteriore proroga, fino a quando, si spera a Bruxelles, Washington arriverà alla conclusione che, verso l’Ue, queste misure non sono opportune.

BCE. CRESCITA AREA EURO MODERATA, INVARIATI TASSI E QUANTITATIVE EASING

DI VIRGINIA MURRU

 

Il Consiglio Direttivo della BCE, nell’ultima riunione del 26 aprile, non ha deciso interventi di rilievo rispetto al mese scorso, tuttavia, l’analisi dei dati macroeconomici ha evidenziato una fase di rallentamento nell’attività economica e dunque nella crescita, nonostante, in generale, l’economia dell’Eurozona rifletta una rassicurante “tenuta”. Lo afferma poi anche Draghi nella conferenza stampa:  “crescita più moderata”.

E aggiunge:

“Necessari ancora stimoli, l’inflazione, la grande assente del sistema (con il mancato raggiungimento del target 2%), non consente al momento cambiamenti rilevanti nella politica monetaria. Il protezionismo è una seria minaccia per la crescita dell’economia in area euro.”

Una stasi dunque, dopo diversi trimestri all’insegna dello sviluppo e della crescita, andati oltre le stime.

In questo quadro che proietta nuovi scenari, emerge il calo rilevato negli indici di fiducia, la contrazione dei dati concernenti il settore manifatturiero, il balzo dei prezzi degli energetici. Segnali che prospettano altre direttive, ma i vertici della BCE hanno scelto di attendere nuovi sviluppi prima d’intraprendere iniziative e interventi relativi alla ‘virata’ rilevata nei dati macro riguardanti l’Eurozona.

L’impressione di esperti e analisti, che hanno seguito con attenzione i comunicati e la conferenza stampa del Presidente Mario Draghi, è che la BCE non intende apportare revisioni al costo del denaro, e pertanto resteranno fermi i tassi d’interesse sui movimenti di rifinanziamento principali, su quelli marginali e sui depositi, la cui stabilità si conferma rispettivamente sullo 0,00%, lo 0,25% e -0,40%.

Non verrà modificata la politica monetaria, e l’acquisto di asset andrà avanti al ritmo già annunciato da mesi, ossia di 30 mld al mese fino al prossimo settembre. “Ma anche oltre, qualora necessario” – ha aggiunto Mario Draghi – il Board procederà al reinvestimento del capitale dei bond giunti a scadenza per un periodo lungo dopo la fine degli acquisti netti”.

Si attenderanno pertanto le proiezioni economiche del mese di giugno, prima di operare scelte sulle misure relative al Qe.

L’ANTITRUST DELL’UE AVVIA INDAGINE SUL PRESTITO CONCESSO DALLO STATO AD ALITALIA

DI VIRGINIA MURRU

 

L’Antitrust europea ha aperto un’indagine sul prestito di 900 milioni, concesso dallo Stato ad Alitalia nel 2017
Che fossimo perennemente nell’occhio del ciclone (Ue) non è una novità, di tanto in tanto, qualora vi fossero dubbi, arrivano le conferme: questa volta nel mirino c’è Alitalia, e il “prestito ponte” concesso dallo Stato lo scorso anno.

L’indagine è stata avviata e la Commissione europea intende vederci chiaro sui tempi relativi alla concessione del prestito, e le condizioni riservate all’ex compagnia di bandiera italiana.
Così si è espressa in merito la Commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager:

“La Commissione europea deve vigilare e garantire che i prestiti concessi dagli Stati membri rispettino le norme vigenti dell’Ue in termini di aiuti di Stato”. E’ nostro compito verificare che il prestito concesso ad Alitalia rientri nel rispetto delle norme approvate dall’Unione.”

Nel 2017 il governo italiano, considerata l’emergenza finanziaria che Alitalia stava affrontando, risolse d’intervenire con il cosiddetto “prestito ponte” di 900 mln, dei quali peraltro, la compagnia, secondo i rilievi dell’Amministrazione straordinaria, ne ha utilizzato solo una parte. In ogni caso, non hanno torto coloro che sostengono che l’Ue usi nei confronti dell’Italia una spessa lente d’ingrandimento, mentre paesi come la Germania e altre solide economie europee, abbiano trasgredito in modo ben più pesante.

Deutsche Bank e Commerzbank (tanto per fare qualche esempio), pilastri della finanza ed economia tedesca, che hanno rischiato il default (ma ritenute ‘too big to fail’, con un bilancio simile al Pil italiano..), hanno usufruito di aiuti di Stato consistenti, che hanno suscitato a suo tempo non poche polemiche.

Certamente,l’articolo 107 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFEU), è stato violato più di una volta.
Nella struttura solida dell’economia tedesca, ci sono controsensi piuttosto singolari, visto che il sistema bancario si è rivelato uno dei più fragili, sorretto dal lungo braccio dello Stato, soprattutto nel corso dell’ultima crisi economica che ha interessato l’Europa. Lo Stato ha contribuito con somme consistenti per il salvataggio di grandi istituti di credito, ‘elargendo’ più o meno 200 miliardi di euro, rilevando titoli tossici, permettendo aumenti di capitali e intervenendo nei Land anche in settori diversi (comparti industriali) da quello bancario.

Non si tratta di importi approssimati, sono resoconti della Commissione europea, ed equivale al 7% del Pil della Germania.

Ma lo Stato, in Germania, con la sua mano provvidenziale, è andato ben oltre, si arriva a quasi 500 mld di euro, se si aggiungono garanzie statali, offerta di liquidità: ossia il 17% della ricchezza prodotta dalla nazione. Un sistema creditizio, insomma, che senza la protezione dello Stato, avrebbe certamente messo in crisi il sistema, e fatto crollare tante certezze. Sono fatti, non pressappochismi, perché avvicinando l’osservatorio un po’ di più, si conclude che un terzo del sistema creditizio tedesco è al riparo, grazie al paravento dei mezzi pubblici. E si sottraggono anche i conti reali alla vigilanza della BCE.

E allora perché sempre tanto rumore per le ‘trasgressioni’ in Italia, che ha fatto ricorso ai fondi Ue molto meno rispetto ad altri paesi membri? Due pesi e due misure? L’impressione è questa, ma tant’è: quando si punta il dito su presunte o reali violazioni della normativa europea, ci si può solo difendere.
Se poi si pensa che la Commissione si è decisa ad agire, perché concorrenti di Alitalia, hanno esercitato non poche pressioni (non si tratta propriamente di ‘cecchini’, si sarebbero mosse in merito Ryanair e Lufthansa), si comprende che lo sdegno non è puro vittimismo. Il fine, per chi conosce trama e ordito delle vicende Alitalia, sarebbe proprio quello di condizionare le strategie dell’Amministrazione straordinaria, e indurre ad accelerare la vendita della Compagnia, o meglio la ‘svendita’.

Tutto questo, nonostante le dichiarazioni del CUB- Trasporti (il 4 aprile scorso), il quale ha confermato che il trasporto aereo risulta in crescita, e l’ex Compagnia di bandiera, nonostante le difficoltà, ha costi bassi di gestione, forse i più bassi rispetto alla concorrenza. Sempre in rapporto alle regine europee del trasporto aereo, avrebbe anche una produttività superiore, per esempio a quella Lufthansa.

Questo, in teoria, dovrebbe escludere l’ascia dei tagli del personale. Ma purtroppo le logiche e le dinamiche di queste scelte, sono altre.

Proprio ora che iniziano i mesi in cui più intenso è il traffico aereo, e mentre nulla si sa di preciso sul nuovo Piano industriale della compagnia, la scure cade impietosa sul versante occupazionale, e si conferma pertanto la decisione di tagliare quasi 1500 posti di lavoro. Ossia quello che chiede Lufthansa per il risanamento della compagnia, e per portare a buon fine la sua offerta.

I licenziamenti saranno resi meno drammatici dall’assegno di ricollocazione per i dipendenti a ‘0’ ore.
Lo chiamano già ‘l’accordo infame’, quello che ieri le tre maggiori confederazioni sindacali hanno sottoscritto al Mise, guarda caso proprio ieri l’indagine Ue è stata ufficialmente avviata, mentre dietro le quinte gli avvoltoi attendono di avventarsi su un ‘boccone’ ancora ritenuto eccellente nel mercato del trasporto aereo.

Ci si insinua in una fase delicata della politica italiana, alle prese con tentativi (sempre falliti) di accordi politici validi e altri improbabili, per esercitare maggiore pressione sulla vicenda Alitalia, spingere e accelerarne la vendita, certamente non nell’interesse della Compagnia italiana.

Le polemiche sui tagli hanno un loro logico fondamento: perché ridurre i dipendenti se la compagnia viaggia con correnti favorevoli in termini di redditività, il traffico merci e passeggeri è in continua crescita, già si annuncia una stagione estiva record e un trend in continuo progresso?
Queste sono le perplessità sulle decisioni prese dal ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, e dalle parti sociali.

Da Calenda che ha risolto negli ultimi mesi situazioni roventi di aziende minacciate di chiusura, mentre la questione Alitalia si è affrontata in modo apparentemente paradossale. Un anno fa, i lavoratori, tramite referendum, si opposero al Piano di ristrutturazione, i soci non la sostennero più con ulteriori mezzi, e così si aprì la strada dell’Amministrazione straordinaria di Gubitosi e gli altri Commissari. Commissari che hanno poi avviato una procedura d’offerta, con vicissitudini sempre incerte, e tutt’ora ancora nulla è stato deciso sul possibile acquirente.

Basterebbe analizzare i numeri, anche sulle rotte a lungo raggio, per concludere che nei prossimi mesi il traffico aereo è proiettato verso un chiaro aumento del numero di passeggeri.

Vi sono enigmi sulle scelte di questi licenziamenti certamente non chiare, alla luce dei fatti, gli interrogativi sono tanti e c’è chi auspica, per una tutela più certa, la nazionalizzazione. Il 30 aprile scadrà l’intervento della Cassa Integrazione Straordinaria, della quale ha beneficiato la Compagnia, che ad oggi è ancora controllata per il 51% dalla Compagnia Aerea Italiana (CAI), e per il restante 49% da Etihad.

Intanto, nei giorni scorsi, la Compagnia e i sindacati hanno firmato un verbale nel quale si prevede il rinnovo della Cassa integrazione straordinaria, per ulteriori 6 mesi, ossia fino alla fine di ottobre.

Il prestito concesso dal governo ad Alitalia, è stato notificato a Bruxelles all’inizio del corrente anno, e giustificato come “aiuto di salvataggio”, anche se fin da subito, in ambito europeo, vi sono stati dissensi simili a tiri al bersaglio. Si è sostenuto che il prestito viola le norme europee sulla disciplina che riguarda gli ‘aiuti di Stato’.

La Commissione europea contesta in particolare i tempi di durata del prestito e la sua entità, stabiliti dal maggio 2017 fino al dicembre del corrente anno, e dunque, in linea di principio, si sarebbe violata la norma Ue che fissa con un massimo di 6 mesi la durata del prestito a garanzia del salvataggio.

Sarà pertanto la Commissione ad ‘arbitrare’ la questione, c’è solo da sperare che l’Italia riesca a dimostrare di non avere violato le norme europee, non più di altri Stati membri che, al riguardo, hanno un “dietro le quinte” non propriamente ortodosso.

IL REDDITO PRO CAPITE DELLA SPAGNA VIAGGIA A GONFIE VELE E SUPERA QUELLO ITALIANO

DI VIRGINIA MURRU
E’ quello che emerge dall’ultimo rapporto del Fmi: gli spagnoli, tenendo conto del reddito pro capite (31.191 euro il Pil pro capite della Spagna – 31.072 euro quello dell’Italia) , nel 2017 hanno superato l’Italia. E per la verità, nonostante il buon clima di ripresa che ha interessato il nostro Paese, si intuiva che nell’aria c’era sentore di rivolgimenti in questo ambito.
Non è un risultato edificante per la terza potenza economica dell’Ue, ma gli spagnoli hanno da tempo ingranato una marcia sostenuta e nel 2017 hanno fatto meglio anche della Germania e della Francia, non solo dell’Italia. Il Pil negli ultimi tre anni è infatti cresciuto di oltre il 3% all’anno, ovvero più delle altre solide economie dell’area euro, e due volte tanto l’italia.
Gli spagnoli raddoppiano il Pil perfino nei confronti di quello della Germania, performance eccezionali, che non si fermano all’andamento congiunturale ma segnano il passo in quello tendenziale, un traino sorprendente per l’Eurozona.
Dietro le quinte (si fa per dire..) di questi eccellenti risultati prodotti dall’economia iberica, ci sono le riforme strutturali portate avanti dal governo conservatore di Mariano Rajoy, che negli anni scorsi ha preso molto sul serio le “raccomandazioni di Bruxelles” sulla necessità d’instaurare un regime di austerity, al fine di tenere saldi i conti e attuare la compliance richiesta in termini di parametri fissati dai Trattati Ue.
E tuttavia, nonostante il progresso riconosciuto alla Spagna da tutti gli organismi economici internazionali, non è tutto oro quello che luccica: alto resta infatti il tasso di disoccupazione, nonostante la crescita della produttività e dell’export, il 16,4%. Intanto però il quadro macroeconomico è notevolmente migliorato a partire dal 2011, e sembra che, sempre secondo i forecast del Fmi, nel volgere di 5 anni, la Spagna diventerà più ricca del 7% rispetto al bel paese.
Certamente l’Italia ha 15 milioni di abitanti in più, e non si tratta di dettagli di poco conto, ma il fatto è che i governanti spagnoli hanno saputo ‘disimpegnarsi’ meglio dall’ultima crisi e dalla brutta recessione in cui si erano impantanati. Una più efficace politica economica e strategie mirate, hanno permesso agli ‘spaniards’ di lasciarsi alle spalle anni piuttosto critici per l’economia.
Resta il fatto che in pochi anni hanno superato quel gap storico che faceva la differenza tra i due paesi, fino a qualche anno fa in favore dell’Italia, la cui ricchezza era maggiore rispetto agli iberici di circa il 10%.
Il salario medio mensile (secondo una ricerca del quotidiano ‘La Stampa), in Spagna è di 1878 euro mensili (lordi), in Italia di 2480 euro (lordi). Ci hanno sorpassato anche nel settore del turismo: in Spagna arrivano più di 20 milioni di turisti in più, nonostante l’Italia sia il paese che ha il più alto numero di siti protetti dall’Unesco, e un patrimonio artistico certamente superiore in termini di opere e artisti famosi ovunque nel mondo.
Le presenze turistiche in Spagna contribuiscono in maniera determinante a sollecitare tutti i motori dell’economia, si tratta di oltre venti milioni di presenze in più ogni anno. Gli spagnoli, tra le tante differenze, spendono meno per il welfare e la settore sanitario, rispetto al nostro paese, il settore immobiliare presenta costi inferiori, e il mercato immobiliare è più favorevole per gli acquisti in Spagna, in Italia le case costano oltre un terzo in più.
Sono dati che hanno scatenato una lunga serie di analisi e considerazioni da parte dei media, perché un po’ di clamore, per la verità c’è in questi riscontri, stigmatizzati dall’orgoglio degli spagnoli, che ne hanno fatto materia di ‘rivalsa’, tramite la stampa. E tuttavia il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, questi giorni impegnato nei lavori del G20 e del Fmi a Washington, non si scompone, continua a sostenere che la strada intrapresa dall’Italia è quella giusta.
Si procede con passo meno sostenuto rispetto ad altre economie dell’Eurozona, ma i progressi si fanno sentire, secondo il ministro Padoan, e già dal Def tecnico atteso a giorni, nel corrente anno l’economia dovrebbe crescere ulteriormente: +1,6%, ossia un’accelerazione pari allo 0,1% in più rispetto alle stime precedenti. Dovrebbe rallentare nei prossimi due anni per l’effetto delle clausole di salvaguardia sull’Iva, previste a legislazione vigente.
Del ‘sorpasso’ dell’economia spagnola su quella italiana, ne parla anche il Financial Times, con un articolo intitolato: “Spanish now richer than Italians”, dove si rimarca l’importanza dei dati diffusi dal Fmi, e il fatto che non si tratta di una realtà economica destinata a dissolversi nel breve termine, ma è destinata a continuare nel tempo. Nell’articolo del FT si sottolinea anzi che a partire dal 2023, alcuni paesi dell’ex blocco sovietico, come Slovacchia e Repubblica Ceca, hanno le carte in regola per diventare più ricche dell’Italia quanto a reddito pro capite. E’ dal XVI secolo che Spagna e Italia lottano in sordino per la supremazia nel Mediterraneo, fa notare il Financial Times.
Proprio il Regno Unito non può gloriarsene, dato che, da quando sono scattate le condizioni per attivare l’articolo N. 50 del Trattato di Lisbona, e dunque con l’avvio dei negoziati per la Brexit, la Gran Bretagna viaggia con un Pil inferiore a quello italiano, destinato a subire ulteriori contrazioni nei prossimi anni, per i riflessi economici causati proprio dall’uscita del Regno Unito dall’Unione europea.
Lo stallo in cui versa attualmente l’Italia, che non ha espresso, dopo l’ultima consultazione elettorale, un orientamento politico certo, non gioca a favore del Paese, i prossimi anni saranno decisivi per il proseguimento sulla strada della svolta. DIpenderà dalla competenza del prossimo governo e dal modo in cui gestirà i mezzi dell’’azienda Italia’.

 

FMI. L’ECONOMIA ITALIANA IN CRESCITA, MA OCCORRE RISANARE I CONTI PUBBLICI

DI VIRGINIA MURRU

 

 
Christine Legarde, Direttrice del Fondo Monetario Internazionale, lo aveva già ricordato lo scorso dicembre: l’Italia deve intervenire sui conti pubblici e risanare il debito, per meritare di essere la terza potenza economica dell’Ue. In realtà il Paese lo è solo a livello ‘potenziale’, e grazie al grado di sviluppo industriale (in Europa secondi solo alla Germania).
 
Ma puntando l’attenzione ai dati macro dell’economia in area euro, in particolare sul Pil, siamo davvero – come sostiene il FMI – il ‘fanalino di coda’, visto che davanti a noi non c’è solo la Germania (2,5% di Pil), Francia (2,1%) e Spagna (2,8%), ma anche la Grecia, il cui Pil, 2%, è superiore a quello italiano, 1,5%.
 
Il Fmi considera in crescita l’economia dell’Italia (lo stesso livello del 2017), lo si deduce dalle risultanze del World Economic Outlook, ossia il rapporto sull’economia globale. Le tabelle del WEO sono state redatte in vista dei Meetings che iniziano proprio oggi a Washington.
 
Nei confronti dell’Italia, le stime per l’anno in corso, risultano in rialzo dello 0,1% rispetto all’Outlook di gennaio e di +0,4% rispetto al precedente elaborato lo scorso ottobre.
E tuttavia, il Fmi, insiste sulla richiesta di risanamento dei conti pubblici, lo esprime a chiare lettere nel Fiscal Monitor, nel quale si precisa che è fondamentale “l’avvio di un consolidamento di carattere fiscale, che esprima credibilità, oltre che l’ambizione di riuscire a collocare il preoccupante debito pubblico in un corso di costante riduzione”.
 
Per raggiungere questo obiettivo – secondo il Fmi – si dovrebbe procedere al taglio della spesa primaria corrente. Sarebbe altresì necessario un consistente aumento degli investimenti, una riduzione della pressione fiscale sul lavoro e il supporto delle fasce più fragili. Si dovrebbe, in questo contesto d’interventi, ampliare la base imponibile e operare una migliore perequazione attraverso la tassazione della ricchezza, in primo piano immobili e consumi.
 
Gli esperti del Fmi considerano positiva la crescita dell’economia italiana, ma non si può fare a meno di considerare la relazione con il resto dei paesi dell’Eurozona: il Paese, in questo confronto, resta comunque in coda. Il rapporto debito-Pil si stima che esprimerà una contrazione, raggiungendo il 129,7%, nel corrente anno, e 127,5% tra due anni, continuando, con gli interventi suggeriti, la sua discesa negli anni successivi.
 
I tecnici dell’Istituto hanno stimato che il pareggio di bilancio nel Paese sarà raggiunto nel giro di un anno. Tra le tante note negative espresse dai nostri conti pubblici, ce n’è una positiva: ossia che l’Italia sarà il solo Paese a mettere in rilievo un pareggio tra le maggiori economie dell’area euro, tranne, come al solito, la Germania, per la quale è previsto ancora un avanzo.
Il rapporto deficit-Pil sarebbe orientato verso una costante riduzione, nel 2018 all’1,6% e allo 0,9% nel 2019. A queste stime si aggiunge una contrazione della spesa pubblica, pari al 48,4% per quest’anno, con lievi flessioni in crescita per i prossimi due anni.
 
L’Outlook dell’Istituto di Washington mette in guardia anche dai rischi di rallentamento, nella crescita dell’economia globale, rischi e destabilizzazioni che interesseranno il medio e lungo periodo. Le politiche economiche degli Stati più influenti e le vulnerabilità del sistema finanziario, potrebbero riservare sorprese spiacevoli.
 
Per queste ragioni e tante altre implicate negli scenari economici e finanziari, le insidie restano sempre dietro l’angolo; in un contesto di globalizzazione non ci sono certezze nel lungo termine.
 
Il Fmi si rivolge alla classe politica di tutti i Paesi , agli operatori economici e investitori: la recente politica di aumento dei tassi d’interesse (la Fed in primis), dopo gli anni seguiti alla forte crisi economica e all’abbassamento dei tassi da parte delle Banche Centrali, mette il sistema a rischio, creando anche problemi di volatilità nei mercati.
 
Volatilità che si è riusciti a contenere negli ultimi anni con il supporto della politica monetaria, adottata non solo dalla Fed, ma in ampia misura anche dal Giappone, Ue (e nemmeno la Cina è stata esente da queste misure).
 
Nei mercati, con la riduzione della politica monetaria espansiva, si punta ora ad un regolare aumento dei tassi, ma queste dinamiche potrebbero sfociare in un fenomeno di rialzo dell’inflazione (realtà che in questo momento riguarda soprattutto gli Usa), rischio magari non connesso al breve periodo, ma che in futuro, specie nell’Ue, dopo la riduzione del Qe e il relativo processo di ‘normalizzazione’ del sistema, potrebbe rendere nuovamente necessaria la politica monetaria espansiva e relativo acquisto di asset da parte della BCE.
 
Nelle valutazioni e stime del Fmi, ci sono dettagli non lusinghieri che riguardano i cosiddetti ‘Paesi virtuosi’. Non di sola Italia ovviamente si parla quando si tratta di conti pubblici.
Un quinto di questi paesi, infatti, nel 2017, aveva un debito pubblico superiore al 70% del Pil. Secondo il Fmi, questi paesi mettono in evidenza ampi deficit primari, estesi a livello di record nelle economie emergenti e in quelle in via di sviluppo.
Il rischio dunque sarebbe la notevole vulnerabilità nel caso in cui si verificassero condizioni finanziarie sfavorevoli alla loro crescita, per via dei cambiamenti degli scenari globali in questo ambito, con limiti all’accesso ai mercati e le conseguenze sulle loro economie.
 
Qualora poi si verificassero problemi di carattere recessivo, i Paesi con un alto deficit e debito, non avrebbero spazi di manovra adeguati per aumentare la pressione fiscale (per esempio), e dunque bypassare le difficoltà.
 
Per quel che riguarda lo stato dei conti pubblici in Italia, la realtà globale è in continuo divenire, i cambiamenti non di rado arrivano improvvisi come tornado, basti pensare alla tempesta che scatenarono nel 2008 i mutui subprime negli Usa, le cui conseguenze (in Europa e non solo..) sono arrivate puntuali come raffiche nel sistema.
 
Il Fmi, nonostante la solidità dell’economia degli States, non esclude che proprio qui l’economia possa subire ulteriori scosse, e si stima infatti che nel volgere di un quinquennio, è verosimile che il debito pubblico possa superare quello del nostro paese (il debito americano, da 107,8% attuali, passerà in 5 anni a 117%..). Nessuno, cioè, da quando il mercato è diventato praticamente globale, può ritenersi tutelato all’interno delle proprie frontiere.

ISTAT. RIPRENDE FIATO NEL 2017 LA PRODUTTIVITA’ DELL’ECONOMIA

DI VIRGINIA MURRU
Nel 2017 finalmente la produttività dell’economia del Paese riprende a crescere, è quanto emerge dall’aggiornamento delle tabelle Istat (rielaborate dall’Ansa), si tratta di un rialzo incoraggiante: +0,9%.
Più che positivo se si confronta con il dato in calo del 2016 (-0,4%), anche perché questo è il migliore risultato da 7 anni a questa parte, la situazione era immobile in questo versante, infatti, dal 2010 (si ebbe allora un’ottima performance, pari a +2,9%).
In questo contesto di crescita, l’incremento più significativo è rappresentato dalla produttività del lavoro, non si registrava un risultato più positivo dal 2013. Ed emerge anche dalle risultanze del Ministero del Lavoro: sono stati 31.700 i contratti depositati, che potranno fruire della detassazione dei premi di produttività (detassati al 10%, grazie alla Legge di Stabilità 2016). Il 78% delle aziende che hanno depositato le dichiarazioni è localizzato al Nord, solo il 6% al Sud e il 16% al Centro.
Sappiamo bene che la produttività del lavoro è uno degli assi vulnerabili del sistema, l’indicatore torna a salire (in termini di ore lavorate, calcolate come valore aggiunto) dello 0,7%. Come si è accennato risulta essere la crescita più alta da quattro anni, nel contempo sale anche di +1,4% la produttività del capitale.
Ottimi segnali dell’orizzonte economico che indicano un consolidamento dell’economia, i dati diffusi dall’istat mettono in rilievo un buon movimento delle attività produttive nel Paese, perché è il risultato del rapporto che esiste tra la ricchezza che viene prodotta e la quantità dei mezzi che sono stati impiegati per questo fine.
E’ la stessa Istat a darne un’efficace definizione: “la produttività è un indicatore significativo che riflette la crescita del valore aggiunto derivante dal progresso tecnologico, e tutti quei miglioramenti che contribuiscono al progresso ed efficienza dei processi produttivi”.
Negli ultimi anni, in sintonia con le ottime performance di crescita nell’economia dell’Unione europea e di quella globale in generale, tanti sono stati i passi avanti, e i riscontri sul miglioramento dei dati macro emergono proprio dai numeri diffusi dall’Istat.
Abbiamo assistito anche in Italia ad un costante progresso nei processi d’innovazione, basti pensare all’industria 4.0, ossia la tendenza dell’automazione industriale (in particolare l’uso di software) che integra con eccellenza nuove tecniche produttive. Il fine è quello di migliorare le condizioni di lavoro e nel contempo la produttività, tramite l’innovazione degli impianti e la loro qualità produttiva.
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AGENZIA DELLE ENTRATE. DA OGGI DISPONIBILE IL NUOVO MODELLO 730 PRECOMPILATO

DI VIRGINIA MURRU
E’ ufficialmente aperto, da oggi, lunedì 16 aprile, il consueto periodo annuale in cui i contribuenti devono fare il punto sull’entità del reddito e rendere conto all’erario della propria posizione.
Così l’Agenzia delle Entrate, nel suo portale, introduce il nuovo modello precompilato:
“L’Agenzia delle Entrate mette a disposizione dei contribuenti una dichiarazione dei redditi precompilata con diversi dati già inseriti: dalle spese sanitarie a quelle universitarie; dalle spese funebri ai premi assicurativi, dai contributi previdenziali ai bonifici per interventi di ristrutturazione edilizia e di riqualificazione energetica, e altro ancora”.
Via web, sempre a partire da oggi, ogni contribuente potrà accedere al suo ‘cassetto fiscale’, prendere visione del nuovo modello di dichiarazione annuale, attraverso il quale sarà altresì possibile (tra le altre novità), trovare in dettaglio un ‘rendiconto’ del modo in cui lo Stato ha impiegato le imposte versate. Si potrà dunque venire a conoscenza della destinazione che le tasse versate nel 2017 hanno avuto, in seguito alla propria dichiarazione dei redditi presentata, relativa al precedente ‘esercizio’.
L’Agenzia delle Entrate ha reso disponibili circa 30 milioni di dichiarazioni destinate ai contribuenti, e 20 milioni risultano i modelli 730; 10 milioni i ‘modelli Redditi’. Da oggi si può accedere ai modelli 730 e Redditi. A partire dal 2 di maggio saranno disponibili i “730 modifiche e invio”, fino al 23 di luglio. Le modifiche al modello Redditi è anch’esso disponibile dal 2 maggio, può però essere trasmesso a partire dal 10 maggio fino al 31 ottobre prossimo.
I dati sono stati ormai elaborati da parte del Ministero dell’Economia, da qui parte infatti l’iter finanziario delle risorse versate dai contribuenti all’Erario, ossia il modo in cui lo Stato ha investito le imposte; si tratta in fin dei conti di un servizio di trasparenza molto utile ai cittadini che vogliono capire quale destinazione hanno seguito.
E’ un’idea messa in campo dai vertici dell’Agenzia stessa, il cui fine, come già si è detto, è quello d’informare il cittadino, rendergli noto in quale proporzione ha contribuito per i vari settori della spesa pubblica, quali sanità, istruzione, previdenza, sicurezza, cultura, trasporti e tanti altri capitoli di spesa.
Le novità di quest’anno non sono tante, ma ci sono.
Una in particolare è stata annunciata dall’Agenzia delle Entrate, ed è necessario prenderne atto: attraverso il supporto tecnico del partner Sogei, è stata resa disponibile la nuova procedura di compilazione assistita del modello 730, al fine di rendere il più semplice possibile la comprensione di ogni dettaglio, sconti fiscali compresi.
Per accedere alla propria posizione, tramite il sito dell’Agenzia delle Entrate, è necessario autenticarsi e inserire il “Pin Fisconline”. Ma non solo, diverse sono le modalità. Si può anche accedere tramite  il codice ‘Spid’ d’identità digitale, il Pin dispositivo Inps (col quale si può avere accesso all’area riservata dell’Agenzia delle Entrate, e visionare il modello precompilato, attraverso il portale Inps).
Necessaria per l’accesso la ‘Cara Nazionale dei Servizi (CNS) e NoiPa (Noi Pubblica Amministrazione). E infine è necessario disporre della ‘Delega Caf’.
Il contribuente, nel prendere visione del nuovo modello, potrà trovare i dati già caricati dall’Agenzia, secondo i riferimenti contenuti nella precedente dichiarazione (2017), ma anche dati forniti dalle Poste, Istituti di credito, Inail, Inps e Anagrafe tributaria.
Una delle novità sui dati già inseriti riguarda le spese di ristrutturazione e risparmio energetico, ossia il ‘bonus ristrutturazione ed Ecobomus’.
Altri cambiamenti del precompilato 2018 riguardano l’inserimento delle nuove spese mediche, secondo i dati forniti da cliniche private, ospedali, SSN, medici pubblici e privati. Sono comprese (nelle spese mediche) anche quelle relative all’acquisto di farmaci con ‘ricetta rossa’, ma escluse le cosiddette ‘ricette bianche’, ossia i farmaci da banco, che non richiedono prescrizione. Questo tipo di spesa non figura nel nuovo 730, ma può tuttavia essere riportata con le prove d’acquisto, ovvero la necessaria documentazione fiscale.
Questi dati possono essere contestati dal contribuente, tramite la procedura ‘Opposizione spese mediche’.
Le spese funebri sostenute per conto di familiari erano inserite anche nel modello dell’anno precedente, e rientra nella fattispecie tra le tipologie di spesa aventi diritto alla detrazione del 19%, per un importo massimo di 1550 euro.
Detraibili anche le spese concernenti l’istruzione, e queste invece sono una novità per il modello precompilato 2018. Importanti in questo ambito i cambiamenti introdotti tramite la Legge di Stabilità e il decreto ‘La buona scuola’.
Si tratta di deduzioni attinenti le spese di frequenza scolastica di ogni ordine e grado, a partire quindi dalla Scuola Materna fino all’iter di studi universitari, comprese le spese per le mense scolastiche.
Risultano deducibili anche i contributi volontari per l’edilizia scolastica, rinnovamento tecnologico e quelli relativi all’offerta formativa.
Il Fisco ha già inserito, nel quadro relativo alle detrazioni al 19%, dei dati concernenti le spese sostenute per gli asili nido. Il modello può essere scaricato al fine d’integrarlo con ulteriori dati in possesso del contribuente o apportare eventuali rettifiche; qualora, per esempio, vi fossero inesattezze nei dati riguardanti le spese deducibili, o detraibili che non fossero state inserite. Tali modifiche possono essere eseguite direttamente o con il supporto del Caf o intermediari fiscali abilitati e competenti in ambito fiscale.
La sicurezza sulla regolarità dei dati inseriti eviteranno possibili sanzioni.
La dichiarazione deve pertanto essere letta con attenzione e controllata prima dell’invio e conseguente accettazione dei dati già inseriti nel nuovo modello.
Importante a questo riguardo, infine, un richiamo dell’Agenzia per coloro che accettano in modo integrale il 730 già precompilato:
“Chi accetta online il 730 precompilato, senza apportare modifiche, non dovrà più esibire le ricevute che attestano oneri detraibili e deducibili e non sarà sottoposto a controlli documentali”.

LA GERMANIA CHIEDE IL DISIMPEGNO DALL’EUROZONA, IN BARBA ALL’IRREVOCABILITA’ DELL’EURO

DI VIRGINIA MURRU
 
Ipotesi prive di razionalità, ‘voli pindarici’, in una realtà faticosamente orientata verso l’integrazione, unico e vero obiettivo dell’Unione europea.
 
Il presidente della BCE, Mario Draghi, ricorda costantemente ai paesi dell’Eurozona un dettaglio fondamentale legato all’Unione monetaria: ‘l’irrevocabilità dell’euro’. Rimandi tesi forse a scongiurare eventuali tentazioni di fuga, o per esorcizzare il verificarsi di possibili scelte al riguardo. Certo è che simili opportunità non sembrano poi così improponibili, né tanto meno idee bislacche, pur nel contesto di un obiettivo rivolto all’integrazione.
 
In questa logica d’irrevocabilità la Germania, per esempio, sembra muoversi con disagio, e da anni imperversano dibattiti negli ambienti accademici, finanziari ed economici, sull’evenienza di un abbandono dell’Eurozona, ovvero dall’Unione monetaria. Dopo il divorce bill in atto tra Ue e Regno Unito (fortemente osteggiato proprio dalla Germania), per l’Unione europea sarebbe davvero un colpo da cecchini: continuare a parlare d’integrazione e intenti comuni verso l’Unità politica, a questo punto, sarebbe veramente arduo.
La Germania è come la forza trainante di un convoglio che resiste, perché c’è un fulcro centrale forte, un punto di gravità che tiene uniti i paesi, diciamolo pure, satelliti di questa solida economia.
 
Mentre un’Italia-exit, sarebbe una mezza sciagura per l’economia del Paese, dato che un ritorno alla vecchia divisa causerebbe una svalutazione certa, con tutti i rischi annessi e connessi in ambito economico e finanziario, per la Germania il discorso per ovvie ragioni sarebbe diverso. Il marco sarebbe rivalutato, ed ovviamente per i risparmiatori diventerebbe un’inaspettata manna dal cielo. Per questo in Germania si avverte questo scalpitare discreto e una voce sempre più alta che sobilla gli ambienti politici, prospettando scenari che senza ombra di dubbio andrebbero a vantaggio dei tedeschi.
 
Chi in Italia propone l’uscita dall’euro è poco meno di uno scellerato che non sa farsi i conti in tasca; basterebbe del resto il monito del Direttore generale del Tesoro, il quale sostiene:
“si può affrontare il discorso in ambito accademico, e tutto si ferma qui, ma se gli intenti andassero oltre, si dovrebbe contenere il panico della gente, che si riverserebbe agli sportelli, per il prelevamento dei propri risparmi, che altrimenti verrebbero convertiti nella nuova valuta (svalutata), con serie conseguenze nel versante finanziario.”
In effetti, per i risparmiatori che lasciassero il loro denaro fermo in banca, con un’ipotesi del genere, sarebbe come ritrovarsi tra le mani una maglia infeltrita.. E lo spettro di quello che è accaduto in Grecia, sarebbe la naturale conseguenza di un procedere nell’azzardo.
 
Ipotesi, quelle dei simpatizzanti della ‘lira’, prive di razionalità, ‘voli pindarici’ in una realtà faticosamente orientata verso l’integrazione, unico e vero obiettivo dell’Unione europea
E c’è anche da dire che comunque gli italiani sono tutt’altro che sprovveduti, dato che, nella sciagurata eventualità di un ritorno alla lira, hanno investito precauzionalmente all’estero centinaia di miliardi di euro.
 
Eppure la Germania, meeting dopo meeting, tramite l’Ifo (Istituto di Ricerca Economica), ed economisti del calibro di Christoph Schmidt (presidente del Consiglio degli esperti economici), Hans Werner Sinn e Karl Konrad, tutti rappresentanti del mondo economico, punta il dito su quella porta che Draghi vorrebbe indiscutibilmente chiusa. Lo slogan sembra diventato: “The quest for the best”(La ricerca del meglio..), e quando incalzano discorsi – nel corso dei vertici dell’Unione monetaria – che alludono esplicitamente alle riforme che dovrebbero portare alla condivisione dei rischi in ambito finanziario, allora la Germania s’interroga.
 
S’interroga sull’opportunità di svincolarsi dal ruolo di ‘Atlante’, che in virtù della sua forza deve sostenere anche le cause dei paesi più periferici dell’Unione, per concludere poi che il gioco non vale la candela: è la logica del più semplice sillogismo. Proprio perché l’economia tedesca è una storia a sé, ha un senso il ragionamento della Cancelliera quando fa riferimento ad un’Europa ‘dalle due velocità’, perché non vi è aderenza e simmetria rispetto alla maggior parte dei paesi dell’Eurozona e dell’Ue.
 
L’economia in Germania presenta una crescita del Pil intorno al 3%, tasso di disoccupazione che è un terzo di quello italiano (3,6%, peraltro ai minimi da decenni), e può nondimeno esibire un surplus commerciale che supera i 300 mld di euro. Per tutte queste ragionevoli motivazioni, gli economisti tedeschi non sono entusiasti del cosiddetto ‘risk-shared’, in definitiva si chiedono: perché non scegliere la soluzione migliore per il popolo tedesco, chi ce lo fa fare a dirottare risorse verso i paesi meno solidi (e anche meno virtuosi nell’ambito del rispetto dei target e parametri comunitari)?
 
Come sempre c’è l’altra parte della medaglia, cambiando osservatorio cambiano anche i panorami economici e le considerazioni al riguardo.
Secondo l’economista Marcello Minenna, docente alla Bocconi, tra le due grandi crisi economiche intercontinentali, ossia tra il 1982 e il 2008, l’andamento del Pil in Europa (e in particolare in Eurozona), ha evidenziato valori di crescita più elevati rispetto alla situazione globale. Come si spiega?
Secondo Minenna, una delle ragioni sta nel verificarsi di due eventi particolari: due riunificazioni.
 
Della Germania nel 1990, e dei tassi d’interesse dei Paesi membri dell’Eurozona, con la nascita della nuova divisa, l’Euro. Entrambi giocarono a favore della Germania. Il primo cancellò i debiti tedeschi causati dalle riparazioni di guerra, evitando così alla Germania il default.
 
Il secondo, sempre secondo le considerazioni dell’economista Minenna:
“agevolò il finanziamento dei debiti pubblici dei Paesi membri e allineò la loro spesa percentuale per interessi a quella tedesca. Un effetto derivato dalle direttive europee che imponevano ex lege l’uguaglianza dei rischi dei titoli di Stato dell’Eurozona (i Govies) e da una Bce che conseguentemente non li discriminava nella sua operatività: de facto l’Eurozona operava come se i rischi fossero condivisi.
D’altronde una valuta unica non può avere diversi tassi di interesse a meno di non voler creare tra gli Stati membri valute ombra con incontrollati effetti sperequativi socio-economici”.
 
La conclusione è che il risk-sharing non è poi quella sciagura che la Germania sta prospettando, dato che proprio nell’arco di tempo considerato, ha svolto un ruolo di stimolo sul Pil dei Paesi dell’Eurozona, nessuno escluso, e tanto meno la Germania.
 
Eppure sono le proposte sempre più decise, ormai ufficiali, degli economisti tedeschi più influenti a insistere sul fatto che l’Ue dovrebbe dotarsi di una legislazione che preveda l’uscita dall’area euro, non propriamente l’iter dell’Art. 50 del Trattato di Lisbona, ma qualcosa che consenta al paese ‘uscente’ di tenere i rapporti commerciali con i paesi membri e allo stesso tempo salde (e largamente autonome) le sue frontiere economiche e finanziarie.
 
Tutto questo in barba ai richiami di Mario Draghi, all’obiettivo ultimo dei Padri fondatori dell’Europa, che miravano a spezzare le catene dei vari nazionalismi puntando all’integrazione e all’Unità politica. Una domanda, o forse una provocazione, viene spontanea, dopo la giungla di tali considerazioni: ma possibile che un’Europa Federale faccia così schifo, solo perché le economie più prospere non vogliono sentire parlare di risk-sharing, e si trincerano ancora e sempre dietro i propri nazionalismi, nonché egoismo?
 
Ma gli Stati Uniti, che sono una federazione di Stati, allora, come affrontano oggi, e hanno affrontato ieri, le disparità economiche tra i diversi Stati? Condividendo ovviamente le differenze in positivo e in negativo, dato che il ranking del Pil tra i diversi Stati presenta differenze non di poco conto. Non tutti gli Stati americani se la passano come la Florida e la California. Il Mississipi, con il suo basso reddito pro capite, è infatti considerato, secondo il Census Bureau, il più povero degli States, e tanti altri ne condividono la sorte. Eppure tutti insieme, i 50 Stati, marciano alla grande, consierato che, gli Usa, sono ancora la prima potenza mondiale.
In Europa non si vuole la vera Unità, questo purtroppo è un dato di fatto, le fondamenta dell’Ue tremano ad ogni consultazione elettorale, sempre più deludenti in termini di risultati, dai quali emerge chiaro un euroscetticismo che non può considerarsi lungimiranza. Solo l’Unione politica degli Stati renderà il Vecchio Continente competitivo a livello globale, e un’autorità indiscussa in ambito internazionale, allorché ci si confronterà con i grandi per decidere su questioni di grande importanza, come quella attinente alla sicurezza.
 
Intanto, dalla BCE fanno sapere che, qualora la Germania lasciasse l’Eurozona, essendo un Paese con una posizione creditoria nei confronti degli altri Paesi membri, avrebbe diritto a 900 miliardi di euro, tale è il suo saldo in termini di Target2 (istituito nell’Eurosistema, è un sistema di pagamento interbancario in tempo reale tra Banche Centrali, Commerciali), cifra che dovrebbe essere corrisposta dalle Banche Centrali dei paesi che resteranno in area euro alla Bundesbank, ossia la Banca Centrale tedesca.

ALITALIA. TRE OFFERTE PERVENUTE NELLO STUDIO NOTARILE ROMANO ATLANTE CERASI

 
DI VIRGINIA MURRU

I Commissari Straordinari di Alitalia si accingono ad esaminare le 3 offerte recapitate presso lo studio notarile Atlante Cerasi di Roma; nel mettere al vaglio le proposte di acquisto, Alitalia sta per scrivere l’ennesimo capitolo nella storia infinita di una crisi che dura ormai da decenni.

All’esame dei Commissari l’offerta di Lufthansa, la più prestigiosa ma anche quella più problematica, viste le condizioni che fin dall’inizio ha posto per l’acquisizione dell’ex compagnia di bandiera italiana. Interessata all’acquisto dell’aviolinea in amministrazione straordinaria, c’è anche la compagnia low cost EasyJet, in alleanza col Fondo americano Cerberus e Delta. Vi sarebbe poi una terza offerta proveniente da una compagnia ungherese, Wizzair, interessata comunque a rotte di breve e medio raggio. Si è anche parlato di un’offerta tutta italiana, che avrebbe la garanzia finanziaria della Cassa Depositi e Prestiti, ma nulla vi è di certo al riguardo.

Oggi si incontreranno i ministri competenti, per un’analisi delle tre offerte arrivate nello studio notarile romano. Ieri alle 18 scadevano i termini per la presentazione di un’offerta vincolante.

La compagnia EasyJet è stata quella più esplicita riguardo agli intenti contenuti nell’offerta, dichiarando di avere presentato un’altra manifestazione d’interesse, ma in quanto componente di un consorzio, del quale pare faccia parte anche Air France-Klm; tuttavia non vi sono ulteriori dichiarazioni in merito, ogni offerta è coperta dal riserbo.

Lufthansa, intanto, conferma l’orientamento del suo interesse verso la compagnia italiana, ossia la proposta di una “New Alitalia Airlines” ristrutturata, con l’attuale assetto il colosso tedesco volterebbe le spalle ad una possibile intesa. Con le premesse di una ristrutturazione, Lufthansa, potrebbe aprire un tavolo di trattativa, del resto il mercato italiano è sempre stato allettante per i tedeschi.

Nulla di definitivo comunque, l’orizzonte della vendita è ancora piuttosto nebuloso, e la prospettiva di un rinvio sembra l’ipotesi più probabile, la strada più percorribile. Il 30 aprile è il termine entro il quale potrebbe essere emanato, molto verosimilmente, il decreto di proroga. Se non interverranno fatti veramente decisivi, ad oggi sembra l’unica scelta perseguibile.

Qualora si seguisse questa via di cautela, le conseguenze più dirette sarebbero il ricorso agli ammortizzatori sociali, e pertanto, dopo relativa richiesta trasmessa dalla compagnia, dovrebbe estendersi la Cigs (Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria) per altri 6 mesi, ossia fino alla fine di ottobre, per circa 1.700 dipendenti, dei quali 90 sono comandanti, 1230 addetti e 360 fly assistants.

L’ex compagnia di bandiera italiana ha compiuto 70 anni, ed è difficile preconizzarne il futuro, alla luce della crisi di oggi. Potenzialmente è un brand che rappresenta il prestigioso stile italiano, in grado di tornare competitiva, di sapersi distinguere e andare avanti con autorevolezza sul mercato globale – diventato poco meno di una giungla – se guidata da un’amministrazione lungimirante e competente.

Purtroppo i guai per Alitalia sono cominciati già nei primi anni ’90, da allora è stato un procedere in caduta libera per quel che riguarda l’accumulo di perdite e rosso in bilancio. Secondo uno studio di Mediobanca, si stima che a partire dal 1974 fino al 2014, l’ex compagnia di bandiera abbia bruciato soldi pubblici per un importo pari a 7,4 mld di euro. Risorse perse nel nulla, in tentativi falliti di ripresa.

Nel 2008 la compagnia risvegliava l’orgoglio nazionale, e diventava l’emblema del “made in Italy” da difendere a tutti i costi, soprattutto dalle mire della compagnia d’oltralpe, Air France. Suonava come un’umiliazione, e Berlusconi ne fece un tema della sua campagna elettorale.

In seguito, il sodalizio con Abu Dhabi e la compagnia Etihad, non ha rappresentato la svolta che tanto si era sperata, nonostante il 49% dell’azionariato e un orizzonte che sembrava luminoso e florido. Fallito anche questo tentativo di riportarla in piedi. Entro quest’anno la sua sorte potrebbe essere decisa dalle scelte delle autorità che stanno cercando di venire a capo delle sue disavventure finanziarie.

La scelta delle “carte giuste” potrebbe farla decollare definitivamente. Per ora il futuro è più che mai incerto.

DOMBROVSKIS: L’ITALIA RISPETTI I TARGET, RIDUCA DEFICIT E DEBITO PUBBLICO

 

DI VIRGINIA MURRU

 

Altro monito della Commissione europea all’Italia: “E’ necessario attenersi ai target di bilancio, e nel contempo ridurre deficit e debito pubblico”.
Un sermone che purtroppo è diventata intercalare fissa nei rapporti tra l’Italia e la Commissione europea, mai convinta, quest’ultima, che i conti pubblici del nostro paese rispettino i parametri. Per questo il vice presidente Dombrovskis, regolarmente, tiene a ricordare che i ‘deragliamenti’ nei conti ci sono ed è necessario rispettare le regole. Pungolate quasi mai condivise, per la verità, dal governo italiano, in particolare dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.

La Commissione europea insiste sugli interventi strutturali da attuare nel budget, miglioramenti che sono del tenore dello 0,3% del Pil. Le correzioni sui conti pubblici non possono prescindere dalla riduzione del deficit e del debito, il rispetto dei target in materia sono vincolanti.

Secondo la Commissione, infatti, si tratta di passi decisivi e dovuti, diretti a mettere ordine nel bilancio con interventi incisivi, e non approssimazioni.

Bruxelles riconosce i notevoli passi avanti compiuti dal Paese negli ultimi anni in termini di crescita economica, ma esiste la voragine dei conti che deve nostro malgrado confrontarsi con lo standard degli altri paesi, più disciplinati nei confronti dei parametri fissati dal Trattato di Maastricht.

Dombrovskis fa sentire la sua voce tramite un’intervista rilasciata al Tg5, in occasione della sua partecipazione al Workshop Ambrosetti, che si è tenuto come di consueto a Villa d’Este, con una vasta rappresentanza del mondo economico e politico. All’apertura dei lavori della ventinovesima edizione (sessione intitolata “Lo scenario dell’Economia e della Finanza”), Valerio de Molli (managing partner e Amministratore Delegato di ‘The European House-Ambrosetti), ha introdotto il meeting con queste eloquenti parole:

“Crescita e debito: ossimoro o sfida impossibile? Come crescere malgrado la zavorra pesante del debito pubblico”.

Il ‘pulpito’ è tra i più prestigiosi a livello internazionale, “The European House-Ambrosetti” è stata riconfermata, per il 5° anno consecutivo, il primo Think-Tank privato italiano (“nella top 10 europea e tra i primi 100 indipendenti su quasi 7mila censiti sul piano globale). Il riconoscimento viene da un’Autorità internazionale indiscussa, che vigila in questo ambito: The University of Pennsylvania.

Ci si può muovere dunque in termini di crescita, nonostante il debito pubblico sembri inamovibile alla stregua di una montagna, eppure si potrebbero mettere in qualche modo le ruote a questa montagna. Ma in definitiva non è quello che il governo uscente ha fatto per quasi quattro anni?
I nodi restano comunque, e si portano al seguito le poco edificanti richieste di conformità e ‘compliance’ esatte regolarmente dall’Ue, e mai veramente soddisfatte, secondo la Commissione.

Se il governo, com’è probabile, fosse formato dai partiti di destra, è già certa l’insofferenza verso le richieste di Bruxelles, euroscettici quali sono sempre stati. Le relazioni con le autorità dell’Unione potrebbero col tempo risentirne, creando disagi e complicazioni, che davvero non mancano al Paese. Il leader della destra, Matteo Salvini, ha già sbottato al riguardo. Risponde alla maniera di Trump, il rappresentante della Lega Nord: ‘prima viene il benessere degli italiani, poi le regole europee’.

Un governo, quello italiano, ancora tutto da decidere e formare, ancorato a prese di posizione, arretramenti e orgogli, che in questo momento non servono a risolvere le questioni più urgenti. Intanto Gentiloni ha rimandato la pubblicazione del Def, mentre il Presidente Mattarella cerca di rendere più agevole la strada delle intese, così piene di ostacoli che non ne facilitano il transito.
Da Bruxelles. Intanto, fanno sapere che le valutazioni sugli interventi richiesti al governo saranno fatte tra qualche mese. Dichiara Dombrovskis:

“Il governo uscente presenterà il Def basato su uno scenario politico immutato, mentre spetta al nuovo esecutivo avviare un nuovo approccio”.

DIETRO LA GUERRA DEI DAZI TRA CINA E USA CI SONO SFIDE BEN PIU’ GRANDI: LE RETI 5G

DI VIRGINIA MURRU

 

 
Certo non si tratta di schermaglie. Donald Trump lo ha dimostrato con i fatti che non è facilmente impressionabile e non si fermerà neppure davanti alle ritorsioni di carattere commerciale annunciate dalla Cina.
 
Lo zoccolo duro di 60 miliardi di dollari in dazi addizionali decisi dall’establishment americano, nei confronti della seconda potenza economica mondiale, non impressiona però neppure la Cina.
 
Le misure riguardano 1.300 prodotti di tipo tecnologico di provenienza cinese; sull’altra sponda, intanto, si prepara un pacchetto di rivalse che non saranno gradite nemmeno agli americani: nella lista nera compilata dal governo cinese, sono oltre 100 i prodotti d’importazione che colpiranno con i nuovi dazi gli Usa, e non di noccioline si tratta.
 
La Cina è infatti un grande acquirente di Boeing, nel settore aeromobili, di auto e altre importanti voci dell’import in quello alimentare, quali i semi di soia, che avranno il loro peso nella bilancia commerciale, tallone d’Achille degli Stati Uniti, dato che, a febbraio scorso, ha messo in rilievo un disavanzo di oltre 57 mld di dollari.
 
Le ostilità sono più che mai aperte, ma sul campo le sfide non si limitano al protezionismo, e la Cina tiene a sottolineare che la ‘guerra’ è partita dagli States, non è stata né cercata né voluta dal colosso asiatico. In gioco c’è soprattutto la supremazia politica.
 
Per quel che riguarda i dazi sui semi di soia, i cinesi sono ben consapevoli che, essendo dei grandi importatori, inevitabilmente il riflesso sulle misure adottate ricadrà sul prezzo del prodotto, e colpirà di conseguenza i consumatori cinesi; ma non sarà semplice da metabolizzare neppure per il governo americano. E’ proprio la grande industria e il mondo imprenditoriale in generale che ha sostenuto Trump nella sua campagna elettorale, le ritorsioni della Cina pertanto non saranno accolte con esultanza.
 
I dazi ‘comminati’ da Trump non sono giudicati poi una tragedia, visto che, a conti fatti, avranno un valore in termini reali di circa 15 miliardi di dollari. Solo una lieve scossa, che può essere assorbita dal gigante asiatico senza troppi drammi, soprattutto se si considera che il surplus commerciale della Cina nei confronti degli Usa ammonta a ben 370 mld di dollari..
 
Intanto i dazi non sono di immediata applicazione, occorrono 60 giorni, ma potrebbe anche andare male agli Usa, dato che la Cina ha già fatto ricorso al Wto, al fine di accertare la legittimità delle misure adottate in ambito commerciale di Washington.
E tuttavia il problema dietro queste quinte sovrapposte di nebbie e conflitti tra le due superpotenze, in realtà è un altro: è la sfida delle reti 5G, ovvero “Fifth Generation”, l’industria delle telecomunicazioni di prossima generazione, e la corsa all’implementazione dei servizi mobili ad essa connessi. Sono proprio Cina e Usa che si contendono i migliori risultati, ognuna pronta a giocarsi tutto pur di riuscire a raggiungere i migliori traguardi in questo versante.
 
Lo scenario, certo, rispetto agli anni della guerra fredda, è cambiato: non c’è più l’URSS, che pur di primeggiare nei confronti dell’avversario, non si risparmiava in termini di investimenti, e non solo in tema di armamenti, ma anche a colpi di traguardi nello spazio, e perfino nello sport. Ogni conquista era buona pur di strappare la supremazia all’altra superpotenza.
 
Ora c’è la Cina dall’altra parte della barricata, ma non servono circonvoluzioni di parole per capire che la sfida consiste nel dimostrare che al ‘podio’ si ‘deve’ arrivare primi, a costo di scavalcare l’avversario in modo sleale dalla pedana del vincitore. Non servirebbe perdersi in retorica, e poi argomentare intorno all’orgoglio, tutto americano, sarebbe una perdita di tempo.
 
Dietro certe scelte politiche ci sono anche prove di forza, e dall’altra parte la volontà di non piegare il ginocchio, dimostrando che si è all’altezza della posta in gioco.
Detto in spiccioli, supremazia non solo economica ma politica. Questo in fin dei conti è il vero nodo della questione.
Intanto, per rientrare nel tema 5G, la Cina gioca un ruolo di primo piano nella costruzione di reti che renderanno superveloci i collegamenti via etere, più veloci della fibra.
 
Si può dire, in questo ambito, che un brevetto su dieci appartiene alla Cina (al colosso delle telecomunicazioni Huawei), la quale ha investito massicciamente in ricerca scientifica e in risorse umane pur di arrivare prima all’appuntamento col futuro. Le reti 5G saranno pronte a breve, massimo due anni.
 
Le nuove tecnologie consentirebbero una velocità pari a 20 Gigabit al secondo, su rete mobile, e il campo delle applicazioni ovviamente è enorme, al punto che il collegamento tra individui risulterà ‘subalterno’ rispetto a quello tra macchine.
Che la Cina allunghi le unghie del drago in territorio americano proprio nel campo delle tlc, non fa dormire sonni tranquilli agli americani, e la ragione è semplice da intuire: per i dati sensibili che corrono in rete potrebbe non essere molto ‘igienico’ per la sicurezza nazionale.
 
Questa è anche la ragione che ha indotto Donald Trump a firmare un decreto per evitare che Qualcomm, (società statunitense leader nel progresso tecnologico dei microchip per cellulari, e guarda caso esperta di reti 5G) fosse acquisita da Broadcom, un gruppo di Singapore.
 
Il presidente americano ha giustificato il decreto adducendo proprio “preoccupazioni inerenti la sicurezza nazionale”. Il gruppo di Singapore ha offerto prima 105 mld, poi rifiutati da Qualcomm, che per l’acquisizione ne chiedeva 160, ma inutilmente si è scongiurato l’intervento pubblico nelle trattative: il governo americano ne ha impedito il corso. E’ stata bloccata la fusione, e non si può andare oltre.
 
L’ascesa della Cina sul fronte delle telecomunicazioni spaventa gli Usa, il colosso Huawei è al primo posto a livello globale, Ericsson sembrava d’acciaio, ma è stata scavalcata dai cinesi nel ranking mondiale.
 
La Cina del resto intende procedere a passo sostenuto nel versante della tecnologia, e ambisce, nel volgere di pochi anni, a raggiungere quasi l’autosufficienza sia nella robotica, tlc, intelligenza artificiale, tecnologia spaziale.
 
La grande lungimiranza dei cinesi fa venire davvero tanti dubbi sulla sicurezza, e le telecomunicazioni sono un tramite che permette accessi discreti ovunque. Ma i cinesi, con la loro proverbiale pazienza e perseveranza, non si scoraggiano, anzi affermano, tramite i vertici di Huawei, che arriveranno primi comunque con le reti 5G, con il viatico degli Usa o senza.
 
E del resto il gigante Huawei, che ha sede a Shenzhen, può vantare 11 centri di R&D (Research and Development), tutti orientati sulla ricerca 5G, oltre a centinaia di ingegneri.
 
La sfida per la supremazia tra le due superpotenze passa certamente sul campo dell’alta tecnologia, i dazi sono una voce che si alza su altri traguardi, in definitiva ben più importanti.
 
 

ISTAT. AL TOP IL REDDITO DELLE FAMIGLIE NEL 2017: +1,7%

DI VIRGINIA MURRU
E’ salito dello 0,6%, rispetto al trimestre precedente (quindi variazione congiunturale), il reddito disponibile delle famiglie consumatrici, secondo gli ultimi dati diffusi dall’Istat. I consumi sono cresciuti dello 0,5%, mentre la propensione al risparmio delle famiglie si è attestata all’8,2%, in lieve aumento (0,1%), rispetto al precedente trimestre.
Tenendo conto della variazione del deflatore implicito dei consumi, dell’ordine dello 0,4%, ne consegue che il potere d’acquisto delle famiglie è aumentato rispetto al trimestre precedente dello 0,2%.
Sono dati resi noti dall’Istituto Italiano di Statistica, nell’ambito del “Conto trimestrale delle Amministrazioni pubbliche, reddito e risparmio delle famiglie e profitti delle società.”
Per quel che riguarda le Pubbliche Amministrazioni, nel 2017 l’indebitamento netto, in rapporto al Pil, è stato dell’1,6%, ridotto dello 0,3% rispetto al 2016, stesso trimestre. Il saldo primario delle PA – al netto degli interessi passivi – è in positivo, ed incide sul Pil per il 2,2% – quindi 0,1 punti percentuali in meno rispetto al periodo di riferimento (quarto trimestre 2016).
Dall’analisi dei dati risulta che la pressione fiscale è stata pari al 48,8%; in contrazione, rispetto allo stesso periodo del 2017, dello 0,8%.
Il reddito disponibile lordo – a prezzi correnti – è risultato in aumento dell’1,8%, rispetto al 2016.
Incoraggianti, ancora una volta, i dati concernenti il tasso di occupazione. A febbraio 2018, cresce la stima degli occupati, sia pure di poco, ossia dello 0,1% ( in termini numerici +19mila occupati in più rispetto a gennaio). Stabile il tasso di occupazione, a 58,0%.
Sul piano congiunturale, a gennaio si è verificato un incremento riguardante i dipendenti assunti a tempo indeterminato: +54mila, e in crescita, di poco, anche quelli a termine: +4 mila.
La categoria dei lavoratori indipendenti è invece in contro tendenza: -39 mila.
In generale l’aumento complessivo degli occupati è incentivata dalla crescita della componente femminile, senza variazioni di rilievo il numero di uomini occupati. Per quel che attiene l’età, si rileva una crescita tra le persone di 35 anni o più: sono +37 mila. In calo nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 34 anni: -18 mila.
Crescono gli assunti a termine: +55 mila, in calo invece i permanenti: -33 mila, e gli indipendenti, come è stato già fatto rilevare dall’Istat: -53 mila. Si tratta, però del trimestre di riferimento dicembre-febbraio.
In questo arco di tempo l’occupazione in generale cala dello 0,1% – in numeri -32 mila, rispetto al trimestre che precede, e interessa soprattutto gli uomini. Una crescita in positivo si riscontra tra i giovani, e la fascia degli over 50. A febbraio diminuisce la stima dei lavoratori in cerca di un’occupazione: -1,7%, e in termini di numeri – 49 mila. Si avverte un calo del tasso di disoccupazione tra le donne, in età media.
Importante la rilevazione del tasso di disoccupazione, che va al 10,9%, ossia -0,2 punti percentuali rispetto al mese di gennaio. Nel periodo di riferimento, il trimestre dicembre-febbraio, rispetto a quello precedente, al calo degli occupati fa seguito una diminuzione dei disoccupati: -1,1%, in numeri -32 mila, insieme ad una crescita degli inattivi +52 mila.
Nei conti pubblici, l’Istat rivede al rialzo, rispetto alla stima precedente, il rapporto deficit-Pil nel 2017: 2,3% (il 1 marzo era 1,9%). L’Istat spiega anche che il dato appena diffuso comprende l’impatto dovuto al salvataggio delle banche (Banche Venete Mps), che hanno gravato sui conti pubblici, (e quindi sul Pil), per un importo rilevante: 6,3 mld.
E tuttavia, confrontando i valori dell’indebitamento sul Pil a quelli del 2016, si riscontra un miglioramento, dato che si era a 2,5%. Supera invece, in termini di stime, quello relativo all’ggiornamento del Def, nel quale il deficit era stimato a 2,1%.

TEMPESTA SULLA BREXIT: LE RIVELAZIONI DI CHRIS WYLIE NON NE ACCELERANO IL CORSO

DI VIRGINIA MURRU

 

Il percorso verso la Brexit è già di per sé travagliato e irto di ostacoli, i colpi di scena non sono certo mancati. Nello stesso Regno Unito, sul finire del 2016, si è messa in discussione la legittimità costituzionale nella procedura da seguire per l’uscita dall’Ue, se n’è occupata poi la Corte Suprema, la quale ha dato ragione ai sostenitori del ‘Remain’: necessaria l’autorizzazione del parlamento, per l’approvazione dei vari step durante i negoziati con l’Unione.

Le sorprese, tuttavia, non sono finite. Quest’anno, nell’”easter egg”, c’era qualcosa di più rilevante: lo scandalo emerso in seguito alle rivelazioni di Christopher Wylie, 28 anni, cofondatore di Cambridge Analytica, società legata da contratto di collaborazione a Facebook.

L’informatore, ora ex dipendente della società londinese, ha fornito gli estremi per un’inchiesta giornalistica, che ha contribuito a portare a conoscenza degli utenti europei e americani, la violazione della privacy su circa 50 milioni di profili Facebook.

Intanto, Wylie, ha reso testimonianza davanti al parlamento inglese, tramite la Commissione Affari interni della Camera dei Comuni. L’informatore ha riferito delle strategie illecite e truffaldine adottate dal gruppo ”pro Brexit’’, volte a portare avanti il progetto di abbandono dell’Unione Europea, durante la campagna referendaria di due anni fa.

Le sue affermazioni sono state poi confermate anche da un altro testimone.
Wylie ha denunciato pubblicamente quello che è accaduto, perciò il whistleblower è stato definito “gola profonda e genio dislessico”, di un caso diventato clamoroso a livello internazionale, che non si è esaurito né è destinato a dissolversi come un semplice polverone mediatico.

Vi sono ripercussioni, in ciò che il giovane scienziato ha rivelato, che riguardano l’orizzonte politico, nell’ampio spettro d’azione che ha interessato eventi fondamentali nell’assetto interno e internazionale, quali l’esito del referendum sulla Brexit e l’elezione del presidente degli Usa, Donald Trump.
Cambridge Analytica ha seguito entrambe le campagne elettorali, con precisa attività di propaganda, sia in favore della Brexit che di Trump.

Le consultazioni elettorali sarebbero state in qualche modo ‘dopate’ da condizionamenti favoriti dall’uso illecito dei dati ‘trafugati’ agli ignari utenti facebook. Dati manipolati allo scopo d’indirizzare le intenzioni di voto in una direzione ben precisa: nel caso del referendum avvenuto nel giugno del 2016 in Gran Bretagna, verso la Brexit, mentre negli Usa, l’influenza sulla libera scelta di voto, doveva favorire proprio l’attuale presidente in carica. Extrema ratio di chi intendeva imburattinare la volontà popolare, e la libera espressione del voto, orientandone gli intenti nella direzione voluta.

“Missione compiuta” per Cambridge Analytica, ma a volte, per dirla con un luogo comune, il diavolo dimentica poi di fare i coperchi per le oscure manovre architettate dietro le quinte. In fin dei conti, questi sopraffini interventi di manipolazione degli elettori, vanno a scapito della libertà individuale, diritto che dovrebbe essere sacro e inviolabile, ma a quanto pare neppure i diritti fondamentali di una costituzione sono a “prova di scasso”.

L’acquisizione dei dati riguardanti circa 50 milioni di utenti Facebook da parte di Cambridge Analytica UK (società di consulenza con sede a Londra, si occupa di elaborazione e analisi di dati nel corso di una campagna elettorale), avveniva, secondo Wylie, tramite una società collegata (Aggregatelq), che permetteva l’accesso ai profili facebook .
Ma in che modo gli elettori, tramite il social, venivano influenzati nelle scelte elettorali?

Si analizzavano i dati che li riguardavano, le preferenze, e si influenzavano attraverso messaggi mirati, questa la strategia psicologica adottata per ‘dirottare’ il voto. Una sorta di ‘broglio-imbroglio’.

Ma non è tutto. Pare siano state violate le leggi di finanziamento stesso della campagna elettorale sulla Brexit, tramite trasferimento di donazioni tra associazioni ‘pro Leave’, e dunque favorevoli alla fuga dall’Ue. Secondo le indagini in corso, è stato superato il budget massimo consentito dalla legge britannica ai finanziamenti della propaganda elettorale. Una truffa ordita dai ‘ Vote Leave’.

Wylie è esplicito su questo punto: l’esito del referendum, senza questi espedienti poco ortodossi, sarebbe stato diverso.
Tutto un sottobosco di intenti ed azioni volte a influenzare l’esito del voto. Esistono le prove, ora l’onere di illuminare a giorno queste trame ordite all’insaputa dell’elettorato, sarà della Giustizia britannica. Il Ceo Mark Zuckemberg, intanto, invitato ad una audizione dal parlamento britannico, si è disimpegnato e ha autorizzato alcuni suoi collaboratori a rendersi disponibili.

Il giovanissimo amministratore delegato di Facebook, pungolato anche dal Senato americano, e invitato a rispondere delle responsabilità del social network davanti alla Commissione Commercio, ha deciso di presentarsi. In questa sede dovrà rispondere della violazione delle norme sulla privacy, sui dati riguardanti i profili di milioni di utenti. Anche in questo caso, si aveva accesso alle preferenze politiche, e con strategie di propaganda e messaggi mirati, nel corso della campagna elettorale, si cercava d’indirizzare il voto nella direzione voluta.

Wylie, ex dipendente di Cambridge Analytica, intervistato, al riguardo, sostiene:

“Come si fa a dire che comunque, anche senza questi risultati condizionati, l’esito sarebbe stato quello che è poi emerso, sia in Gran Bretagna che negli Usa? Se dopo una prestazione sportiva, in seguito ai controlli anti-doping, si riscontra che un atleta ha fatto uso di droghe, gli si prende la medaglia, e non si sta a pensare se il risultato, nonostante tutto sarebbe stato il medesimo. Così dovrebbe essere quando accadono eventi di carattere elettorale pilotati o illecitamente influenzati: si annullano.”

E aggiunge: “non è uno scherzo, la Brexit ha prodotto fondamentali cambiamenti di carattere costituzionale nel Regno Unito.”

Gina Muller, imprenditrice inglese, che aveva già messo in discussione, sul finire del 2016, la legittimità della procedura relativa alla Brexit, (convinta ‘Pro Ue’, aveva perorato la causa di chi voleva che fosse il parlamento inglese a pronunciarsi tramite il voto, sull’iter da seguire per l’uscita dall’Ue), esulta, e invoca un nuovo referendum, con maggiore vigilanza sui finanziamenti.

Facile a dirsi, non saranno dello stesso avviso né i conservatori britannici né quelli americani. A proposito di conservatori, uno dei due fondatori di Cambridge Analytica, è Robert Mercer, finanziere, magnate e ombra discreta di Trump (più che mai durante la sua campagna elettorale), sostenitore di tante iniziative politiche conservatrici.
Cambridge Analytica, su cui Mercer ha investito milioni di dollari, ha ovviamente diverse ‘succursali’ negli Stati Uniti, e ha seguito la campagna elettorale di Donald Trump, non è difficile concludere che le rivelazioni di Wylie siano più che verosimili a questo punto.

Anche l’Ue, tramite il Commissario alla Giustizia, ha chiesto, entro due settimane, chiarimenti a Facebook sull’uso improprio dei dati personali di milioni di cittadini europei. Ma non finisce qui.

Wylie, esperto di analisi dei dati, non per nulla è stato apostrofato con l’epiteto ‘gola profonda’. Egli ha fatto cenno ad un altro Stato nel mirino di Cambridge Analytica: l’Italia..
Ma è solo un cenno, non svela altro, anche se è difficile credere che le sue conoscenze al riguardo non vadano oltre.

“La società ha lavorato per alcuni partiti politici – sostiene – ma non so quali siano. So solo che c’era un italiano che lavorava con Cambridge Analytica, era il collegamento con l’Italia, ma non conosco il nome.”

Intanto la procura di Roma ha dato il via alle indagini, in seguito ad un esposto presentato da Codacons, Associazione dei consumatori che intende portare avanti un’azione di tutela nei confronti dei circa 30 milioni di italiani iscritti al social Facebook. L’esposto è stato trasmesso a ben 104 Procure in Italia, oltre che al Garante della Privacy, al fine di verificare se siano stati commessi illeciti proprio sul piano della privacy in territorio italiano.

Negli Usa non sono meno zelanti in proposito, già avviata una class action, con relativa azione legale, contro Facebook, i cui estremi sono stati presentati presso la Corte Distrettuale di S. José, in California.

CONFCOOPERATIVE-CENSIS. 5,7 MILIONI DI GIOVANI A RISCHIO PENSIONE

DI VIRGINIA MURRU
Le generazioni del domani dovrebbero  poter sognare un futuro migliore, invece, in barba al terzo millennio, apice del progresso scientifico e tecnologico, la prospettiva sembra destinata a rastremarsi, seguendo un iter involutivo perverso, che quasi spaventa.
Non è catastrofismo, quando sono i numeri a parlare non c’è spazio per supposizioni o teorie più o meno realistiche.
A creare il dovuto allarme ci ha pensato uno studio redatto da Confcooperative-Censis, che ha proiettato una luce inaspettata sulla sorte di circa 6 milioni di lavoratori, giovani che matureranno fra una trentina d’anni il diritto di andare in pensione.
Ma quale indennità di pensione attende questa consistente fascia di popolazione, che oggi vive sperando il meritato riposo dopo un lungo iter di attività lavorativa? Purtroppo non è dato saperlo. Le prospettive non sono incoraggianti: si teme un futuro di povertà. Questo è il punto: le prospettive hanno passaggi stretti, e già s’intravede foschia, visto che dopo tanta attesa i pensionati del futuro  andranno ad allungare le fila dei ‘poveri’.
Secondo i dati che ha diffuso recentemente l’Istat, abbiamo una situazione paradossale, ‘da erma bifronte’ in termini di numeri e percentuali. C’è il dato confortante sul tasso di occupazione, che rispetto al passato ha raggiunto livelli minimi; ma in una linea di contrapposizione che stride, c’è poi la constatazione basata sull’impietoso riscontro numerico: i poveri aumentano inesorabilmente.
Il Censis ha pubblicato un rapporto molto chiaro negli ultimi giorni sulla crisi dei millennials, una generazione che fa slalom tra dinamiche di occupazione precaria, mal retribuita, sottoqualificata.
Alla luce di questi dati, il prossimo governo dovrà escogitare misure adeguate a fronteggiare la vera e propria ondata di emergenza che interesserà, appunto, altri 6 milioni di cittadini dopo il turn-over. Semplicemente si può dire che è una generazione a rischio, e la Confocooperative non esita a definire la situazione che si sta delineando “una bomba sociale”, col rischio di vedere confinato in stato di povertà l’esercito dei poveri, intorno al 2050,  ossia 5.7 milioni di giovani che oggi hanno tra i venti e i 30 anni.
Il pessimismo dilaga su questo fronte: potrebbe essere a rischio addirittura la pensione, a causa di un Ente come l’Inps che sembra sempre sul punto di ‘implodere-esplodere’. La pensione che attende i millennials potrebbe essere pertanto, sulla base di questo ragionevole presentire, inferiore a quella che viene attualmente erogata agli aventi diritto. Secondo i calcoli degli studi effettuati, dovrebbe essere inferiore di oltre il 14%.
Un diritto così a lungo agognato, e soprattutto meritato,  non dovrebbe nemmeno essere suscettibile di dubbi o rischi, in uno Stato che garantisce e tutela la vita dei cittadini alla conclusione della fase di attività lavorativa. Ma la verità è che non esistono oggi i presupposti per erigere ponti di ottimismo sul futuro. E’ già poco edificante la prospettiva di andare in pensione molto più avanti in età rispetto al passato, se poi si rende polvere anche il diritto di ricevere ciò che dovrebbe essere legittimo, è evidente che vengono meno le fondamentali sicurezze sul proprio futuro.
I più penalizzati sono i giovani del sud, che a causa della precarietà del mercato del lavoro, a volte rinunciano anche a portare avanti gli studi universitari, o a non intraprenderli proprio, dato che la prospettiva è la quasi certa disoccupazione. Sono I cosiddetti ‘Neet’ (acronimo inglese per Not ingaged in education, employment and training), giovani che non risultano attivi negli studi, nel lavoro o  in qualsiasi attività di apprendistato o simili. Essere ottimisti non è semplice. Di difficile attuazione, stando al parere dei tecnici, il “reddito di cittadinanza”, sul quale si è riversata la speranza delle fasce deboli di un Paese che sta appena assaporando la ripresa.
Più o meno stroncato dalla Banca d’Italia, uno dei cavalli di battaglia in campagna elettorale portato avanti dal Movimento 5 Stelle, ossia l’istituzione di un reddito minimo per chi vive al limite della povertà, il tanto osannato ‘reddito di cittadinanza’ (stabilito su un importo intorno agli 800 euro). Gli italiani comunque ci hanno creduto, e subito dopo le elezioni, dopo il successo del Movimento, tanti di coloro che li hanno sostenuti, si sono riversati nei comuni di residenza e nei sindacati, reclamando i moduli per la richiesta del contributo promesso. Sono fatti accaduti al sud, forse esagerati dalla stampa, ma non si tratta propriamente di fake news.
Danno solo la misura delle attese, delle speranze investite su un movimento politico che ha promesso il riscatto delle fasce più deboli. In ogni caso non si può andare allo sbaraglio con gli equilibri della finanza pubblica, l’economia del Paese è ancora in fase di ripresa.
Ma tant’è: si insiste anche se non c’è una possibile copertura, lo afferma Bankitalia; e questo già lo si intuiva senza scomodare i numeri.
Interessanti le proposte del Presidente dell’Inps, Tito Boeri, il quale, intervistato da Il Sole 24Ore, sull’eventualità dell’abolizione della legge Fornero, tanto odiata dai lavoratori, ha riproposto un prospetto non nuovo per la verità, ovvero le pensioni flessibili. Più o meno dalla padella alla brace, questa la prima impressione.
Ma sono sempre i numeri ad imporre la dittatura dello status quo, o qualcosa di simile; le giustificazioni ci sono purtroppo: allontanarsi dalla riforma Fornero costerebbe dagli 85 ai 105 mld di euro (15 miliardi all’anno), che, espresso in termini di Pil, significa più o meno il 5%.. Non noccioline di certo.
Boeri non concorda con la proposta di abolizione della riforma Fornero, così tanto dibattuta e criticata, ma forse, secondo il professore della Bocconi, sarebbe il male minore.
Secondo le sue affermazioni, non è possibile il cilindro dell’illusionista, ma qualche intervento di miglioramento è auspicabile. Sarebbero fattibili, secondo le sue tesi, concessioni più elastiche riguardo ai tempi di uscita dal lavoro, ossia la possibilità di raggiungere l’età pensionabile con qualche anticipo. Deve però trattarsi di una “flessibilità sostenibile” dal sistema, non si può prescindere, con un debito pubblico delle ben note proporzioni, è necessario tenere i piedi ben saldi sulle strade percorribili.
Flessibilità d’accordo, sostiene Boeri, ma ci si deve rassegnare a sacrificare una piccola quota riguardante la futura pensione. Senza immolare qualcosa in questo strettissimo percorso, non  si possono inventare le risorse. Ci sono anche i pareri di alcuni organismi internazionali sul tema pensioni, che tanto affligge il nostro paese; Il FMI suggerisce di destinare più mezzi ai giovani, incoraggiando le nuove assunzioni. Ma in che modo?
Secondo Il Fmi, si potrebbero recuperare risorse attraverso le imposte patrimoniali, riducendo la pressione fiscale, e percorrendo la via della tassazione progressiva dei redditi da lavoro. Misure efficaci che permetterebbero di colpire i redditi più elevati. Un sentiero possibile, ma non gradito alle destre, che pure hanno rastrellato tanti voti di protesta. Non sarebbe un processo propriamente in sintonia con la Flat tax, anch’essa, come ‘il reddito di cittadinanza’, ritenuta dagli esperti un salto nel buio.
Resta il fatto che i giovani tra i 20 e i 30 anni, sono a rischio povertà, in termini di percentuali inciderebbe del 12%; in ambito Ue risultano due punti percentuali in più rispetto alla media europea. A creare ulteriore congestione nel versante dell’occupazione è il turn-over, tanto che per il 46% dei giovani tra i 25 e i 34 anni, è diventata la causa che incide maggiormente nella disoccupazione giovanile. Sono stati destinati nella Legge di Bilancio delle risorse da destinare al cosiddetto ‘reddito di inclusione’, che nel 2020 raggiungerà l’importo di 2,7 mld.
Un buon argine, ma non basterà. I giovani del meridione sono quelli più a rischio povertà: ci sono 1 milione e 200mila giovani che rientrano nella condizione “Neet”, il tasso d’inattività in Sicilia e Campania sfiora vertici in questa fascia che superano il 40%. Diverso il discorso al Centro e soprattutto al Nord, anche se la sofferenza dei giovani non manca neppure nelle regioni in cui il benessere prevale.
Interessante, nello studio di Confcooperative, il rapporto esistente tra la pensione di un genitore e quella futura del figlio. Il padre alla fine della sua attività lavorativa e il relativo versamento dei contributi, potrà contare su una pensione che sarà pari all’84,3% dell’ultimo stipendio, mentre la seconda generazione – posto che è difficile stabilire l’età pensionabile, dovendo essere adeguata alle regole legate all’aspettativa di vita – avrebbe solo il 69,7% di pensione, sempre secondo l’ultima busta paga percepita. In spiccioli, quasi il 15% in meno rispetto al padre.
E tuttavia si tratta di studi che devono tenere conto dell’approssimazione, perché sono proiettati in un futuro  tempestato d’incognite.
Non è semplice, in definitiva, secondo il quadro d’incertezze che oggi si presenta, prospettare realmente le effettive incidenze dei cambiamenti in atto nel terzo millennio sul versante pensionistico, in un Paese come il nostro, tormentato dallo stato dei conti pubblici, che per decine di anni non sono stati sicuramente la priorità dei vari governi che si sono succeduti. Oggi, a farne le spese, sono i lavoratori, e le fasce più deboli della popolazione.

BANKITALIA. PICCO STORICO SU SOGLIA POVERTA’ (2016): 23%

DI VIRGINIA MURRU

 

Secondo l’indagine condotta dagli analisti di Bankitalia sui bilanci delle famiglie, l’economia italiana in generale è migliorata, sia pure in un ambito di “work in progress”, e infatti le rilevazioni sul reddito medio delle famiglie, nel 2016, danno un riscontro di +3,5% (rispetto alla precedente rilevazione del 2014).

Può essere considerato un buon risultato se si pensa che dal 2006 i dati al riguardo sono stati in calo costante.
Nel contesto di una fase congiunturale di ripresa e consolidamento, seguita a quella recessiva rilevata negli anni più duri della crisi, è un dato incoraggiante, anche se ancora distante dell’11% dai livelli di reddito nel periodo precedente la crisi economica (iniziata nel 2008).

Dall’analisi di Bankitalia, sul reddito medio delle famiglie, risulta comunque che la crescita non ha riguardato tutti. Il quadro è tutt’altro che omogeneo in questo versante: emerge disuguaglianza (prossima ai livelli di fine anni ’90), ossia emerge dai bilanci delle famiglie, che la fascia di individui con reddito equivalente inferiore al 60% di quello mediano, ha raggiunto il picco storico del 23%, nel 2006 era del 19,6% (questa è la soglia che permette l’individuazione del ‘rischio povertà’, in riferimento al 2016, quando il ‘corrispettivo’ in termini di entrate era di 830 euro mensili). In sintesi un italiano su quattro percepisce meno di 830 euro al mese.

Se l’analisi si estende agli immigrati questa condizione precaria va a raggiungere il 55% (era nella precedente indagine al 34%), il dato (calcolata con i metodi che individuano il rischio povertà) è piuttosto critico anche al nord, le cui fasce interessate sono al 15% (erano poco sopra l’8%). Risultano più a rischio dunque gli stranieri, i giovani, chi vive al sud, gli individui poco istruiti, e con loro anche i nuclei familiari dei quali fanno parte. In condizione di svantaggio i nuclei con capofamiglia giovani.

Negli ultimi 10 anni, il grado di disuguaglianza, misurato con il coefficiente di Gini (che misura la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza di una popolazione), è salito dell’1,5%. A conforto di queste rilevazioni c’è il riscontro che riguarda la quota di famiglie indebitate, il cui indice si è ridotto del 21%. Il valore mediano del rapporto tra l’ammontare dei debiti delle famiglie e il reddito, è calato al 63%, notevole, se si considera che nel 2012 si era registrato un picco pari all’80%.

Gli squilibri prendono in considerazione anche il livello di ricchezza, e secondo i dati sono in calo sia quella media che la mediana. Il focus sul rischio povertà nel 2016 era allarmante: ha riguardato una famiglia su quattro.
Secondo il comunicato di Bankitalia, concernente l’indagine degli analisti, la ricchezza netta media e quella mediana, sono calate rispettivamente del 5% e 9%, a prezzi costanti. Come è stato rilevato al riguardo anche in passato, il calo ha proiettato, quasi per intero, il crollo dei prezzi delle case.

Bankitalia conduce le indagini sui bilanci delle famiglie italiane (IBF), su base campionaria, metodo applicato e in uso a partire dagli anni ’60. Il fine “è quello di raccogliere informazioni sui redditi e i risparmi delle famiglie italiane”. E infatti sulle motivazioni dell’indagine, in uno dei primi rapporti pubblicati dalla Banca d’Italia, si legge:

“L’importanza economica che rivestono le famiglie nel nostro sistema, così come nella maggioranza di quelli ad economia di mercato, appare evidente ove si consideri che esse possiedono direttamente o indirettamente la quasi totalità della ricchezza nazionale, percepiscono quasi tutto il reddito nazionale e da esse provengono, attualmente in Italia, circa i tre quarti della domanda globale interna.
Anche dal punto di vista finanziario il peso delle famiglie è notevole, dando esse origine a una parte sostanziale dei flussi finanziari e possedendo una quota notevole della ricchezza mobiliare”.

Gli analisti hanno poi portato avanti una serie di ricerche campionarie sul reddito, il risparmio e il consumo delle famiglie italiane, al fine di stimare queste grandezze e di acquisire le conoscenze necessarie all’elaborazione dei dati.

Col tempo è aumentato l’oggetto della rilevazione, esteso per esempio al livello di ricchezza, e aspetti legati ai comportamenti economici e finanziari delle famiglie (come l’utilizzo dei mezzi di pagamento). La ricerca ha seguito un’evoluzione in questo ambito, e in sintonia con lo svolgimento delle competenze istituzionali  (della Banca d’Italia), si sono portate avanti ulteriori raccolte di dati, seguite da produzione e pubblicazione d’informazione statistiche.

BCE. DRAGHI INSISTE SULL’ESIGENZA DI COMPLETARE L’UNIONE BANCARIA

DI VIRGINIA MURRU

 

 

A Bruxelles si stanno per affrontare alcune tematiche importanti in questa fase di transizione politica per l’Italia, in primis si discuterà di Unione Bancaria, ma non meno rilevante sarà la questione del bilancio comunitario, relativo al 2021/2027.

La partecipazione al vertice europeo del 22/23 marzo, sarà l’ultimo impegno in ambito Ue del premier uscente Paolo Gentiloni, e tuttavia, in questo passaggio di consegne politiche delicato, i paesi membri potrebbero attendere l’insediamento del nuovo governo per affrontare materie così delicate come l’Unione bancaria.

Non sembra auspicabile che si possano prendere risoluzioni senza la partecipazione attiva dei nuovi rappresentanti italiani. Lo ha precisato anche il ministro dell’Economia Padoan, in un’intervista dei giorni scorsi sui lavori in corso a Bruxelles.

Già nel dicembre 2017, il presidente della BCE esortava a procedere sulla via dell’Unione Bancaria, ora le condizioni sussistono, perché, spiega, “emerge una riduzione dei rischi ritenuta sufficiente ad aprire la prima fase dell’intesa comune relativa all’assicurazione sui depositi (Edis)”. Mario Draghi lo ha riferito all’Eurogruppo, affinché si prepari una ‘piattaforma’ adeguata per raggiungere l’importante obiettivo.

Non sono dello stesso parere i rappresentanti tedeschi (in particolare il ministro ad interim delle Finanze), i quali ritengono opportuno raggiungere prima risultati più certi sul fronte della riduzione dei rischi. Il ministro, parlando davanti all’Eurogruppo, fa chiaramente riferimento ai paesi che detengono ancora un’alta percentuale di crediti deteriorati o npl, e che pertanto, qualora questi non siano sufficientemente ridotti e resi innocui per il sistema, potrebbero portare ad una nuova crisi bancaria.

Un ‘paper’ pubblicato dall’Università Bocconi, e intitolato “Le criticità dell’Unione Bancaria Europea”, definisce così le ragioni che hanno indotto alla creazione di un’Unione Bancaria:
“L’idea di creare un’Unione Bancaria nasce dalla necessità di ristabilire quella certa unitarietà del sistema bancario, e, più in generale, finanziario, che è stata messa a repentaglio e seriamente danneggiata dalla recente crisi esplosa nel 2007/8”.

Il presidente Draghi ritiene necessario il completamento dell’Unione bancaria in quanto – sostiene – “c’è l’esigenza d’implementare ciò che è stato già approvato in principio al riguardo. L’espansione economica rafforza la convergenza tra Stati, ma per renderla sostenibile bisogna convergere sulle politiche comuni attraverso le riforme strutturali”.

I 28 paesi membri hanno già istituito un Fondo di risoluzione bancaria con l’obiettivo di sostenere le banche che affrontano emergenze finanziarie; nonché un sistema di vigilanza unica, controllata della Bce. Ora mancherebbe l’assicurazione unica dei depositi creditizi, voluta con l’intento di creare una responsabilità in solido tra i paesi membri dell’Ue.

I paesi più solidi economicamente, però, vorrebbero, prima di aderire alla condivisione in solido delle responsabilità, che quelli più fragili, con forte presenza di rischi nei bilanci bancari, provvedessero ad una adeguata riduzione. L’Italia è fra questi, anche se il ministro Padoan, in tante circostanze, anche di recente, ha ribadito il fatto che il sistema bancario italiano è ora più sicuro perché c’è stata una notevole riduzione degli npl.

E tuttavia a gennaio scorso, durante una riunione dei ministri delle Finanze, si è deciso di creare un processo di controllo che permetta di accertare i progressi realmente conseguiti nel sistema bancario dei paesi più interessati, ovvero lo stato di efficienza raggiunto e quel che ancora manca da compiere per avvicinarsi ai parametri comuni in termini di regole sulla gestione dei crediti deteriorati.

USA. I NUOVI DATI SULL’OCCUPAZIONE HANNO FAVOREVOLMENTE IMPRESSIONATO I MERCATI

DI VIRGINIA MURRU

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Giornata di calma nei mercati finanziari, non solo nelle piazze europee, ma anche in quelle asiatiche e a Wall Street. Alcuni dati macro dell’economia americana si stanno consolidando, malgrado il clima di tempesta scatenato dall’imposizione dei dazi voluta dal presidente Donald Trump e da una parte del suo establishment.

L’aumento del tasso di occupazione (diffuso il 9 marzo) ha messo da parte l’ultima riserva dei mercati, incentivando gli indici azionari, ma non insidiando quelli obbligazionari, che avrebbero potuto provocare aumenti non previsti dell’inflazione, e pertanto indurre la Fed ad intervenire.

Gli investitori si sono sentiti più al sicuro dopo la diffusione dei dati relativi all’aumento dell’occupazione a gennaio, che balza in avanti più del previsto, e fa ingranare una marcia più decisa a Wall Street, andamento tutt’altro che ignorato dalle Borse europee e da quelle asiatiche.

Crescita dell’occupazione negli Usa dunque, ma leggera flessione nei salari rispetto a gennaio, del resto anche un loro aumento avrebbe potuto influenzare il tasso d’inflazione, e per conseguenza allertato la Fed.

In base ai dati diffusi dal Dipartimento del Lavoro, il tasso di disoccupazione negli States è rimasto stabile a febbraio (rispetto a gennaio), ossia a 4,1%. Gli analisti attendevano una leggera flessione in positivo dell’indicatore.

In Italia il differenziale di rendimento tra Btp e Bund si è ridotto e ha mantenuto una certa costanza, oggi lo spread è a 137 punti base. Piazza Affari è stata favorevolmente condizionata dalla forward guidance della Bce, la quale, nell’ultima riunione del 9 marzo, ha rassicurato i mercati: nessuna mossa a sorpresa del board. L’euro è stabile, in apertura oggi era sotto 1,23 dollari.

Milano in data odierna ha aperto la seduta in positivo e a metà mattinata viaggia intorno a +0,55%, ma quasi tutte le borse europee proseguono in positivo, a parte il Fitse100 di Londra che presenta una flessione di –0,08%. A Piazza Affari, da rilevare, il balzo in avanti di Poste Italiane in apertura di contrattazioni; si aggiungono le buone performance di Leonardo, a +1,67%; Italgas, a +1,56%.

Gli analisti di Moody’s hanno alzato anche il rating su Eni, e immediato è stato il riflesso sugli investitori, dopo neanche mezz’ora dalle contrattazioni, il titolo va a +0,6%. In seguito all’upgrade di Moody’s Investors Service, il rating (a lungo termine di Eni), passa da Baa1 ad A3, e outlook negativo, ma risulta fino ad ora il più alto rating espresso da Moody’s sulle società italiane quotate.

Hanno favorevolmente condizionato l’Agenzia le aspettative di crescita nella produzione, il miglioramento degli indicatori di debito e l’efficienza gestionale dell’azienda multinazionale italiana. E’ peraltro di questi giorni la notizia che Eni fa il suo ingresso nel mercato degli Emirati Arabi, con una quota offshore; l’accordo per il 10% di Zohr, ad Abu Dhabi è stato siglato dall’Ad Claudio Descalzi e il premier Paolo Gentiloni, con il principe degli Emirati Mohamed bin Zayed Al Nahyan.
Concordata una quota di ingresso del 5% per il giacimento di Lower Zakurm e una del 10% nei giacimenti a olio, condensati e gas, nell’offshore degli Emirati Arabi, indubbiamente uno dei paesi con il più alto indice di ricchezza in termini di idrocarburi.

Buone le performance della Borsa di Tokyo, dove, nelle prime ore del mattino, l’indice Nikkei è balzato a +1,65%, anche gli investitori giapponesi sono stati bene impressionati dai dati sull’occupazione negli Usa.

Nonostante gli scandali interni nel Paese si stiano rivelando ben poco edificanti per ragioni di corruzione e falsificazione di documenti, fatti che hanno travolto il ministro delle Finanze Taro Aso, per il quale si chiedono a gran voce le dimissioni. I mercati non sono rimasti indifferenti, e sulla scia di queste notizie i listini hanno subito poi dei rallentamenti. Lo scandalo, in conseguenza del quale pare ci sia stato anche il suicidio di uno dei personaggi coinvolti, ha creato notevole scalpore in Giappone.

Oggi si riuniranno i ministri delle Finanze dell’Eurogruppo, in agenda le analisi dei conti pubblici della Grecia, che ha ultimato il programma di adeguamento economico richiesto da Bruxelles. Dopo una crisi durata circa 7 anni e il risanamento dei conti pubblici, la Grecia torna ad emettere bond annuali, da domani in asta ci saranno 625 milioni di euro di titoli pubblici.

Il Paese dovrebbe essere oltre la sponda del rischio, anche Moody’s con una revisione, ha alzato il rating, portandolo da Caa2 a B3, con outlook positivo; i bond vanno in rialzo. E così i titoli di Stato di questo paese così travagliato sul versante economico, praticamente in dissesto, ora performano meglio degli altri titoli di Stato europei. La Grecia si appresta a camminare con le proprie gambe.

Le borse cinesi, infine, hanno chiuso in positivo anche in seguito alla svolta proposta dal presidente Xi, il quale si è candidato per un’investitura sul mandato a vita. In aumento le piazze di Shanghai e Shenzhen.
E in conseguenza di quest’aura politica tutta rivolta all’ottimismo, si rafforza anche lo yuan di 118 punti base sul dollaro.

In salita i prezzi del petrolio in Asia, anche qui siamo nell’area d’influenza dei dati sull’occupazione Usa, in aumento sia il Wti che il Brent.

BCE. IL BOARD HA RIVISTO AL RIALZO LE STIME DI CRESCITA IN EUROZONA: +2,4%

 

DI VIRGINIA MURRU

 

Dopo l’ultima riunione del board sembra che non ci siano sostanziali cambiamenti nella politica monetaria, rispetto alle decisioni del Direttivo di gennaio, eppure la forward guidance, ossia le indicazioni e gli ‘input’ ai mercati, è cambiata. Il presidente Draghi, negli ultimi mesi, per esempio, quando si riferisce ai tassi d’interesse, precisa che essi “resteranno invariati”, ma l’espressione “o più bassi”, che ricorreva nel corso delle conferenze stampa, è stata ormai da mesi omessa.

Un segnale della volontà di uscire dal piano di stimoli monetari, del resto già concretizzatosi a gennaio con la riduzione di acquisti di assets, che ora sono esattamente la metà rispetto a dicembre (30 miliardi di euro al mese).
Gli interventi del Consiglio direttivo dell’Eurotower seguono una linea di prudenza, per ovvie ragioni, nonostante la notevole e costante crescita riscontrata nei paesi dell’Eurozona, restano ancora elementi che necessitano di un attento monitoraggio: il tasso d’inflazione è ancora distante dal target, ossia dal 2%.

Il presidente Draghi ha confermato, ieri, la decisione del board di Francoforte di continuare “gli acquisti di assets con il medesimo ritmo dei mesi scorsi, ossia 30 mld di euro al mese fino al prossimo settembre, fino a che non si manifesti un chiaro segno di adeguamento dell’inflazione rispetto al target.”

Confermati anche i tassi d’interesse, mentre la novità riguarda la stima sul Pil dei paesi della zona euro, che passa da 2,3% a 2,4%. Per il 2019, le stime restano all’1,9% e nel 2020 all’1,7%. La crescita, secondo il presidente, potrebbe essere incentivata da fattori locali, ma non è una garanzia, in quanto non si può trascurare il fattore globale, dal quale è possibile che derivino influenze negative.

Mario Draghi anche questa volta non ha mancato di sottolineare l’efficacia e il ruolo di supporto svolto dal Qe, aggiungendo che il sistema ha ancora necessità di mantenere bassi i tassi durante il programma di acquisto di titoli “e anche dopo”, ha aggiunto. Ma ha allo stesso tempo messo l’accento sull’improbabilità di un aumento del volume degli acquisti, qualora la crescita, in termini economici dell’area, dovesse venire meno.

Non è mancata nemmeno l’esortazione all’implementazione delle riforme strutturali, rivolta ai Governi dei 19 paesi facenti parte dell’area euro.

Uno dei giornalisti presenti alla conferenza stampa, ha rivolto a Draghi una domanda sulla situazione post elettorale italiana, e la risposta è stata che il board non ha affrontato questo tema. Tuttavia, per ciò che concerne la sostenibilità fiscale dei paesi ad alto debito, ha rimarcato Draghi, ultimamente i mercati non sembra che abbiano fatto pesare le conseguenze degli esiti elettorali, tanto da compromettere la fiducia. Secondo il presidente, però, a lungo termine, l’instabilità, potrebbe fare venire meno la fiducia.

Le dichiarazioni di Draghi ieri hanno avuto un riflesso positivo nei mercati finanziari, a Piazza Affari il Fitse Mib, indice dei principali titoli, ha corso a ritmi sostenuti guadagnando l’1,17%, a 22.700 punti (dopo un’ora circa dal discorso del presidente della Bce).

Nell’analisi di ieri non potevano mancare riferimenti alla politica protezionistica intrapresa dagli Usa. Ci sono ragioni di prudenza tutt’altro che irrilevanti nelle dichiarazioni del rappresentante della BCE, tutta l’Ue del resto è in qualche modo sotto pressione a causa dell’atteggiamento risoluto di Donald Trump, che intende procedere all’aumento dei dazi su acciaio e alluminio. E non importa se ha il mondo contro, compreso il suo consigliere più fidato, Gary Cohn, che peraltro ha dato le dimissioni. Si stanno creando veramente le premesse per una guerra commerciale globale, le cui conseguenze potrebbero estendersi anche al versante geopolitico.

E Draghi non poteva evitare di soffermarsi sulla questione che sta diventando ormai rovente sul piano internazionale, con qualche considerazione: “Si può maturare qualsiasi convinzione circa il commercio, ma non si possono portare avanti azioni a proprio vantaggio unilateralmente, poiché diventa pericoloso. Quando s’impongono tariffe incongrue ai propri alleati, alla fine c’è da chiedersi, chi sono i miei nemici?”

Già era noto, del resto, che l’Ue non avesse intenzione di subire senza intraprendere contromisure adeguate all’insidia, e infatti è già pronta una ‘ritorsione’ commerciale di 2,8 miliardi di euro.
Oggi la conferma che Trump ha firmato il decreto per rendere ufficiale quel fuoco di fila di dazi che non piacciono proprio a nessuno, e tanto meno ai mercati.

E’ un’offensiva protezionistico-commerciale che destabilizza gli equilibri globali, già di per sé non semplici. L’entità dei dazi è fortemente penalizzante, si tratta del 25% sulle importazioni di acciaio e del 10% su quelle di alluminio.

Alla platea internazionale non occorrono giustificazioni protezionistiche, gli Usa non possono decidere unilateralmente, senza il minimo rispetto delle convenzioni e degli accordi. Pertanto, sostenere che l’establishment degli States agisce per “proteggere la sicurezza nazionale e i lavoratori americani”, non sussiste, non si può dimenticare che ci si confronta in un contesto di globalizzazione, gli effetti di una misura come questa non si fermano nelle frontiere di uno Stato, causano gravi ripercussioni in altri. Sono stati definiti “i dazi della discordia”, e questa è davvero la sostanza del provvedimento.

I mercati, intanto, non hanno proprio gradito, da Wall Street alle piazze europee a quelle asiatiche.

GLI UMORI DEI MERCATI FINANZIARI NEL PERIODO POST ELEZIONI

DI VIRGINIA MURRU
 
I tumulti nei mercati avvertiti il 5 marzo, dopo le elezioni politiche in Italia, sono presto rientrati, nessun tracollo, Piazza Affari ha sussultato un po’ dopo l’esito delle urne, e l’insidia dell’avanzata populista, ma non c’è stato panico. E ieri tutto si è ricomposto, il Fitse Mib a Milano è andato a +1,7%, trainato da Tim e Fiat Chrysler, superando di nuovo i 22.000 punti, e fugando dubbi e riserve.
 
L’Istat continua intanto a diffondere dati positivi sull’economia italiana, dove è evidente l’incremento della produttività del lavoro, e al seguito gli altri indici, il cui trend continua ad andare verso l’alto. Nel riassunto economico mensile, l’Istat infatti afferma che “il profilo dell’economia italiana si mantiene espansivo, insieme ad uno scenario macroeconomico positivo”.
 
Poi c’è il giudizio favorevole delle Agenzie di rating, che tuttavia non mancano di sottolineare che è assolutamente necessario proseguire sulla via delle riforme intrapresa dal governo uscente. Moody’s non crede molto nella stabilità politica del Paese, esprime anzi un presentire poco incoraggiante, ossia il ritorno al voto per ingovernabilità nel volgere di pochi mesi.
 
Secondo i vertici dei maggiori Istituti di credito, l’economia italiana non corre rischi a causa dei nuovi assetti politici.
Il candidato premier Matteo Salvini ha poi rassicurato che l’Ue non ha nulla da temere, e queste dichiarazioni sono input importanti per l’andamento dei mercati finanziari.
 
Si è dunque presto ristabilito il giusto ‘climate’ dovuto al “sentiment” negli ambienti finanziario rivolto all’ottimismo, poiché anche dal piano geopolitico globale giungono rassicurazioni di stabilità da parte della Corea del Nord, che sembra abbia sepolto l’ascia di guerra, con messaggi e rami d’ulivo diretti agli Usa.
 
Il dibattito politico nell’Amministrazione Trump, intanto, ha infervorato le frange ostili all’inasprimento dei dazi su acciaio e alluminio, che avrebbero colpito sicuramente l’Ue (e nondimeno tra i tanti la Cina), la quale ha poi risposto annunciando idonee contromisure, che sarebbero poi ritorsioni, ma l’eufemismo è d’obbligo, visto il rischio in prospettiva di una guerra commerciale globale.
 
Ecco perché Trump simpatizza per i movimenti populisti europei e la Brexit ( Putin non lo è da meno..): l’idea di disintegrare l’Ue, che ostacola la sua parola d’ordine – ‘America first’ – non gli dispiacerebbe di certo. L’Ue rappresenta una grande forza commerciale globale, e quindi uno scoglio non indifferente per le sue misure protezionistiche. Trump sulla questione dazi, ha pure tanti nemici in patria, perfino il neo eletto alla Fed, Jerome Powell. Tuttavia chi gli ringhia ai piedi è Wall Street, e non potrà ignorarne le conseguenze a lungo.
 
C’è stata burrasca nel corso dei dibattiti su questo tema scottante nell’establishment tra i consiglieri economici del presidente, e oggi infine la notizia delle dimissioni di Gary Cohn (ex presidente della Banca d’Investimenti Goldman Sachs), il più riottoso e ostile verso la politica protezionistica di Trump, ma anche il suo più influente consigliere.
 
Un assertore convinto del libero scambio, e uno dei fautori dell’approvazione della Riforma fiscale voluta da Trump, che ha reso possibili notevoli sgravi fiscali per le grandi imprese. Anche qui siamo in clima di ‘compliance’ elettorale.
Il presidente americano ha una sua coerenza di carattere puramente populista, intende mantenere le promesse elettorali, ma prima ancora c’è da sanare lo squilibrio della bilancia commerciale degli States, sbilanciata di circa 500 mld in termini di deficit con il resto del mondo.
 
Certamente la situazione politica emersa in Italia all’indomani dello scrutinio dei voti, non si accinge a prefigurare uno scenario in cui regni la stabilità, le urne hanno espresso orientamenti nuovi, e la strada per un establishment che garantisca governabilità non è propriamente dietro l’angolo.
 
Ci sono i tempi ‘tecnici’ per l’eleaborazione di nuove formule che riflettano altri equilibri in ambito politico, e poiché gli schieramenti in campo sono ideologicamente distanti, non essendoci i numeri per un percorso di maggioranza in autonomia, la prospettiva diventa veramente complicata. I democratici di sinistra, pur avendo subito una pesante sconfitta, sono diventati l’ago della bussola, l’asse sul quale i due schieramenti vincenti vorrebbero appoggiarsi per assicurarsi un quadro di ‘conti’ indispensabile all’investitura di un esecutivo possibile.
 
Al momento gli umori non sono rassicuranti, e il Partito Democratico ha già escluso accordi con gli ‘estremisti’, non intende diventare in ogni caso nota di discrimine e accettare di svolgere un ruolo da ‘stampella’. Gli orizzonti politici a questo punto sono invasi da una foschia che non permette vaticini, per ora anzi è buio peso.
 
Non che l’Italia, in ambito Ue, sia il solo paese che all’indomani delle elezioni politiche si è scoperto ingovernabile, nonostante il verdetto degli elettori avesse tracciato una linea chiara. E’ noto che è necessario un periodo di tempo che favorisca la sedimentazione di nuovi equilibri, affinché, in un campo neutro di accordi e compromessi, si trovi la via da seguire per governare con le pedine in ordine.
 
L’Ufficio Studi de ‘Il sole 24 Ore’, ha pubblicato un’interessante panoramica riguardante la variazione in termini di valore dei titoli di Stato durante il lasso di tempo in cui diversi paesi europei, dopo il voto, sono rimasti senza un governo.
Ossia la variazione in punti del rendimento a 10 anni dei rispettivi titoli, e in questi dati è possibile verificare il riflesso d’instabilità trasmesso dal quadro politico incerto; anche le oscillazioni in Borsa ne sono la diretta conseguenza (il Belgio, che è rimasto circa un anno e mezzo senza un governo, tra il 2010/11, ha perso in Borsa il 15%, è rimasto quattro mesi senza governo anche nel 2014).
 
Si tratta di termometri finanziari che hanno necessità di stabilità per un ‘viaggio’ sereno. Con la Germania, le cui forze politiche moderate hanno trovato la possibilità di un accordo duraturo, siamo comunque in buona compagnia, anche se la nostra economia è sicuramente meno solida di quella tedesca.
E tuttavia l’instabilità politica dopo le elezioni, avvenute nel settembre scorso, sta portando il Dax30 verso un calo del 3%. La fase ‘di non governabilità’, ha espresso in Borsa, nei tanti paesi interessati a questo stallo politico, situazioni diverse.
 
Agli effetti negativi, si sono affiancati anche periodi di esiti positivi. In Eurozona, comunque, malgrado il senso d’incertezza trasmesso ai mercati, non vi sono state vere e proprie catastrofi, nemmeno in Gran Bretagna in seguito alla Brexit.
 
Le incertezze del periodo ‘post elezioni’, non rappresenta più un vero e proprio trauma per i mercati, e si direbbe che abbiano sviluppato una certa immunità, essendo stato, il fenomeno, comune a tanti paesi della zona euro. Chi investe ha necessità di buone intuizioni, ma soprattutto di valutazioni corrette in campo politico. Nonostante i rivolgimenti che presuppongono altri assetti, deve maturare la convinzione che i nuovi equilibri non porteranno sconvolgimenti tali da compromettere l’andamento economico, e in particolare lo status quo relativo all’Eurozona.
 
Questo è il faro che dà un buon coefficiente di sicurezza ai mercati, e quindi l’impulso di portare avanti le contrattazioni, nonostante la fase interlocutoria necessaria per i nuovi accordi politici non si presenti facile.
 
Oggi, intanto, Piazza Affari ha registrato intorno alle undici, qualche flessione, il Fitse Mib era a -004%, con 22.194 punti, e il Fitse Italia All Share perdeva lo 0,03%. Le Borse europee stanno registrando variazioni frazionali, in clima di cautela, e in attesa della riunione mensile del Direttivo della BCE. Sembra tuttavia che non ci siano nell’aria novità di rilievo, l’unico annuncio che potrebbe variare sarebbe quello di estendere il programma di acquisto di titoli al di là di settembre, termine confermato nella riunione del mese scorso.

PIAZZA AFFARI NON ESULTA DOPO IL RISULTATO ELETTORALE

DI VIRGINIA MURRU
 
La virata consistente nelle elezioni politiche italiane, portano verso l’incognita della deriva populista, così è stato interpretato il voto a Piazza Affari. I mercati finanziari, si sa, diffidano fortemente dei cambiamenti che non garantiscono stabilità, e il peso si è fatto sentire stamattina all’apertura dei mercati europei.
 
“Piazza Affari scivola sul voto”, si legge oggi su ‘Milano Finanza’, per lo spread si temeva anche peggio, ma non si è andati oltre i 154 punti base.
Sono tuttavia i prossimi assetti politici a creare riserve nei mercati, l’affermazione dei movimenti euroscettici, la prospettiva di un parlamento senza una maggioranza in grado di governare, creano in qualche modo immobilismo, un clima d’attesa che finisce per riflettersi negli ambienti finanziari, obiettivi sensibili nei cambia scena della politica.
 
Secondo i maggiori istituti di credito del Paese, vi sono già ripercussioni negative in termini di compliance nella disciplina di bilancio, erano in atto delle riforme, che hanno determinato una buona crescita nell’economia, progressi soprattutto nel processo d’integrazione europea.
 
La situazione d’instabilità e incertezza, dovuta all’esito del voto, non ha espresso una maggioranza con un’investitura valida (derivante dal 40% di voti che uno degli schieramenti doveva ottenere), tale da consentire ad una coalizione di governare nel corso della legislatura.
 
Tutto da rifare? Più o meno, se si tiene conto delle percentuali di voti ottenuti dalle liste; l’alternativa potrebbe portare ad un periodo di transizione, ovvero un ponte politico che non consentirebbe tuttavia di gettare le basi per proseguire sulla via delle riforme strutturali. L’Italia ha assoluta necessità, in questo particolare momento, di non perdere i progressi acquisiti, tornare indietro sarebbe veramente deleterio per un’economia che deve poggiare i suoi capisaldi in un substrato politico stabile, capace di stimolare ogni opportunità, in grado di renderla competitiva sul piano internazionale.
 
Ci sono sfide che devono essere affrontate, perché il paese possa riappropriarsi della credibilità negli ambienti dell’Unione europea, ma è altrettanto indispensabile continuare a percorrere la strada del risanamento dei conti pubblici, ridurre progressivamente il debito, e creare margini di manovra più ampi per aprire passaggi solidi verso le riforme.
 
Occorre proseguire con la crescita della produzione industriale, esercitare stimoli positivi su export e import, incentivare l’indice di fiducia di consumatori e imprese: permettere il progresso in generale dello scenario macroeconomico del Paese, per il quale tanto è stato innegabilmente fatto dal governo uscente.
 
Secondo gli esperti e strategist degli ambienti finanziari, i mercati non hanno ‘ringhiato’ nei giorni precedenti le elezioni, perché non si pensava ad un successo così preponderante delle forze populiste ed euroscettiche, e comunque c’è ancora un certo margine di fiducia che si riesca, così com’è avvenuto in Germania con la Coalizione tra il Cdu e i Social democratici, a trovare un’intesa per raggiungere un accettabile equilibrio politico.
 
Obiettivo non facilmente raggiungibile alla luce dei risultati del voto di ieri. L’intesa tuttavia, riuscirebbe ad avere ragione dell’irrequietezza dei mercati, e ridurrebbe il differenziale tra Btp e bund tedeschi.
 
Mentre i mercati europei riprendono vigore, Piazza Affari ‘paga’ il tributo elezioni politiche. L’indice Ftse Mib è in rosso: -1,24%, a 21.640 punti. Viaggia in positivo il Dax, con +0,84%, segue il Cac40 a Parigi, con +0,26%, e il Ftse100 con +0,43%. Gli umori tuttavia, in Eurozona, non si sono rivelati buoni nei primi giorni di marzo, e non solo per le riserve verso l’esito delle elezioni in Italia, ma anche per le misure protezionistiche messe in atto dall’Amministrazione Trump negli States, il quale persevera con i suoi strali a suon di dazi su acciaio e alluminio.
 
L’indice Sentix (indice di fiducia degli investitori) in Eurozona, è in calo negli ultimi giorni, si va da 31,9 di febbraio a 24 di marzo, due mesi di caduta verso i minimi dello scorso aprile. Si registrano delle flessioni, sia pure contenute, in questi ambiti, con crescita più lenta, per esempio nella voce che misura i nuovi ordini, sempre in zona euro.
 
Si temeva un ‘day after’ dall’esito delle elezioni, ma la reazione dei mercati è stata composta tutto sommato; ha generato qualche scossone, non un vero sisma. L’euro certo ne ha risentito, scambiato a 1,23 dollari. A Piazza Affari sotto pressione Mediaset e le banche. La situazione dovrebbe rientrare presto se arriveranno buoni propositi dagli ambienti politici sulla formazione del nuovo governo.
 

EMBRACO. HANNO VINTO I LAVORATORI, NESSUN LICENZIAMENTO PER IL 2018

DI VIRGINIA MURRU
 
Del durissimo braccio di ferro degli ultimi mesi, tra Embraco-sindacati-lavoratori, resterà solo un retrogusto amaro nella memoria dei dipendenti dell’azienda brasiliana del gruppo Whirlpool, stabilimento italiano di Riva di Chieri.
 
Alla fine però, l’endurance dei lavoratori ha avuto la meglio, il buon senso ha prevalso, e per il 2018 sono stati scongiurati i licenziamenti e la prospettiva di una delocalizzazione verso uno dei paesi dell’Est Europa.
 
A darne comunicazione è l’Amministratore Delegato di Invitalia, Domenico Arcuri, il quale ha sottolineato che le trattative “procedono in modo positivo”, e che sarà interessato il Fondo di reindustrializzazione del Cipe per evitare la ‘migrazione’ di Embraco in lidi fiscalmente più accoglienti.
 
Allo scopo sarà istituito anche un Fondo di supporto.
Ha poi confermato la svolta nelle trattative, anche la Fiom di Torino, tramite Lino La Mendola, il quale dichiara che il congelamento delle lettere di licenziamento è stata confermata ed è pertanto ufficiale: i dipendenti Embarco potranno riprendere il lavoro, in attesa della reindustrializzazione.
 
Assicurata per l’anno in corso la copertura salariale per i 500 dipendenti, un orizzonte più certo potrà delinearsi all’inizio del 2019. Si tratta di dichiarazioni rilasciate alla fine di un incontro avvenuto con il ministro Carlo Calenda, al Ministero dello Sviluppo Economico.

INTESA TRA CONFINDUSTRIA E SINDACATI SU NUOVO MODELLO CONTRATTUALE

DI VIRGINIA MURRU

 

Trovato  un accordo all’alba di oggi tra Confindustria e Sindacati su un nuovo modello contrattuale e relazioni industriali. Le parti sociali ci lavoravano da oltre un anno. Si legge in un tweet di Cgil Nazionale:

“Trovato in nottata l’accordo tra Cgil, Cisl e Uil e Confindustria in merito ai contenuti e agli indirizzi delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva. Per l’ok definitivo, la parola passa adesso agli organismi delle rispettive organizzazioni”.

Un accordo importante per i rapporti tra imprese e sindacati, l’intesa sarà firmata venerdì 9 marzo dal Presidente della Confindustria, Vincenzo Boccia, e dai Segretari generali delle tre confederazioni sindacali:  Annamaria Furlan (Cisl), Susanna Camusso (Cgil) e Carmelo Barbagallo (Uil), previa approvazione degli organismi delle tre organizzazioni.

I firmatari dell’accordo spiegano che il documento conclusivo “rilancia il valore delle relazioni industriali”.  Il testo prende avvio dalla conferma dei due livelli di contrattazione, il primo è nazionale, il secondo aziendale-territoriale.  Vengono precisati, inoltre,  i criteri di calcolo degli aumenti salariali,  il Tec e il Tem, ossia, rispettivamente, Trattamento economico complessivo e  Trattamento economico minimo.

Tra gli accordi scaturiti da un positivo dialogo tra le parti sociali,  la definizione, per la prima volta, “della misurazione della rappresentatività anche per le imprese”.

Si legge in un comunicato stampa congiunto (diffuso stamattina), da Confindustria e sindacati:

“Si è concluso, questa notte, il confronto tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria in merito ai contenuti e agli indirizzi delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva.

Il documento conclusivo rilancia il valore delle relazioni industriali. Il testo è stato condiviso dai tre Segretari generali di Cgil, Cisl, Uil e dal Presidente di Confindustria e sarà sottoposto, nei prossimi giorni, alla valutazione degli organismi delle tre Organizzazioni sindacali.

L’accordo sarà firmato al termine di questa verifica nel pomeriggio del 9 marzo”.

Soddisfatta la Confindustria e i segretari generali delle tre organizzazioni sindacali presenti, secondo la Cisl l’accordo è in sintesi un piano di sviluppo per il sistema-paese.

Si tratta di un nuovo modello di relazioni industriali basate su criteri di stabilità e partecipazione, che si prefigge il fine d’incrementare la produttività, con più salari e una migliore specializzazione del lavoro (formazione).

Emerge da questo dialogo tra le parti sociali un maggiore senso di responsabilità verso il Paese, nonché  l’intento di supportare e aiutare l’economia a svincolarsi definitivamente dalla morsa della crisi  per continuare a crescere.

Dichiara la segretaria della Cisl, Annamaria Furlan: “La soddisfazione per i risultati raggiunti deriva dal fatto che si danno risposte più chiare ai bisogni delle persone, ma risponde altresì alle esigenze di competitività e qualità del lavoro, dei quali il Paese avverte un grande bisogno.”

Secondo Furlan, gli effetti di questo accordo si riscontreranno nel rafforzamento della contrattazione, aspetto molto importante, che mira a rendere più congrui i salari dei lavoratori e a mettere in definitiva al centro del dibattito pubblico finalmente il lavoro.

Dietro le quinde di questo accordo c’è un anno e mezzo di incontri, di dialogo e confronto tra sindacati e Confindustria, ma in fin dei conti ne è valsa la pena, se la qualità del lavoro e i salari miglioreranno, con punti d’intesa davvero innovativi. Il fine, del resto, secondo gli intendimenti dei sindacati, era quello di  “rilanciare la centralita’ della dignita’ del lavoro nel nostro Paese.

Conclude la Segretaria della Cisl, Annamaria Furlan:

“Questa notte abbiamo siglato la sintesi, dopo diche’ ognuno di noi portera’ l’accordo al vaglio dei propri organismi. Ci siamo presi qualche giorno per la firma ufficiale”.