DI VIRGINIA MURRU
Never give up!
DI VIRGINIA MURRU
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Dunque hanno vinto loro, i due Vice-premier Di Maio e Salvini (ma Conte esiste nel ruolo di Presidente del Consiglio?), si va a sforare il 2% di deficit sul Pil, l’accordo è esattamente per 2,4% per 3 anni; il ‘dopo virgola’, in termini di miliardi, non sono comunque bruscolini..
In tutto il ‘prestito’ ammonta a 27 miliardi di euro. Una manovra rischiosissima: la Nota di Aggiornamento al Def è stata varata ieri notte, era il limite di tempo richiesto (manca il lasciapassare del Presidente Mattarella, ma non dovrebbero esserci intralci). Nonostante gli entusiasmi dei due alleati, Di Maio e Salvini, l’Italia è fortemente esposta al rischio: con le risorse disponibili anche nei prossimi anni, potrebbe non riuscire a trainare un carro con un indebitamento così pesante.
Intanto non c’è il placet dei mercati, che anzi sussultano e si rivoltano alla scelta di politica economica del Governo, all’ennesimo stato di allerta sui conti pubblici, all’instabilità che ne consegue.
Si renderanno disponibili dunque 10 mld per il reddito di cittadinanza (e pensioni di cittadinanza), dei quali beneficeranno circa 6,5 milioni di persone. 1,5 mld saranno destinati a coloro che hano subito truffe dalle banche, più o meno a titolo di rimborso. A gennaio non dovrebbero scattare le clausole di salvaguardia Iva; è previsto un limite di tasse del 15% per un milione di persone, e pax fiscale, con ‘chiusura’ di cartelle esattoriali e contenziosi con liti pendenti, fino ad un importo di 100 mila euro.
Il tutto dovrebbe rientrare nel ‘prestito’ (o meglio indebitamento) di 27 miliardi di euro. Nel 2019 pertanto, il rapporto deficit/Pil sarà pari al 2,4%. E il contratto di Governo è salvo, si dovevano a tutti i costi mantenere le promesse solenni fatte in campagna elettorale, e per questo il titolare del Mef, Giovanni Tria, è stato quasi minacciato d’essere perfino destituito.
E’ da irresponsabili esultare e sostenere che ha “vinto il popolo”, il popolo è nelle mani di questi politici digiuni d’esperienza, che finora ha fatto di tutto per foraggiare gli entusiasmi delle famiglie che hanno necessità di sostegno e certezze. La realtà però è un’altra cosa, è fatta di numeri che devono tornare, di conti che devono avere precisi riscontri, di impegni con l’Ue che devono essere rispettati.
Finora, la Commissione europea è stata fin troppo duttile nei confronti delle richieste di flessibilità del Governo (anche quello precedente), ora c’è un vero e proprio stato di allarme. Siamo sorvegliati speciali, e i richiami continui all’ordine, diventano un’umiliazione, se si considera che, nonostante tutto, l’Italia ha una notevole potenzialità, sul versante industriale siamo la seconda potenza in Europa.
Ma i conti sono in perenne scostamento dai parametri, e questa volta le sanzioni sono nell’aria, il monito del resto è già arrivato da Bruxelles. Se poi l’ambizioso progetto varato dal Governo dovesse tradire le aspettative, e i conti dovessero sprofondare in un girone infernale ancora più nero, in zona euro potrebbero metterci alla porta per incompatibilità con i Trattati a suo tempo firmati.
La Germania vorrebbe uscire volontariamente dal sistema Euro, ma perché non vuole più saperne di “risk-shared” . Per l’Italia il discorso è diverso: andrebbe via perché non sussistono più le condizioni per il rispetto dei parametri. Non si tratta di catastrofismo se in una simile congiuntura s’intravede lo spettro del default. In recessione già eravamo nel 2014.
Inutilmente ci si chiede perché, un’Italia che ha necessità d’investimenti in infrastrutture, di creare nuova energia nel versante occupazionale, disperda mezzi così consistenti con l’assistenzialismo. I 10 miliardi destinati al reddito di cittadinanza, diventano in gran parte una dispersione di risorse, e avrebbero invece potuto essere investiti in opere pubbliche, delle quali si ha un gran bisogno. Intanto, molti edifici scolastici, solo per citare una delle tante lacune, sono fatiscenti, quando non ruderi. Perché non investire una parte di questi miliardi per la costruzione di nuove strutture, incrementando l’occupazione e dando l’opportunità ai lavoratori di guadagnare dignitosamente uno stipendio?
Non si può capire questa smania di accattivarsi la simpatia della gente in modo sterile, e sul piano economico assolutamente deviante.
Noi cittadini, impotenti davanti agli esiti di questi azzardi, possiamo solo sperare che abbiano ragione loro, ossia Conte & company, gli esponenti del governo che hanno tentato questa via, ma non si può mettere a tacere la ragione, non si può investire solo sull’intraprendenza. Questa volta l’Italia è nelle mani dei funamboli, di chi si sta giocando il futuro del Paese con scommesse in cui il rischio è la posta in gioco, e qualora si precipitasse da quell’asse, non ci sarebbero coperture per la salvezza.
I mercati si stanno rivoltando perché un’Italia che viaggia con i conti così in dissesto, e un debito pubblico schiacciante, ha necessità di un percorso sicuro, il livello di rischio è altissimo. Giovanni Tria questo lo sa, non ha certamente ceduto a Salvini e Di Maio di buon grado, davanti a scelte di politica economica di questa portata. L’Italia si aspetta atti di governo che implichino una svolta, certamente, ma con una buona dose di buonsenso, non si può andare allo sbaraglio nello stato in cui ci troviamo.
Da quest’anno la crescita è in flessione, dopo oltre 3 anni di progressi: numeri, non opinioni. Per il 2019 agli Outlook delle Agenzie di rating, esperti, economisti e Organizzazioni internazionali, non sono orientati verso l’ottimismo.
La pariglia Di Maio-Salvini replica che non c’è nulla da temere, “i mercati se ne faranno una ragione”, lo sforamento del deficit è stato presentato come una vittoria. Ma i 27 miliardi dovranno rientrare nel volgere del breve periodo, e garanzie al riguardo non ce ne sono.
Si replica che il reddito di cittadinanza se lo può permettere la Germania, dunque perché non provarci anche noi? Certo che i tedeschi possono permetterselo, con una “dispensa” ben più fornita della nostra, trattandosi della prima potenza economica dell’Ue, quella che traina l’Eurozona.
E’ un confronto da irresponsabili, questo, basterebbe dare uno sguardo al differenziale di rendimento – che peraltro stamattina è schizzato fino ad oltre 280 punti base – per capire in quale tunnel poco illuminato ci stiamo inoltrando. O un semplice sguardo ai decennali del Tesoro tedeschi per capire che si sta paragonando il giorno con la notte.
No, i mercati non hanno brindato con i ministri che hanno approvato questo salto nel buio. Nessun cittadino, tuttavia, dovrebbe augurarsi che questa manovra sia l’anticamera di un’erta.
Sono tante le promesse fatte agli italiani, ma le promesse diventano poi “debiti”, nella vera accezione del termine. Con un debito pubblico che marcia ad oltre 2.330 miliardi, e un debito pro capite di oltre 38.700 euro, c’è poco da scherzare, e da azzardare.
Anche Francia e Spagna andranno oltre le transenne dei parametri imposti dai Trattati, lo hanno già reso noto a Bruxelles, che prevedono un deficit per il prossimo anno di circa 2,8% sul Pil. Ma la Spagna, nel 2017 ha marciato con un Pil pro capite superiore al nostro, ci ha superato. Un Pil misurato in PPP, ossia Power Purchasing Parity – tenendo conto della parità del potere d’acquisto.
Un governo ambizioso, il nostro, e questo poco male; quando si “va a fare la spesa”, se si eccede, si possono firmare cambiali, ma devono esserci garanzie e garanti.
Senza dimenticare che il primo di ottobre, il Quantitative Easing continuerà il suo processo di tapering (ché di questo infine si tratta), e verrà dimezzato ancora, passando dagli attuali 30 mld ai 15 mld al mese, fino al 31 dicembre prossimo.
Per un Paese che ha i conti in dissesto come l’Italia, il Qe è stato provvidenziale, aiuto notevole l’acquisto di asset ogni mese da parte della Bce. Il venir meno della politica monetaria espansiva, per noi sarà una certezza e un sostegno dei quali si avvertirà la mancanza, e non dettagli di poco conto.
Non si può dire oggi che l’Italia sia al di là della sponda; anche se i due ‘Caronti’ al governo hanno chiesto di apparecchiare il tavolo con una mensa allettante, e tanta abbondanza, non è detto che possano permettersi poi di “pagare il conto”.
Speriamo che non sia così, per il popolo, una parola fin troppo abusata nel 2018, ma lo spread a quota 280 punti base, non è un buon auspicio, e nemmeno il rendimento dei Btp a 10 anni, che supera il limite di guardia del 3%..
DI VIRGINIA MURRU
Il ritrovamento a Como delle 300 monete d’oro d’epoca romana, non contribuiranno a ridurre il debito pubblico italiano, ma certamente arricchiranno i musei; simili scoperte non possono che avere un’importanza storica rilevante.
Le monete sono state rinvenute, come si sa, in un sito del centro storico della città, (Via Diaz), cantiere Cressoni, durante i lavori di sbancamento del cinema-teatro, che dovrebbe lasciare posto ad un nuovo edificio.
Sono stati gli operai del cantiere a ritrovare, ad appena un metro di profondità, il contenitore di particolare fattura, realizzato con pietra ollare; ha una certa similitudine con le urne nelle quali solitamente si custodivano i tesori. E di tesoro si tratta, non vi sono dubbi su questo, l’oro utilizzato dai romani ha un alto grado di purezza, è evidente dal colore delle monete, ritrovate impilate una sull’altra, sembra che abbiano appena lasciato la zecca, tanto sono lucenti.
Il ritrovamento ha un notevole valore storico, dato che, nei lavori di scavo susseguitisi nel corso dei secoli, non sono state rinvenute grandi quantità di “sesterzi aurei” coniati dai romani.
Dichiara il ministro dei Beni Culturali, Alberto Bonisoli:
“Gli archeologi stanno valutando la portata storica e culturale della scoperta, e la direzione scientifica che sovraintende agli scavi, ha subito trasferito le monete in una sede di restauro del Mibac a Milano, dove l’urna che le conteneva è già oggetto di studio e di analisi.”
E’ stata subito informata la Sovrintendenza Archeologica, e sul sito del ritrovamento ora proseguono gli scavi, si pensa che le monete e i monili siano solo un indizio per altri importanti reperti.
Intanto gli esperti hanno stabilito che il ritrovamento potrebbe collocarsi in epoca bizantina, o risalire ad uno/due secoli prima di Cristo, questo sarebbe il quadro temporale più attendibile. Gli oggetti preziosi ritrovati insieme alle monete si suppongono legati alla fondazione e origine stessa della città di Como, ma gli orientamenti temporali non sono ancora certi: potrebbe anche trattarsi di un periodo precedente, quando il territorio era abitato da tribù di Celti e Galli.
Si va dai due secoli A.C. al IV secolo D.C., più avanti gli studi sui reperti esprimeranno una datazione più attendibile.
La Civiltà romana e i suoi tesori, ogni tanto tornano in superficie in seguito a scoperte casuali, e altre portate avanti con mesi e a volte anni di scavi da parte di squadre di archeologi.
Casuale fu anche il ritrovamento di Orselina, nel Canton Ticino, quattro anni fa: com’è noto, in un terreno privato nel quale si eseguivano lavori di scavo per ragioni ben lontane dall’eccezionale scoperta, furono rinvenute in un contenitore di ceramica, migliaia di monete in bronzo d’epoca imperiale, risalenti ai primi secoli d.C.
E’ verosimile che questi tesori venuti alla luce dopo alcuni millenni, e conservatisi perfettamente integri, dentro anfore di materiale diverso, siano stati nascosti per essere protetti da eventuali insidie provenienti da nemici esterni al territorio, non ultimi le orde di barbari che giungevano continuamente dal Nord.
La presenza dei Romani a Como e dintorni, è un dato certo, gli studi sulle monete e l’anfora che li contiene, saranno utili per una conoscenza più profonda della presenza romana nella città, e magari per rivelare ulteriori dettagli sui traffici commerciali che il lago permetteva.
Di certo si può dire che si tratta della scoperta più sensazionale avvenuta nell’ultimo decennio, per il prezioso valore storico e numismatico degli oggetti rinvenuti, non solo in Italia ma nell’intera Europa.
DI VIRGINIA MURRU
Ero una piccola vita
con l’anima intrecciata a fili di paglia
cresciuta dentro un nido sopra i rovi
come una parola tesa verso l’alto
che non aspetta l’eco del ritorno.
E raccoglievo bacche nelle siepi
salivo a piedi nudi sulle piante
credendo fosse il vertice del mondo.
Era semplicemente vita
quella che non domanda da chi viene
offre sorrisi anche alle tempeste
non cerca strade larghe al suo andare
cammina con i chiodi sotto i piedi.
Quella era vita immune da pensiero
con vuoti di tempo da riempire a caso
nemmeno si facevan congetture
sulle ragioni del Cielo quando piove.
Mentre lente avanzavano le sere
senza spiegarmi nulla, senza amore,
ombre armate di male, di silenzio
avevano già scritto il mio destino
contavano le lacrime sul volto
fino a riempire il mare ed anche oltre.
DI VIRGINIA MURRU
Il presidente dell’Inps Tito Boeri non usa eufemismi per mettere in rilievo il rischio che comporta per il sistema pensionistico la riduzione del flusso di migranti. lo ha espresso con toni preoccupanti nel corso del suo intervento al Festival del Lavoro, che si è tenuto a Milano al Centro Congressi Mi.Co, il 28 giugno ( si concluderà oggi).
All’appuntamento annuale, organizzato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, giunto alla sua nona edizione, erano presenti 270 ospiti, tra i quali il ministro del Lavoro Luigi Di Maio e il ministro dell’Interno Matteo Salvini, accademici ed esperti a vario titolo del tema ‘Lavoro’.
Nel suo intervento, il presidente dell’Inps ha fatto considerazioni importanti, che mettono in discussione la politica di controllo sui migranti portata avanti dal Governo, e che peraltro sta infervorando il dibattito in ambito europeo, suscitando anche tensioni non facilmente superabili.
Ora le contrapposizioni interne in tema di flussi migratori emergono chiare dalle dichiarazioni di Boeri:
“Stanno diventando preoccupanti gli scenari sulla spesa pensionistica, a causa del controllo dei flussi migratori. Sul piano demografico in Italia è in atto un calo delle nascite rilevante, il sistema pensionistico non è in grado di adattarsi a questo fenomeno, a causa delle forte interdipendenza, si tratta di un problema serissimo, e riguarda l’immediato.”
“Volenti o nolenti – ha proseguito Boeri – la costante presenza dei migranti può aiutarci a gestire questa difficile transizione demografica. Quand’anche ci fosse in Italia un’inversione di tendenza a livello demografico, ci vorrebbero almeno 20 anni prima che questi contribuenti fossero in grado di compensare il gap col versamento dei contributi. Attualmente questo flusso contributivo per il sistema pensionistico è importante, con la diminuzione dei flussi, l’arrivo di migranti “comincia ad essere non più sufficiente” a controbilanciare “il calo degli autoctoni.”
Affermazioni in linea con l’Ufficio parlamentare di bilancio, che proprio il giorno prima (il 27 giugno) aveva ricordato in una relazione, l’importanza dell’arrivo degli immigrati per i conti pubblici, per le stesse ragioni sottolineate dal presidente dell’Inps, ossia il sostegno contributivo.
In evidente contrapposizione con le recenti misure adottate dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, il quale, anche attraverso un tweet, ha espresso tutto il suo dissenso nei confronti delle dichiarazioni di Boeri:
“Secondo Boeri, presidente dell’Inps, la “riduzione dei flussi migratori” è preoccupante, perché sono gli immigrati a pagare le pensioni degli italiani…..
E la legge Fornero non si tocca.
Ma basta!!!”
Al Festival del Lavoro ancora in corso a Milano, Boeri ha fatto anche riferimento alla “quota 100”, riforma che dovrebbe permettere di neutralizzare la legge Fornero, ma che avrebbe riflessi non di poco conto sulla spesa pensionistica, e non solo: non migliora il rapporto tra pensionati e lavoratori. Boeri sottolinea il fatto che aumenterebbe il numero dei pensionati, circa un milione, ma diminuirebbero i lavoratori per via delle tasse sul prelievo pensionistico.
Il presidente dell’Inps ha poi espresso qualche considerazione sulle cosiddette “pensioni d’oro”:
“interventi di questo tipo, sono auspicabili nel momento in cui il debito pubblico è molto alto, e quando si volesse abbassare la pressione fiscale sul lavoro finalizzata al rilancio dell’economia.”
DI VIRGINIA MURRU
Secondo il Centro Studi Confindustria (CsC), l’economia italiana sta rallentando più di quanto ci si aspettasse nelle stime di dicembre 2017. I riscontri, per quel che concerne il tasso di crescita del Pil, sono infatti inferiori rispetto ai target: -0,2%, ossia, non la crescita del +1,5%, ma del +1,3% in termini reali. Gli economisti ed esperti del Centro studi di Viale dell’Astronomia, prevedono anche per il 2019 una flessione più ampia rispetto alle aspettative, ossia +1,1%. L’analisi riguarda il biennio 2018/19.
Secondo gli studi del Centro, la decelerazione nella crescita prosegue in modo graduale, e tanti sono i fattori che hanno inciso nella determinazione di queste dinamiche ‘involutive’.
A questo punto diventa ragionevole e ‘plausibile’ una manovra correttiva, stimata dell’ordine di 9 miliardi di euro. L’aggiustamento richiesto per il 2018, sarebbe pari allo 0,5% del Pil, mentre il prossimo anno, si dovrebbe intervenire con 0,6 punti (equivalgono a circa 11 miliardi). Sarebbe più o meno l’equivalente del valore della clausola di salvaguardia, qualora fosse stata attivata.
Nelle previsioni sui conti concernenti il 2019, c’è l’ipotesi di sterilizzazione completa delle clausole di salvaguardia Iva, che peraltro è stata inserita nella risoluzione di maggioranza del 19 giugno, al Documento di Economia e Finanza. La copertura della sterilizzazione Iva dovrebbe attuarsi attraverso la già annunciata manovra di agevolazioni fiscali sulle imposte dirette, e di un previsto aumento di quelle in conto capitale. Non vi sarà, come per gli anni scorsi, finanziamento in deficit.
I rischi, secondo il Centro studi Confindustria, per la crescita dell’economia italiana sono dietro la porta, soprattutto in riferimento allo scenario globale, che ultimamente ha presentato serie ragioni d’incertezza e tante incognite. Le politiche protezionistiche e le recenti misure d’inasprimento sui dazi, portate avanti dal governo americano, sono motivo di preoccupazione, non solo in Italia, ma in tutta l’Unione europea (e oltre com’è noto). I riflessi di queste politiche economiche sul nostro export sono stati severi, e potrebbero essere causa di un ulteriore rallentamento dell’economia, qualora il conflitto commerciale in atto dovesse proseguire in modo spregiudicato.
Intanto è pesante, sempre secondo il CsC, la flessione della domanda estera, e la conclusione del ciclo positivo degli investimenti sul piano nazionale, dinamiche negative derivanti dalle condizioni d’incertezza in cui si muovono gli operatori economici, sia in ambito internazionale che interno. Sull’aumento rilevante riscontrato negli anni scorsi, s’inserisce poi “un aggiustamento fisiologico”.
La crescita a livello globale dell’export, rimane stabile e positiva nel biennio considerato, trainata anche dal crescente sviluppo delle maggiori economie emergenti. Nonostante le incertezze sui tanti fronti dello scenario internazionale, non si avvertono scosse che fanno pensare ad un’inversione del trend, ossia alla fine del ciclo di espansione globale. Incoraggianti i ritmi degli scambi, anche se ci sono da considerare i rischi al ribasso, proprio per le dinamiche insite negli scambi globali, dove entrano in merito le politiche protezionistiche degli Usa, oltre alle incognite fisse che riguardano le tensioni geopolitiche, fattori che mettono in gioco la stabilità, con annesse le ripercussioni sui mercati finanziari. Il rialzo dei tassi (da parte della Fed) potrebbe causare “turbolenze” finanziarie nei mercati emergenti.
Sullo sfondo di questo panorama economico globale, il CsC opta per una revisione al ribasso sulle previsioni relative al 2018, per quel che riguarda l’export del Paese di beni e servizi (che incide per circa il 32% sul Pil). Dopo un 2017 all’insegna del boom nell’export, si assisterà ad una contrazione della domanda mondiale nel biennio considerato. Non accadeva dal 2013, ossia da quando il Paese stava imboccando la via della recessione. Si perderanno, in considerazione di queste valutazioni, consistenti quote di mercato.
Del resto, un primo segnale di questa inversione di tendenza nell’export, si è avuta nel primo trimestre del corrente anno. In conto sui dati negativi riscontrati, il rafforzamento del cambio dell’euro soprattutto nella seconda metà del 2017, e nei primi mesi del 2018. Un riflesso negativo deriva anche dalla contrazione degli scambi esteri dei paesi europei, che ha notevolmente penalizzato l’export italiano.
Si legge nel rapporto del CsC:
“L’Italia ne ha risentito per via della specializzazione in beni semilavorati e strumentali che rispondono più rapidamente a variazioni del ciclo. Comunque, l’andamento dell’export va valutato su un
periodo più lungo, data la normale volatilità degli scambi e considerato che nel 2017 l’espansione
è stata molto sostenuta”.
Secondo Confindustria, il Pil rallenta anche a causa del clima d’incertezza, “serve un’Italia forte in un’Europa forte”.
Come si è visto, Confindustria ha fatto il punto sullo stato dell’economia italiana, in funzione degli scenari globali, del resto non si potrebbe prescindere, anche alla luce degli ultimi allarmi provenienti dalle risoluzioni della politica economica americana.
“Dove va l’economia italiana, e una proposta per l’Eurozona”, è stato dunque il tema dell’incontro organizzato dai rappresentanti degli imprenditori.
In evidenza, negli studi degli economisti di Confindustria, alcuni dati macro, tra i quali lo stato dell’occupazione, che è previsto in aumento di circa l’1,0% nel biennio 2018/19, con intensità inferiore rispetto al Pil.
Nei primi mesi del 2018 ha interrotto la crescita il lavoro a tempo indeterminato, mentre si rileva un considerevole aumento di quello a termine.
Il deficit si contrae ma troppo lentamente: “dal 2,3% del Pil nel 2017, all’1,9% dell’anno in corso, e all’1,4% nel prossimo.” Tenendo conto dell’annullamento della clausola di salvaguardia, per la quale, come si è accennato, andrà in compenso l’aumento delle imposte dirette e quelle in conto capitale.
Il Centro Studi Confindustria sostiene l’Europa e la sicurezza che rappresenta per il Paese: “un’opportunità per tutti i paesi membri, Italia in primis”, proprio per la vulnerabilità derivante dalla crescita troppo lenta, per ragioni di fluttuazioni del ciclo, e conseguenti turbolenze dei mercati finanziari. E’ necessario migliorare “questa” Europa, secondo gli economisti del Centro, ma allontanarsene sarebbe una follia.
Vincenzo Boccia, presidente della Confindustria, sostiene che è presto per giudicare le scelte del governo appena insediato, saranno i mercati, giudici severi, a esprimersi al riguardo. Intanto l’Italia è attualmente a rischio per la zona euro. Boccia fa diversi riferimenti al mercato del lavoro, e si riferisce con particolare preoccupazione ai contratti a termine: “non bisogna renderli più cari”.
Per quel che riguarda l’Ue, tante sono state le proposte del CsC, tutte volte all’integrazione dei paesi membri, alla luce del dibattito europeo, che vede dominante la visione tedesca e il suo rapporto di forza, in virtù della solidità della sua economia. E tuttavia, sostengono gli economisti, prima di richiedere una maggiore condivisione del rischio nell’area, è necessario operare e collaborare con serietà e rigore, per la riduzione stessa del rischio, responsabilità implicita per i paesi che presentano divergenze nei conti rispetto ai parametri previsti.
DI VIRGINIA MURRU
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Il film “La grande bellezza” è Arte contemporanea pura, riconosciuto dalla critica come un capolavoro del cinema italiano, se n’è parlato tanto, e se ne continua a parlare, perché un ‘masterpiece’, suscita curiosità, istiga la ricerca degli aspetti più inediti.
In apparenza è una ‘storia’ senza legante preciso, o un fil rouge che segua con coerenza la logica di un ‘io narrante’; invece, nell’interpretazione di ogni personaggio, c’è un aspetto di vita che viene illuminato a giorno. Emerge come olio sull’acqua il clima di decadenza della borghesia romana, che cerca tuttavia di sopravvivere, di celebrare se stessa, attraverso gli esigui spazi temporali che offre il terzo millennio. Ci sono i dilemmi del proprio tempo, visti nella penombra di un’indagine psicologica che resta indefinita; tutto è estremizzato, dilatato sulla linea degli eccessi.
Il protagonista (Jep Gambardella) è impietoso quando deve definirne i tratti, e non indulge sulle inesorabili vacuità del vissuto, non immune dall’insidia delle convenzioni, dal ripiego alle evanescenze della bellezza. Nel film si possono trovare quei ‘luoghi’ inediti dell’anima e i non luoghi della vita. In questo ‘viaggio’ dell’assurdo e del paradosso, sembrerebbe che ad essere raccontato sia l’inconscio del protagonista, in libera associazione di pensiero. Tecnica narrativa che rimanda in qualche modo all’”Ulysses” di J. Joyce, in una sequenza d’immagini e dinamiche scenografiche che mettono in rilievo questo rovescio d’anima, in cui la ragione non viene chiamata in causa. E’ un universo interiore che si materializza in immagini e in azioni secondo un ordine che proviene, appunto, più dall’inconscio che dalla coscienza.
E’ in definitiva una finissima sapienza artistica, tipica di un certo ‘narrare’ nel cinema, alla quale non è estranea la ricerca psicologica, che appartiene solo ai grandi. Qualcuno ha scritto che non vi è relazione ‘parentale’ tra Fellini e Sorrentino. Purtroppo, ogni volta che nasce una nuova ‘creatura’, dobbiamo a tutti i costi trovare somiglianze e similitudini nei ‘tratti somatici’, con i ‘genitori’ o collaterali, come fosse un atto dovuto. Se relazione artistica o ‘trait-d’union’ deve esserci tra i due registi, il connubio è legittimo, perché Sorrentino ha tutte le credenziali, l’estro e il genio per continuare l’opera di Fellini. In Italia ci sono tanti buoni registi, ma Sorrentino è forse l’erede più degno del Maestro.
Egli, in un’intervista, ha del resto dichiarato di essersi ispirato ad alcune importanti personalità del nostro cinema, in primis Federico Fellini, ossia il Maestro ‘by definition’. La grande bellezza è dunque un richiamo allo stile felliniano, ad alcuni suoi capolavori, quali Otto 1/2 e la Dolce Vita; dopo avere visto il film si conclude che il richiamo è naturale.
“E’ un film innamorato dell’Italia” – sostiene Sorrentino – e Roma rappresenta proprio quella “grande bellezza” a cielo aperto, che scintilla in visioni notturne dirompenti verso sensi. Anche se, fa notare Giusi Merli, una delle interpreti, in definitiva, la ‘grande bellezza’ alla quale rimanda il film, non è stata ‘trovata’ (ma nel film lo dice chiaro anche il protagonista).
Il film ha ottenuto tutti i riconoscimenti possibili nell’ambito del Cinema: dall’Oscar, per il migliore film straniero, ai numerosi David di Donatello, Nastri d’Argento, Golden Globe, European Film Awards, tanto per citare solo i più prestigiosi.
Il cast è importante: oltre a Tony Serpillo, nel ruolo di protagonista, c’è Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Giusi Merli, Pamela Villoresi, Isabella Ferrari, Roberto Herlitzka, Serena Grandi, insieme ad altri attori di notevole spessore artistico e professionale.
Giusi Merli interpreta il ruolo di Suor Maria, “la Santa”, personaggio di forti magnetismi spirituali, misteriosi ed eloquenti silenzi. Non poteva mancare questo ruolo nella compagine della narrazione, la spiritualità è un’’accezione’ che avvolge la città eterna come un centro di gravità, scorre tra le mille stazioni della religiosità romana, ne rappresenta semanticamente l’essenza: ne è satura l’aria.
Le interpretazioni della Merli si caratterizzano per la forte spiritualità, a prescindere dal ruolo. Espressione di questa peculiarità è anche la sua partecipazione ad un cortometraggio ambientato in Sardegna, “A casa mia”, diretto da Mario Piredda (di origini sarde), nel quale l’attrice recita in sardo. Il corto è stato premiato col David di Donatello, nella categoria short movie.
Giusi Merli sostiene che ‘La grande bellezza’ è un film “fortemente spirituale, e non un’esibizione da cartolina delle attrattive artistiche di Roma”, interpreta in modo ineccepibile la parte della religiosa, che allude alla figura di Madre Teresa. Bellissima la scena del ‘soffio’, così spiritualmente potente da far spiccare il volo ad uno stormo di fenicotteri rosa, dei quali la Santa conosce il nome, uno per uno.
E’ un’attrice Pisana ‘di lungo corso’ (40 anni di esperienza in teatro), Pisa è anche la città nella quale ha concluso l’iter dei suoi studi, nella cui Università ha conseguito la laurea in Lingue e Letterature straniere.
“Iniziata’ al palcoscenico in teatro, su una linea contemporanea d’avanguardia, dove si esprime al meglio, è un’attrice duttile sul piano interpretativo, con un volto particolarmente espressivo. Ha recitato un po’ ovunque in Italia, Europa e Stati Uniti. L’aspetto fisico asciutto del suo “corpo senza tempo”, sono un tutt’uno quando va il scena.
La vera protagonista del film “La grande bellezza alla fine è Roma, in tutta la sua monumentale magnificenza – ed è subito chiaro fin dalle prime scene – insieme alla sua ‘gente’ più autentica, i romani, con la celebrazione dei loro vizi e virtuosismi. Il film racconta un “viaggio” immaginario tra i meandri mondani di una Roma eterea, notturna, compiacente e complice, talora contradditoria, indifferente. Non per nulla nella ‘narrazione’ l’incipit è la citazione di un’opera di Céline: “Viaggio al termine della notte”.
In quei fermenti notturni, dove la vita scorre tra ozio e indolenza, c’è qualcosa di fluttuante che va oltre la rappresentazione e l’inerzia di quel mondo patinato. I personaggi percorrono senza sapere il tracciato di un viaggio vagheggiato, attraverso gli itinerari surreali di una società che in apparenza vive di superficie, quasi nel non senso, e ignora il volto più profondo e reale della Vita. Una ricerca non certo proustiana, immaginifica, ma pur sempre la ricerca di qualcosa che pulsa intorno all’esistenza, si direbbe passiva dei personaggi. In quel loro porgersi generoso e acquiescente, dove a volte le parole, le relazioni, riflettono silenzi e negazione, non partecipazione attiva ed entusiasmo di esserci. Semmai apparire.
La ‘storia’ gravita intorno a Jep Gambardella (ruolo magnificamente interpretato da Tony Serpillo), scrittore in crisi d’ispirazione, e giornalista di un sistema d’informazione un po’ mainstream. Jep è l’epicentro di uno stile di vita borghese, vagamente in dissoluzione, che inconsapevolmente si dibatte come un funambolo nella vita reale, per via di quell’ambivalenza di ruoli, cedimenti alle inconsistenze, al trasognamento.
E’ talmente assorbito dall’intrigo della mondanità notturna romana, da risultare più incline, in certo qual modo, ad assumere il profilo di un “perdigiorno”. Peculiarità paradossale che non disturba il ritmo di un’esistenza rivolta alla ricerca di qualcosa d’indefinito e sfuggente, che lo stesso protagonista non riesce perfettamente a focalizzare.
Uomo maturo, ma tanto assorbito da quel fervore di vita notturna da farlo apparire un apprendista della vita, mai assuefatto ai ritmi indolenti di quelle feste, oppio che lo immobilizza sul nulla, quel nulla del quale vorrebbe scrivere, ma non sa scuotersi dai conflitti di un sé totalizzante; dal blocco del suo estro creativo. “Guarda la mia vita: il nulla” – “E’ tutto sedimentato tra il chiacchiericcio e il rumore..”.
Ama la mondanità e lo stile di vita un po’ borderline, ma in fondo è un nostalgico, a tratti vagamente bohèmien. In questa mancanza di logica narrativa, si scorge un sottile legame con gli aspetti assurdi dell’esistenza, rappresentati da Beckett, nel quale non di rado domina proprio il non senso della vita. Avanguardismo comunque, che spezza la trama e l’ordito del razionale, di una logica guidata dalla coerenza della ragione.
‘La bellezza salverà il mondo’ – bellezza rivolta all’Arte, alla creatività proveniente dall’estro umano – anche Dostoevskji, ne ‘l’Idiota’, mise in bocca questo assioma al personaggio chiave del suo romanzo.
Jep viaggia quasi in incognito nella sua esistenza, più che vivere sembra procedere per inerzia, sottoscrive quotidianamente le clausole essenziali e vincolanti della vita, verso la quale è fedele a modo suo, ossia un po’ da ignavo un po’ da istrione. Certo si riconosce il diritto di sbagliare e cadere, senza impedimenti moralistici o deragliamenti in sensi di colpa. E’ un viaggio in appendice, il ruolo di questo singolare personaggio, senza voli pindarici di retorica sul senso di un procedere a distanza di sicurezza dal mondo che lo circonda.
Ho incontrato Giusi Merli, una delle interpreti, durante una serata culturale, nella quale le è stato assegnato un riconoscimento alla carriera. E’ una donna semplice, sensibile alle problematiche sociali. Nonostante una vita dedicata al teatro, e i numerosi riconoscimenti ricevuti, il suo porgersi alla gente è schietto e diretto, dal suo volto luminoso traspare disponibilità verso gli altri, e nessuna pretesa di privilegi nel suo ruolo di personaggio pubblico. Tra i numerosi premi che le sono stati assegnati, c’è anche quello relativo ad un corto, quale migliore attrice, a Barcellona.
Dopo decine d’anni di esperienza sui palcoscenici di mezzo mondo, ritiene che ci sia più realtà nello spazio scenico di un teatro, o nella vita?
“La vita è un grande teatro. Il teatro di per sé è la più eloquente metafora della vita, perché mette a fuoco il senso stesso dell’esistenza umana”.
Qual è l’opera che più la rappresenta tra le tante che ha interpretato?
Sì, in effetti sono tante, ma non posso negare il fascino che su di me esercitano le opere di Shakespeare, tra queste, “La tempesta”, nota opera teatrale in 5 atti. E’ semplicemente meravigliosa. Mi ha dato tanto in termini di gratificazioni, io ho interpretato il ruolo di Calibano. L’opera è stata tradotta in napoletano del ‘700 da Eduardo De Filippo, che non portò tuttavia mai in scena. E’ invece andata in scena nel carcere di Arezzo, dove allo spettacolo hanno partecipato attivamente i detenuti. Si tratta di un’esperienza unica, che mi ha trasmesso davvero molto sul piano umano.
Cos’è per lei l’Arte e la sua rappresentazione?
E’ prima di tutto un mezzo di comunicazione di fondamentale importanza, è semplicemente un modo per trasmettere qualcosa a chi ascolta, veicola infatti dei messaggi non criptati. L’Arte, quella autentica, dà un indirizzo, induce a pensare.
C’è relazione di affinità tra ‘La grande bellezza’ e qualche opera di Federico Fellini?
Se proprio si dovesse cercare un’affinità, io la trovo con Satyricon, celebre film di Fellini del 1969, ispirato all’opera dell’autore latino Petronio.
E’ la Vita “La grande bellezza”?
La bellezza non è l’aspetto fisico delle cose, nell’arte come nella vita, non solo questo, sarebbe riduttivo. La bellezza è qualcosa che trascende i sensi, la fisicità, perché è l’essenza spirituale di ogni cosa creata. Bellezza fisica e spirituale sono un tutt’uno, come un’accezione cosmica: sono una la metamorfosi dell’altra, due anime che si ‘parlano’ e si fondono in una.
DI VIRGINIA MURRU
Il ministro dell’Economia e delle Finanze è un economista, professore ordinario di economia politica all’università di Tor Vergata, ha le idee chiare sul programma presentato da Lega e 5 Stelle, e non sembra nemmeno intimorito di esprimere pareri che rischiano di diventare voci fuori dal ‘coro’.
E’ più vicino in generale alle posizioni della Lega, piuttosto che ai punti chiave del programma sostenuti dal Movimento 5 stelle, perché non convinto sulle garanzie di copertura relative al reddito di cittadinanza, verso il quale ha già espresso le sue riserve.
Sostiene al riguardo:
“In realtà ancora non è chiaro l’impatto dei costi determinato dal reddito di cittadinanza, l’entità delle risorse che richiederà e l’ampiezza in termini di beneficiari dell’indennità, che in definitiva è legata alla disoccupazione. Si tratta di un’ Iniziativa già intrapresa in Francia, peraltro. Tale indennità dovrebbe anche essere estesa a coloro che sono alla ricerca di un primo impiego, al momento, tuttavia, gli effetti di questo provvedimento sono pieni di incognite”.
Molto più favorevole, e non ne ha mai fatto mistero, il ministro Tria, alla Flat tax, vessillo della Lega, e alla cosiddetta Pace fiscale. Il professore spiega che perseguire un obiettivo di riduzione della pressione fiscale, è in piena sintonia con la base di una politica rivolta alla crescita.
Si tratta di una scelta, secondo il ministro Giovanni Tria, non semplicemente orientata a rendere disponibile una maggiore base di reddito per famiglie e imprese, finalizzata quindi a sostenere la domanda interna.
La prospettiva è quella di portare in crescita fattori produttivi quali lavoro e capitale, a beneficio di un ventaglio d’investimenti più consistente.
Si discute tanto, secondo il ministro, intorno alla doppia aliquota, o a quella unica, ma in realtà conta l’intervento di semplificazione del sistema, oltre che la sua sostenibilità in termini di copertura, che dipende anche dal livello delle aliquote.
In una lunga intervista concessa nei giorni scorsi al Corriere della Sera, il ministro spazia in lungo e in largo sulle strategie previste dal Mef per l’attuazione del programma di governo.
Sulla domanda circa i timori della Germania sulle forzature che l’Italia potrebbe esercitare in ambito Ue, in tema di debito pubblico, qualora i partner europei non concedessero l’elasticità necessaria a portare avanti i punti chiave previsti dal programma del nuovo esecutivo, egli si è dimostrato ottimista, e non ha espresso particolari preoccupazioni al riguardo:
“Sono già in contatto con il collega tedesco Olaf Scholz, il presupposto principale delle relazioni con i paesi della zona euro è il dialogo, non abbiamo alcuna intenzione di usare l’arma del ricatto per ottenere margini di flessibilità sui conti pubblici. Penso che cercherò di persuadere i partner che un’italia che corre su un obiettivo di crescita e risanamento dei conti, è nell’interesse di tutti, e su questa base pensiamo di trattare, ovviamente su un fronte di fiducia reciproca.”
Giovanni Tria rassicura sul fatto che l’intesa del governo su temi fondamentali è unanime.
Quanto al settore bancario, alla necessità di riforme, afferma:
“è ancora presto per fare il punto sulle strategie, ma il settore indubbiamente necessita di solidità, anche se la strada è stata intrapresa dal precedente esecutivo, c’è stata una riduzione delle sofferenze bancarie del 25%, è un notevole passo avanti: si proseguirà su questa linea.”
Sulla possibilità di saldare i debiti commerciali attraverso l’emissione di “mini-Bot, è piuttosto esplicito:
“i debiti dello Stato nei confronti delle imprese, sono un problema, ma sono convinto che per risolverlo sia necessario eliminarlo alla radice, ossia facendo in modo che i pagamenti siano regolati in denaro ed entro i tempi previsti. I mini-Bot sarebbero soluzioni tampone, e non l’eliminazione del problema”.
Sull’opinione che Mario Monti esprime da anni circa lo scomputo degli investimenti dal patto di Stabilità, Tria sostiene che egli ne è stato in qualche modo il precursore: lo ripete da decine d’anni. “Il fatto è che – precisa – anche se si estrapolasse dal calcolo del deficit, con il lasciapassare di Bruxelles, si potrebbe ‘spendere’ di più, ma l’impatto sul debito ci sarebbe lo stesso.”
Quanto all’obiettivo di ridurre il debito nel corrente anno e nel 2019, Tria conferma che si tratta di un punto fondamentale del programma, sulla base dei presupposti fino ad ora già fissati, e con l’intento della riduzione graduale nei prossimi anni. L’incertezza resta l’andamento dell’economia e le relative stime, difficile secondo il ministro, fare previsioni, al momento.
E’ ovvio che alla luce del fatto che il governo si è appena insediato, non si possono tracciare conclusioni, se non tenere presente una linea programmatica che dovrebbe portare via l’Italia dal rischio di speculazioni, e per questo invita spesso il governo a “pesare le parole”, visto che ogni dichiarazione alla stampa, può suscitare reazioni su bersagli sensibili quali i mercati.
Intanto il nuovo ministro ha davanti tanti impegni, non semplici da ‘onorare’, come il disinnesco delle clausole di salvaguardia, che potrebbe creare comunque problemi e malcontento. Parlando alla platea di Confcommercio alcuni giorni fa, al riguardo, il ministro del Lavoro Luigi Di Maio, ha stimato che ci sarà un costo di 12,4 miliardi di euro il prossimo anno, e 19,5 miliardi nel 2020.
Restano tuttavia un’incognita le risorse da reperire per la copertura finanziaria. L’aria che tira in proposito sarà più chiara dopo il 19 giugno, quando in Parlamento si affronterà il tema del Def. Da qui partiranno i primi interventi – dopo la risoluzione della maggioranza – sulla procedura da avviare in termini di applicazione della dual tax, per imprese e famiglie.
E contemporaneamente si aprirà il varco per disinnescare le clausole di salvaguardia, i due interventi sono legati. Sulla Flat, si stima una spesa iniziale di circa 30 miliardi di euro, ai quali si aggiungeranno gli oltre 12 miliardi per evitare che scatti l’aumento dell’Iva il prossimo gennaio (al 24,2%).
Sfide importanti per il nuovo esecutivo, e per Giovanni Tria, quasi fondamentali per l’attuazione del programma. Afferma il ministro in proposito:
“Nella nota di aggiornamento del Def saranno presentati i nuovi conti, appuntamento previsto nel prossimo settembre. Conti che, per ovvie ragioni, devono essere coerenti con l’obiettivo della riduzione sostanziale del rapporto debito/Pil. E’ uno degli impegni più decisivi, sottolineato anche il presidente del Consiglio. Si lavora per la crescita dell’occupazione, attraverso un programma basato sulle riforme strutturali, che col tempo creerà le basi per condizioni più favorevoli in termini di investimenti e opportunità di lavoro.
Il ministro Tria si esprime in modo rassicurante, indirettamente anche verso i mercati, non intende aggiungere paglia al fuoco, alimentare allarmismi o foraggiare la speculazione. E’ una fase di transizione e di svolta, un passaggio delicato, che è necessario attraversare con la dovuta cautela. Per questo non si stanca di ripetere che bisognerebbe affrontare le difficoltà con senso di equilibrio e responsabilità, senza angosce, “anche perché, sostiene, i fondamentali della nostra economia sono a posto.”
Certo, non manca di precisare, la zavorra del debito pubblico, è un’eredità ingombrante che viene da lontano..
E poi c’è la Legge Fornero, così tanto demonizzata, eppure così intoccabile secondo Confindustria..
“Via la legge Fornero, e partiamo” – dichiara il ministro del Lavoro Di Maio.
Il Contratto relativo al programma Lega- Movimento 5 Stelle, precisa, è fondamentale per l’attuazione, e quindi l’abolizione degli squilibri del sistema previdenziale introdotti proprio dalla riforma delle pensioni, che comporterà un budget di spesa di circa 5 miliardi di euro.
Il ministro Tria al riguardo è piuttosto cauto, non si è espresso sulla volontà di abrogare la riforma Fornero, né fa riferimento alla proposta della coalizione sulla nota “quota 100”. Egli sostiene che la riforma necessita d’interventi di miglioramento, ma non si esprime sull’immediata abrogazione. Troppi nodi e troppi ‘nemici’ dietro la porta. La riforma Fornero è stata, nella precedente legislatura, il delicato ago di una bilancia, e non sarà facilissimo spazzarla via.
Secondo Giovanni Tria, non si può andare allo sbaraglio sulla materia: “in tema di sistema pensionistico, è necessario, non solo guardare a breve, ma soprattutto a medio e lungo termine, e valutarne le conseguenze.”
C’è la prudenza in persona, alla guida del Mef, e del resto, i tempi sono delicati come calici di cristallo, essere impulsivi e avventati, potrebbe alimentare il rischio, comunque sempre presente per la stabilità dell’economia italiana in questo momento.
DI VIRGINIA MURRU
DI VIRGINIA MURRU
Inutile cercare eufemismi, l’Italia sta vivendo uno dei momenti più drammatici, purtroppo non solo nel versante politico, ma anche in quello economico-finanziario (semmai queste variabili interdipendenti potessero essere considerate in modo disgiunto..). Momenti in cui anche le parole diventano cristalli da maneggiare con cura, perché possono essere recepite e interpretate nella loro pura accezione letterale.
I mercati finanziari sono diventati bersagli sensibili, più che mai. Certo era evidente per tutti che i risultati delle urne, in Italia, avrebbero portato sconvolgimenti negli assetti politici, e ribaltato gli equilibri in Parlamento, ma francamente era difficile presentire un tale dissesto.
Non era previsto questo sconquasso generale, e le ripercussioni così pesanti sul piano finanziario, con Piazza Affari che sembra essere diventata un faro che trasmette segnali di allarme in tutto il pianeta.
Che l’Italia, da seconda economia industriale europea, esercitasse il suo peso in ambito Ue, e l’Eurozona in particolare, era evidente, ma che rischiasse di essere pure determinante per la solidità dell’Euro, era una concezione lontana, o meglio: non era in discussione.
Dalla settimana scorsa lo spread sembra l’ago di una bussola impazzita, nei mercati si avverte tensione al limite del panico, e così si susseguono le sedute, una dopo l’altra. con avvio e chiusura in negativo.
Oggi l’indice Ftse Mib è ancora in perdita: -1,8%, a 21.535 punti. Nel mirino di questa crisi politica, che tutto sta travolgendo sotto il suo passaggio, i maggiori istituto di credito italiani, che con fatica stavano riacquistando credibilità sul piano internazionale.
Nei giorni scorsi ci sono state perdite consistenti registrate da Unicredit, Bpm, Mps. Anche Poste è stata interessata dal cliclone, ma ovviamente il repertorio è ben più ampio. Oggi l’avvio a Piazza Affari non promette di meglio, le banche in primo piano, le più bersagliate nel sistema.
Solo ieri a Milano il Ftse All Share (indice di tutti i titoli del listino), ha lasciato sul campo l’1,88%, mandando così al rogo 12 mld di euro. Ora il saldo della capitalizzazione, bruciato in una decina di sedute, va oltre i 62 miliardi di euro. Sempre ieri sera lo spread ha chiuso in forte ascesa: a 233 punti base.
Sul settore bancario sta imperversando il sell-off, effetto di un certo panico diffuso nei mercati, causato dall’ascesa turbolenta dei rendimenti sul Btp, mettendo in risalto la relativa solidità di un comparto che ancora stenta a riprendere quota. E così l’osservatorio internazionale punta la lente da vicino agli istituti di credito italiani. Ieri, intanto, l’indice Ftse All-Share Banks, ha chiuso in forte perdita: -3,67%, e tanti titoli che a causa del sell-off percorrono la via della volatilità.
La causa principale di questa ‘aggressione’ all’indice del comparto bancario è, neanche a dirlo, lo spread; le conseguenze, se l’andamento negativo dovesse persistere, è di un’inversione del trend principale, (rispetto ai mesi precedenti).
La coalizione Lega-5Stelle non è andata avanti con la formazione del nuovo governo, e dunque la mancanza di stabilità pesa come il piombo sull’attendibilità di una nazione solida sul piano politico ed economico. Tanto basta ai mercati per scatenare reazioni a catena, che col passare dei giorni diventano sempre più insidiose per la precarietà dei conti pubblici del Paese.
Ancora incertezza in prospettiva, dunque, e gli effetti, come un boomerang, stanno intaccando l’euro, che è diventato nelle ultime settimane vulnerabile, non solo nei confronti del dollaro. Il monito del presidente della Confindustria, Vincenzo Boccia, non è da sottovalutare: “L’Italia senza l’euro? Sarebbe davvero la fine, non si può nemmeno scherzare su certe cose.”
Intanto, se non ci saranno le premesse per una solidità politica degna di questo nome, sarà come costruire alle pendici di un vulcano in eruzione, tutt’altro che in stato di quiescenza. Gli effetti della crisi politica sono stati amplificati sul piano finanziario, perché il Paese aveva solo negli ultimi anni intrapreso la strada delle riforme strutturali e del controllo dei conti pubblici. E proprio su queste fondamenta ancora ‘fresche’, non propriamente solide, si è scatenata una tempesta praticamente senza precedenti a livello politico.
Piazza Affari ha influenzato i mercati europei, ma, come si è accennato, anche il resto del pianeta. Proprio oggi è evidente che il ‘contagio’ è giunto anche sulle borse asiatiche, che danno una lettura forse distorta delle nuove elezioni che si svolgeranno quasi sicuramente entro l’anno in Italia. Il rimando è alla possibilità che l’esito sia un test sulla permanenza o meno in area euro.
Una crisi al di là di ogni valutazione o previsione, nessuno immaginava che diventasse simile ad un sasso scagliato in una superficie d’acqua più o meno immobile, e che le sue onde concentriche finissero per arrivare anche nei punti più lontani del pianeta.
L’auspicio ovviamente, per tutti, è che questo clima di emergenza finisca, se continuasse sarebbe davvero arduo delimitarne i confini. Già qualche flessione nella produttività sul piano globale si avvertiva, ora potrebbe innescare effetti imprevedibili.
Forse non sarebbe poi così improprio il rimando ai mutui subprime, i quali sembravano una mina vagante e sommersa, che in breve tempo avrebbe esaurito il suo potenziale esplosivo, e invece, prima che ciò sia avvenuto, si sono bruciate immense risorse, non solo negli Usa, e poi inevitabilmente in Europa, ma anche oltre.
DI VIRGINIA MURRU
Lo spread Btp-Bund continua a salire (ieri è arrivato a 216 punti base), ultimo rilevamento delle 8:00 di oggi è di 206,7 pb), ossia un differenziale di rendimento ai massimi da quattro anni a questa parte. L’eziologia di questa febbre è evidente: l’incertezza di un quadro politico che i mercati interpretano con preoccupazione. Resta il fatto che in una decina di giorni Piazza Affari ha visto andare in fumo oltre 51 miliardi. Madrid non ha saputo fare di meglio, ma il Pil in Spagna viaggia a +3%, ossia al di là della media europea (2,4%), e marcia in positivo con +3% da tre anni consecutivi. Tutta un’altra storia.
La Borsa di Milano ha rilevato ieri perdite pesantissime tra i maggiori istituti di credito (oggi a inizio seduta Piazza Affari è in negativo): Bpm è andata a -7,3%, Mediobanca -4%, Unicredit -3%, Intesa Sanpaolo -4%; insomma i maggiori istituti hanno subito le pressioni negative provenienti dalle incertezze dell’orizzonte politico. Vanno giù anche Eni e Saipem, che hanno risentito del calo di prezzo del petrolio.
Un baratro che si è aperto in poche settimane, dato che lo scorso 7 maggio, il Ftse Mib a Piazza Affari aveva chiuso la seduta con un massimo storico, risultati che non si vedevano dal 2008.
L’insofferenza di Matteo Salvini verso i richiami provenienti da Bruxelles, è una spia che lampeggia verso l’euroscetticismo, e un programma politico che certamente sarà espressione dell’ostilità nei confronti delle autorità dell’Unione europea.
In un momento così delicato per l’Italia, mentre l’economia negli ultimi anni ha cercato di risollevarsi da una congiuntura pesante e molto critica, allontanarsi dall’Europa non sembra indice di buon senso e di prudenza. In un momento in cui l’Italia stava imboccando la strada non semplice del controllo del debito, che da circa un anno ha cominciato a contrarsi, pensare ad un cambiamento di rotta, e avviarsi verso un itinerario politico ed economico, con un programma tempestato d’incognite, non sembra la chiave giusta per traghettare il Paese in una sponda che offra davvero la garanzia di una svolta sicura.
Certo, lo spread a 215 punti base rievoca lo spettro dell’incubo che l’Italia ha vissuto nel 2011, quando si superarono i 500 pb, e si scivolava inesorabilmente verso la recessione, mentre Fitch prendeva atto di quella bussola che sembrava impazzita, e tagliava il rating a 8 banche.
Momenti che dovrebbero fare riflettere, ma seriamente. La fiducia, in particolare all’estero, non è alle stelle. Il nuovo esecutivo presenta punti di programma (Flat tax sul piano fiscale, che rischia di danneggiare e non poco gli istituti finanziari, ma non solo..), che potrebbero destabilizzare i conti pubblici, già in sofferenza. “Bastano pochi mesi per smarrire le redini” – avverte l’attuale premier Gentiloni.
Ma è un coro unanime la sfiducia che circola negli ambienti finanziari, tra i pareri degli economisti ed analisti di tutto il mondo: questo è un governo che rischia di portare l’Italia allo sbaraglio.
Lo spread (termine inglese che significa differenza), torna ad agitare gli animi, ma perché si ha tanta paura del differenziale di rendimento tra i titoli italiani Btp (Buoni del Tesoro poliennali, che poi sono certificati di debito emesso dallo Stato, obbligazioni) e gli omologhi, ossia i Bund tedeschi?
La differenza consiste nell’indice di rischio che il titolo comporta per l’investitore che compra Btp e quello che acquista i Bund. Se lo spread aumenta, significa che nei confronti del Bund, il Btp esprime un rischio maggiore, e di conseguenza ‘prestare denaro allo Stato italiano’, è più pericoloso, perché lo stato dell’economia riflette incertezze di fondo, e potrebbe non garantire la restituzione del debito.
Lo spread ci dice, con i suoi punti base, quanto è più rischioso il Btp nei confronti del Bund, di per sé solido come una roccia, e per questo per il mercato è il più indicativo quanto a stabilità di valore.
Più aumenta lo spread, e più l’economia – in questo caso quella italiana – è vista dai mercati come un’incognita della quale diffidare, e come ovvia conseguenza anche acquistare Btp diventa un mezzo salto nel buio. Il contrario avviene quando il differenziale si riduce: è segno che ci si può fidare delle garanzie dello Stato, l’economia e i dati macro sono incoraggianti, e quindi acquistare Btp allenta il rischio per gli investitori.
Il metodo di calcolo del differenziale non è difficile, sostengono gli esperti: si tiene conto di un Btp con scadenza a 10 anni, e si arriva al calcolo del rendimento alla scadenza del titolo. Poi si confronta, seguendo la stessa procedura, con il Bund tedesco, sempre decennale. Sono i valori espressi dai due titoli che metteranno in evidenza la differenza di rendimento, e qui scatteranno anche i cosiddetti “punti base”.
Uno spread a 215 punti base, significa che il Btp italiano rende intorno al 2,15% in più rispetto al titolo di Stato tedesco. Può certo essere una buona notizia per chi investe, perché aumenta il rendimento, ma non lo è per lo Stato italiano, perché costretto a spendere di più, e perché dal maggiore rendimento si valuta anche il rischio d’insolvenza.
Lo spread pertanto rappresenta le due facce di una medaglia, ed è uno degli indicatori che misurano lo stato di salute di un’economia.
DI VIRGINIA MURRU
La Cina, tramite una nota del Consiglio di Stato (State Council o Governo), comunica che abbasserà i dazi sull’import di veicoli dall’attuale 25% al 15%. Sulla componentistica per auto le tariffe saranno ridotte al 6%.
Il provvedimento scatterà il primo luglio. Non si tratta propriamente di un exploit a sorpresa, poiché, il Presidente Xi Jinping, lo aveva già annunciato lo scorso aprile (al Boao Forum for Asia), con un cenno significativo in merito: “i dazi sull’import di auto saranno notevolmente ridotti”. Una mossa strategica, che certamente ridurrà la fibrillazione sui mercati, dovuta al ‘conflitto’ commerciale tra Usa e Cina.
La tariffa del 25%, applicata fino ad ora sulle importazioni, era del resto molto penalizzante per l’industria del settore automobilistico all’estero, fin troppo protettiva nei riguardi del mercato interno. Certamente è un’ottima notizia per le Case automobilistiche europee, giapponesi e americane, dato che il mercato cinese ha un’enorme potenzialità sul piano globale.
La conferma di questa scelta importante del Governo cinese, arriva in un momento in cui c’è necessità di distensione, in particolare nei rapporti commerciali e diplomatici con gli Usa. Sembrerebbe in sintonia con l’arrivo – a breve in Cina – del Segretario al Tesoro, Steven Mnuchin. Ci si aspetta una ridefinizione dei negoziati tra le due super potenze.
Un’anticipazione sul provvedimento viene anche dall’Agenzia Bloomberg, la quale scrive di un “piano di imminente annuncio”, e, proprio nella seconda metà di maggio, mentre si svolgono gli eventi legati al Salone dell’auto di Pechino, si parla del contenimento dell’imposta sull’import di automobili, che potrebbe anche tendere ad una riduzione del 10% (dall’attuale 25%).
Una dimostrazione di ‘opening’ verso il mercato, tariffe che non possono essere lette tuttavia come semplici concessioni (all’Occidente in particolare), ma come uno stimolo alle vendite e all’offerta diretto alle Case automobilistiche. I marchi di lusso in particolare saranno avvantaggiati dalle nuove misure di Pechino, in quanto favorirà la competitività sul mercato globale.
E’ anche una strategia per rendere meno significative le differenze sui prezzi applicati dal mercato interno cinese, attraverso l’incentivazione dei consumi. Il Governo ha considerato l’altro piatto della bilancia, ossia una perdita di quota considerevole nel mercato interno, ma l’intervento è giustificato in termini di stimolo verso una maggiore competitività: le Case automobilistiche cinesi saranno incentivate a migliorare la qualità dei veicoli prodotti, dato che i risultati attuali non sono certo eccellenti, non sicuramente in grado di competere con i migliori marchi esteri.
E’ certo un segnale di apertura, interpretato nel migliore dei modi dall’Unione europea, che ancora attende una risposta circa l’esenzione dei dazi su acciaio e alluminio, richiesta all’Amministrazione Trump; situazione temporaneamente sospesa, anche se negli ambienti di Bruxelles circola un po’ di ottimismo al riguardo. Sarà perché anche sugli Usa incombe l’ombra di una ritorsione commerciale, qualora si dia seguito all’imposizione delle nuove tariffe in ambito Ue.
Decisive per le relazioni commerciali tra i due blocchi, le trattative che avranno luogo nelle prossime settimane.
DI VIRGINIA MURRU
Nonostante il Fmi cerchi di rendere meno amari per l’Italia i dati del “Regional Economic Outlook per l’Europa”, la situazione della nostra economia, anche alla luce delle vicende politiche legate alle ultime consultazioni elettorali, non sono edificanti. La produttività del lavoro è cresciuta solo dell’1%, dal 2002, un dato che fa riflettere, per il Fondo è quasi un monito.
Si avverte uno stato di allerta ovunque, la stampa internazionale sembra in fibrillazione per l’asse politico Movimento 5 Stelle-Lega Nord. Il Financial Times, (editoriale di ieri) parla di questa ‘pariglia’ della politica italiana come dei “nuovi barbari dentro i palazzi romani”. Il clima è già ostile, e questo non è un buon viatico per l’avvio delle attività del nuovo governo. Il quotidiano londinese rincara poi la dose:
“In Italia prende il potere il governo più inesperto che sia mai andato alla guida di una democrazia europea, a partire dalla firma dei Trattati di Roma”.
Se la fiducia sul nuovo governo fosse, per pura ipotesi, passata nelle mani delle maggiori Organizzazioni internazionali, stampa e Ue compresa, difficilmente avrebbe avuto il passaporto per governare.
Nonostante questo clima ostile, il Fmi, per quel che concerne le riduzioni degli Npl in ambito europeo, sostiene che l’Italia, insieme a Spagna e Irlanda risulta tra le più virtuose. Il Fondo riconosce gli sforzi compiuti per alleggerire gli Istituti di credito, tanto che la situazione è ormai nettamente migliorata. Le conseguenze positive si ritrovano sull’aumento del credito bancario al settore privato.
Il Fmi sottolinea tuttavia che, per una parte rilevante del sistema bancario, risulta poco soddisfacente la profittabilità, nonostante la ripresa economica. Alla base vi sono problemi di carattere strutturale, almeno per quelle banche che risultano meno efficienti a livello redditizio, le quali non incoraggiano per questa ragione gli investitori.
Nell’Outlook, il Fmi, esprime preoccupazione per le incertezze politiche e l’instabilità derivante dai nuovi governi eletti in diversi paesi europei, e non nasconde i rischi che la Brexit ancora rappresenta; il Regno Unito ha sempre avuto un complesso sistema finanziario, con ovvi legami all’economia globale. Uscire dal mercato unico potrebbe innescare meccanismi al momento difficilmente prevedibili. Ora, secondo gli studi del Fondo, se ne percepiscono comunque i rischi. E ancora riferimenti si leggono sul pericolo derivante dal protezionismo e la politica sui dazi dell’Amministrazione Trump.
Nel rendiconto ci sono poi i consueti riferimenti alla crescita economica della zona euro, al riguardo si confermano le stime del World Economic Outlook diffuso nel mese di aprile a Washington.
Si accenna appena al fatto che gli indicatori stanno segnalando qualche lieve rallentamento nell’area, nonostante questo non si intravedono pericoli seri, e il grado di crescita “resta solido”. Le previsioni sulla crescita, per l’anno in corso (area euro), vanno al 2,6%, mentre nel 2019 ci sarà una flessione, e la crescita si attesterà sul 2,2%. Il remark che dovrebbe tranquillizzare viene tuttavia dal trend di crescita positiva rilevato negli ultimi 19 trimestri, supportato da un’espansione economica diffusa , e un aumento degli indici di occupazione, investimenti e consumi, nonché ricchezza delle famiglie, in molti casi andati oltre i target.
E si arriva poi all’analisi più critica per i paesi che ancora oggi presentano un alto grado d’indebitamento, sempre in area euro. Nonostante il supporto del Qe, verso il quale il Presidente Mario Draghi è sempre prudente, i paesi che presentano criticità nei conti pubblici – qualora la politica monetaria diventasse meno accomodante – potrebbero affrontare d’ora in avanti costi di finanziamento più elevati. Tutto questo davanti ad un bilancio per il quale poco è stato fatto, così come in termini di riforme strutturali.
Nel “Regional Economic Outlook per l’Europa”, il Fmi conferma le previsioni già espresse per l’Italia: il Pil si confermerà all’1,5% nel corrente anno, ma subirà una riduzione nel 2019: ossia l’1,1%.
Sul piano europeo, il Fondo auspica che la politica monetaria della Bce non subisca variazioni che possano avere conseguenze nel trend di crescita dell’Eurozona, nonché sull’inflazione, uno dei principali problemi dell’Eurotower.
Nelle sue previsioni, il Fmi, elogia Cipro, risollevatasi dalla grave crisi e recessione del 2013, che ebbe come conseguenza “l’incursione” nel sistema bancario del bail-in, applicato in modo ‘forzato’, oggi viaggia sul versante economico a vele spiegate.
La ripresa dell’isola è stata rapida, tra le migliori dell’area euro, nel volgere di pochi anni. Ormai si accingono a superare l’Italia in termini di crescita, sono considerati più ricchi, secondo gli studi del Fondo, dato che nella tabella relativa al Pil pro capite, i ciprioti (nel 2020) supereranno gli italiani. E non si tratta di una partita di calcio, dove una squadra blasonata subisce una sonora sconfitta da una formazione di periferia. Ma del resto ci aveva già superato anche Malta pochi anni or sono.
Una batosta in più o in meno.. Ma il problema è che siamo già stati surclassati dalla Spagna, e non basta ancora. Secondo l’Outlook, e le previsioni per il prossimo quinquennio del Fondo, nel 2022 passeranno davanti all’Italia, ossia alla seconda potenza industriale europea (sempre in termini di reddito pro capite), Lituania, Repubblica Slovacca e Repubblica Ceca.
DI VIRGINIA MURRU
DI VIRGINIA MURRU
Il Consiglio Direttivo della BCE, nell’ultima riunione del 26 aprile, non ha deciso interventi di rilievo rispetto al mese scorso, tuttavia, l’analisi dei dati macroeconomici ha evidenziato una fase di rallentamento nell’attività economica e dunque nella crescita, nonostante, in generale, l’economia dell’Eurozona rifletta una rassicurante “tenuta”. Lo afferma poi anche Draghi nella conferenza stampa: “crescita più moderata”.
E aggiunge:
“Necessari ancora stimoli, l’inflazione, la grande assente del sistema (con il mancato raggiungimento del target 2%), non consente al momento cambiamenti rilevanti nella politica monetaria. Il protezionismo è una seria minaccia per la crescita dell’economia in area euro.”
Una stasi dunque, dopo diversi trimestri all’insegna dello sviluppo e della crescita, andati oltre le stime.
In questo quadro che proietta nuovi scenari, emerge il calo rilevato negli indici di fiducia, la contrazione dei dati concernenti il settore manifatturiero, il balzo dei prezzi degli energetici. Segnali che prospettano altre direttive, ma i vertici della BCE hanno scelto di attendere nuovi sviluppi prima d’intraprendere iniziative e interventi relativi alla ‘virata’ rilevata nei dati macro riguardanti l’Eurozona.
L’impressione di esperti e analisti, che hanno seguito con attenzione i comunicati e la conferenza stampa del Presidente Mario Draghi, è che la BCE non intende apportare revisioni al costo del denaro, e pertanto resteranno fermi i tassi d’interesse sui movimenti di rifinanziamento principali, su quelli marginali e sui depositi, la cui stabilità si conferma rispettivamente sullo 0,00%, lo 0,25% e -0,40%.
Non verrà modificata la politica monetaria, e l’acquisto di asset andrà avanti al ritmo già annunciato da mesi, ossia di 30 mld al mese fino al prossimo settembre. “Ma anche oltre, qualora necessario” – ha aggiunto Mario Draghi – il Board procederà al reinvestimento del capitale dei bond giunti a scadenza per un periodo lungo dopo la fine degli acquisti netti”.
Si attenderanno pertanto le proiezioni economiche del mese di giugno, prima di operare scelte sulle misure relative al Qe.
DI VIRGINIA MURRU
L’Antitrust europea ha aperto un’indagine sul prestito di 900 milioni, concesso dallo Stato ad Alitalia nel 2017
Che fossimo perennemente nell’occhio del ciclone (Ue) non è una novità, di tanto in tanto, qualora vi fossero dubbi, arrivano le conferme: questa volta nel mirino c’è Alitalia, e il “prestito ponte” concesso dallo Stato lo scorso anno.
L’indagine è stata avviata e la Commissione europea intende vederci chiaro sui tempi relativi alla concessione del prestito, e le condizioni riservate all’ex compagnia di bandiera italiana.
Così si è espressa in merito la Commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager:
“La Commissione europea deve vigilare e garantire che i prestiti concessi dagli Stati membri rispettino le norme vigenti dell’Ue in termini di aiuti di Stato”. E’ nostro compito verificare che il prestito concesso ad Alitalia rientri nel rispetto delle norme approvate dall’Unione.”
Nel 2017 il governo italiano, considerata l’emergenza finanziaria che Alitalia stava affrontando, risolse d’intervenire con il cosiddetto “prestito ponte” di 900 mln, dei quali peraltro, la compagnia, secondo i rilievi dell’Amministrazione straordinaria, ne ha utilizzato solo una parte. In ogni caso, non hanno torto coloro che sostengono che l’Ue usi nei confronti dell’Italia una spessa lente d’ingrandimento, mentre paesi come la Germania e altre solide economie europee, abbiano trasgredito in modo ben più pesante.
Deutsche Bank e Commerzbank (tanto per fare qualche esempio), pilastri della finanza ed economia tedesca, che hanno rischiato il default (ma ritenute ‘too big to fail’, con un bilancio simile al Pil italiano..), hanno usufruito di aiuti di Stato consistenti, che hanno suscitato a suo tempo non poche polemiche.
Certamente,l’articolo 107 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFEU), è stato violato più di una volta.
Nella struttura solida dell’economia tedesca, ci sono controsensi piuttosto singolari, visto che il sistema bancario si è rivelato uno dei più fragili, sorretto dal lungo braccio dello Stato, soprattutto nel corso dell’ultima crisi economica che ha interessato l’Europa. Lo Stato ha contribuito con somme consistenti per il salvataggio di grandi istituti di credito, ‘elargendo’ più o meno 200 miliardi di euro, rilevando titoli tossici, permettendo aumenti di capitali e intervenendo nei Land anche in settori diversi (comparti industriali) da quello bancario.
Non si tratta di importi approssimati, sono resoconti della Commissione europea, ed equivale al 7% del Pil della Germania.
Ma lo Stato, in Germania, con la sua mano provvidenziale, è andato ben oltre, si arriva a quasi 500 mld di euro, se si aggiungono garanzie statali, offerta di liquidità: ossia il 17% della ricchezza prodotta dalla nazione. Un sistema creditizio, insomma, che senza la protezione dello Stato, avrebbe certamente messo in crisi il sistema, e fatto crollare tante certezze. Sono fatti, non pressappochismi, perché avvicinando l’osservatorio un po’ di più, si conclude che un terzo del sistema creditizio tedesco è al riparo, grazie al paravento dei mezzi pubblici. E si sottraggono anche i conti reali alla vigilanza della BCE.
E allora perché sempre tanto rumore per le ‘trasgressioni’ in Italia, che ha fatto ricorso ai fondi Ue molto meno rispetto ad altri paesi membri? Due pesi e due misure? L’impressione è questa, ma tant’è: quando si punta il dito su presunte o reali violazioni della normativa europea, ci si può solo difendere.
Se poi si pensa che la Commissione si è decisa ad agire, perché concorrenti di Alitalia, hanno esercitato non poche pressioni (non si tratta propriamente di ‘cecchini’, si sarebbero mosse in merito Ryanair e Lufthansa), si comprende che lo sdegno non è puro vittimismo. Il fine, per chi conosce trama e ordito delle vicende Alitalia, sarebbe proprio quello di condizionare le strategie dell’Amministrazione straordinaria, e indurre ad accelerare la vendita della Compagnia, o meglio la ‘svendita’.
Tutto questo, nonostante le dichiarazioni del CUB- Trasporti (il 4 aprile scorso), il quale ha confermato che il trasporto aereo risulta in crescita, e l’ex Compagnia di bandiera, nonostante le difficoltà, ha costi bassi di gestione, forse i più bassi rispetto alla concorrenza. Sempre in rapporto alle regine europee del trasporto aereo, avrebbe anche una produttività superiore, per esempio a quella Lufthansa.
Questo, in teoria, dovrebbe escludere l’ascia dei tagli del personale. Ma purtroppo le logiche e le dinamiche di queste scelte, sono altre.
Proprio ora che iniziano i mesi in cui più intenso è il traffico aereo, e mentre nulla si sa di preciso sul nuovo Piano industriale della compagnia, la scure cade impietosa sul versante occupazionale, e si conferma pertanto la decisione di tagliare quasi 1500 posti di lavoro. Ossia quello che chiede Lufthansa per il risanamento della compagnia, e per portare a buon fine la sua offerta.
I licenziamenti saranno resi meno drammatici dall’assegno di ricollocazione per i dipendenti a ‘0’ ore.
Lo chiamano già ‘l’accordo infame’, quello che ieri le tre maggiori confederazioni sindacali hanno sottoscritto al Mise, guarda caso proprio ieri l’indagine Ue è stata ufficialmente avviata, mentre dietro le quinte gli avvoltoi attendono di avventarsi su un ‘boccone’ ancora ritenuto eccellente nel mercato del trasporto aereo.
Ci si insinua in una fase delicata della politica italiana, alle prese con tentativi (sempre falliti) di accordi politici validi e altri improbabili, per esercitare maggiore pressione sulla vicenda Alitalia, spingere e accelerarne la vendita, certamente non nell’interesse della Compagnia italiana.
Le polemiche sui tagli hanno un loro logico fondamento: perché ridurre i dipendenti se la compagnia viaggia con correnti favorevoli in termini di redditività, il traffico merci e passeggeri è in continua crescita, già si annuncia una stagione estiva record e un trend in continuo progresso?
Queste sono le perplessità sulle decisioni prese dal ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, e dalle parti sociali.
Da Calenda che ha risolto negli ultimi mesi situazioni roventi di aziende minacciate di chiusura, mentre la questione Alitalia si è affrontata in modo apparentemente paradossale. Un anno fa, i lavoratori, tramite referendum, si opposero al Piano di ristrutturazione, i soci non la sostennero più con ulteriori mezzi, e così si aprì la strada dell’Amministrazione straordinaria di Gubitosi e gli altri Commissari. Commissari che hanno poi avviato una procedura d’offerta, con vicissitudini sempre incerte, e tutt’ora ancora nulla è stato deciso sul possibile acquirente.
Basterebbe analizzare i numeri, anche sulle rotte a lungo raggio, per concludere che nei prossimi mesi il traffico aereo è proiettato verso un chiaro aumento del numero di passeggeri.
Vi sono enigmi sulle scelte di questi licenziamenti certamente non chiare, alla luce dei fatti, gli interrogativi sono tanti e c’è chi auspica, per una tutela più certa, la nazionalizzazione. Il 30 aprile scadrà l’intervento della Cassa Integrazione Straordinaria, della quale ha beneficiato la Compagnia, che ad oggi è ancora controllata per il 51% dalla Compagnia Aerea Italiana (CAI), e per il restante 49% da Etihad.
Intanto, nei giorni scorsi, la Compagnia e i sindacati hanno firmato un verbale nel quale si prevede il rinnovo della Cassa integrazione straordinaria, per ulteriori 6 mesi, ossia fino alla fine di ottobre.
Il prestito concesso dal governo ad Alitalia, è stato notificato a Bruxelles all’inizio del corrente anno, e giustificato come “aiuto di salvataggio”, anche se fin da subito, in ambito europeo, vi sono stati dissensi simili a tiri al bersaglio. Si è sostenuto che il prestito viola le norme europee sulla disciplina che riguarda gli ‘aiuti di Stato’.
La Commissione europea contesta in particolare i tempi di durata del prestito e la sua entità, stabiliti dal maggio 2017 fino al dicembre del corrente anno, e dunque, in linea di principio, si sarebbe violata la norma Ue che fissa con un massimo di 6 mesi la durata del prestito a garanzia del salvataggio.
Sarà pertanto la Commissione ad ‘arbitrare’ la questione, c’è solo da sperare che l’Italia riesca a dimostrare di non avere violato le norme europee, non più di altri Stati membri che, al riguardo, hanno un “dietro le quinte” non propriamente ortodosso.
DI VIRGINIA MURRU
I Commissari Straordinari di Alitalia si accingono ad esaminare le 3 offerte recapitate presso lo studio notarile Atlante Cerasi di Roma; nel mettere al vaglio le proposte di acquisto, Alitalia sta per scrivere l’ennesimo capitolo nella storia infinita di una crisi che dura ormai da decenni.
All’esame dei Commissari l’offerta di Lufthansa, la più prestigiosa ma anche quella più problematica, viste le condizioni che fin dall’inizio ha posto per l’acquisizione dell’ex compagnia di bandiera italiana. Interessata all’acquisto dell’aviolinea in amministrazione straordinaria, c’è anche la compagnia low cost EasyJet, in alleanza col Fondo americano Cerberus e Delta. Vi sarebbe poi una terza offerta proveniente da una compagnia ungherese, Wizzair, interessata comunque a rotte di breve e medio raggio. Si è anche parlato di un’offerta tutta italiana, che avrebbe la garanzia finanziaria della Cassa Depositi e Prestiti, ma nulla vi è di certo al riguardo.
Oggi si incontreranno i ministri competenti, per un’analisi delle tre offerte arrivate nello studio notarile romano. Ieri alle 18 scadevano i termini per la presentazione di un’offerta vincolante.
La compagnia EasyJet è stata quella più esplicita riguardo agli intenti contenuti nell’offerta, dichiarando di avere presentato un’altra manifestazione d’interesse, ma in quanto componente di un consorzio, del quale pare faccia parte anche Air France-Klm; tuttavia non vi sono ulteriori dichiarazioni in merito, ogni offerta è coperta dal riserbo.
Lufthansa, intanto, conferma l’orientamento del suo interesse verso la compagnia italiana, ossia la proposta di una “New Alitalia Airlines” ristrutturata, con l’attuale assetto il colosso tedesco volterebbe le spalle ad una possibile intesa. Con le premesse di una ristrutturazione, Lufthansa, potrebbe aprire un tavolo di trattativa, del resto il mercato italiano è sempre stato allettante per i tedeschi.
Nulla di definitivo comunque, l’orizzonte della vendita è ancora piuttosto nebuloso, e la prospettiva di un rinvio sembra l’ipotesi più probabile, la strada più percorribile. Il 30 aprile è il termine entro il quale potrebbe essere emanato, molto verosimilmente, il decreto di proroga. Se non interverranno fatti veramente decisivi, ad oggi sembra l’unica scelta perseguibile.
Qualora si seguisse questa via di cautela, le conseguenze più dirette sarebbero il ricorso agli ammortizzatori sociali, e pertanto, dopo relativa richiesta trasmessa dalla compagnia, dovrebbe estendersi la Cigs (Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria) per altri 6 mesi, ossia fino alla fine di ottobre, per circa 1.700 dipendenti, dei quali 90 sono comandanti, 1230 addetti e 360 fly assistants.
L’ex compagnia di bandiera italiana ha compiuto 70 anni, ed è difficile preconizzarne il futuro, alla luce della crisi di oggi. Potenzialmente è un brand che rappresenta il prestigioso stile italiano, in grado di tornare competitiva, di sapersi distinguere e andare avanti con autorevolezza sul mercato globale – diventato poco meno di una giungla – se guidata da un’amministrazione lungimirante e competente.
Purtroppo i guai per Alitalia sono cominciati già nei primi anni ’90, da allora è stato un procedere in caduta libera per quel che riguarda l’accumulo di perdite e rosso in bilancio. Secondo uno studio di Mediobanca, si stima che a partire dal 1974 fino al 2014, l’ex compagnia di bandiera abbia bruciato soldi pubblici per un importo pari a 7,4 mld di euro. Risorse perse nel nulla, in tentativi falliti di ripresa.
Nel 2008 la compagnia risvegliava l’orgoglio nazionale, e diventava l’emblema del “made in Italy” da difendere a tutti i costi, soprattutto dalle mire della compagnia d’oltralpe, Air France. Suonava come un’umiliazione, e Berlusconi ne fece un tema della sua campagna elettorale.
In seguito, il sodalizio con Abu Dhabi e la compagnia Etihad, non ha rappresentato la svolta che tanto si era sperata, nonostante il 49% dell’azionariato e un orizzonte che sembrava luminoso e florido. Fallito anche questo tentativo di riportarla in piedi. Entro quest’anno la sua sorte potrebbe essere decisa dalle scelte delle autorità che stanno cercando di venire a capo delle sue disavventure finanziarie.
La scelta delle “carte giuste” potrebbe farla decollare definitivamente. Per ora il futuro è più che mai incerto.
DI VIRGINIA MURRU
Altro monito della Commissione europea all’Italia: “E’ necessario attenersi ai target di bilancio, e nel contempo ridurre deficit e debito pubblico”.
Un sermone che purtroppo è diventata intercalare fissa nei rapporti tra l’Italia e la Commissione europea, mai convinta, quest’ultima, che i conti pubblici del nostro paese rispettino i parametri. Per questo il vice presidente Dombrovskis, regolarmente, tiene a ricordare che i ‘deragliamenti’ nei conti ci sono ed è necessario rispettare le regole. Pungolate quasi mai condivise, per la verità, dal governo italiano, in particolare dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.
La Commissione europea insiste sugli interventi strutturali da attuare nel budget, miglioramenti che sono del tenore dello 0,3% del Pil. Le correzioni sui conti pubblici non possono prescindere dalla riduzione del deficit e del debito, il rispetto dei target in materia sono vincolanti.
Secondo la Commissione, infatti, si tratta di passi decisivi e dovuti, diretti a mettere ordine nel bilancio con interventi incisivi, e non approssimazioni.
Bruxelles riconosce i notevoli passi avanti compiuti dal Paese negli ultimi anni in termini di crescita economica, ma esiste la voragine dei conti che deve nostro malgrado confrontarsi con lo standard degli altri paesi, più disciplinati nei confronti dei parametri fissati dal Trattato di Maastricht.
Dombrovskis fa sentire la sua voce tramite un’intervista rilasciata al Tg5, in occasione della sua partecipazione al Workshop Ambrosetti, che si è tenuto come di consueto a Villa d’Este, con una vasta rappresentanza del mondo economico e politico. All’apertura dei lavori della ventinovesima edizione (sessione intitolata “Lo scenario dell’Economia e della Finanza”), Valerio de Molli (managing partner e Amministratore Delegato di ‘The European House-Ambrosetti), ha introdotto il meeting con queste eloquenti parole:
“Crescita e debito: ossimoro o sfida impossibile? Come crescere malgrado la zavorra pesante del debito pubblico”.
Il ‘pulpito’ è tra i più prestigiosi a livello internazionale, “The European House-Ambrosetti” è stata riconfermata, per il 5° anno consecutivo, il primo Think-Tank privato italiano (“nella top 10 europea e tra i primi 100 indipendenti su quasi 7mila censiti sul piano globale). Il riconoscimento viene da un’Autorità internazionale indiscussa, che vigila in questo ambito: The University of Pennsylvania.
Ci si può muovere dunque in termini di crescita, nonostante il debito pubblico sembri inamovibile alla stregua di una montagna, eppure si potrebbero mettere in qualche modo le ruote a questa montagna. Ma in definitiva non è quello che il governo uscente ha fatto per quasi quattro anni?
I nodi restano comunque, e si portano al seguito le poco edificanti richieste di conformità e ‘compliance’ esatte regolarmente dall’Ue, e mai veramente soddisfatte, secondo la Commissione.
Se il governo, com’è probabile, fosse formato dai partiti di destra, è già certa l’insofferenza verso le richieste di Bruxelles, euroscettici quali sono sempre stati. Le relazioni con le autorità dell’Unione potrebbero col tempo risentirne, creando disagi e complicazioni, che davvero non mancano al Paese. Il leader della destra, Matteo Salvini, ha già sbottato al riguardo. Risponde alla maniera di Trump, il rappresentante della Lega Nord: ‘prima viene il benessere degli italiani, poi le regole europee’.
Un governo, quello italiano, ancora tutto da decidere e formare, ancorato a prese di posizione, arretramenti e orgogli, che in questo momento non servono a risolvere le questioni più urgenti. Intanto Gentiloni ha rimandato la pubblicazione del Def, mentre il Presidente Mattarella cerca di rendere più agevole la strada delle intese, così piene di ostacoli che non ne facilitano il transito.
Da Bruxelles. Intanto, fanno sapere che le valutazioni sugli interventi richiesti al governo saranno fatte tra qualche mese. Dichiara Dombrovskis:
“Il governo uscente presenterà il Def basato su uno scenario politico immutato, mentre spetta al nuovo esecutivo avviare un nuovo approccio”.
DI VIRGINIA MURRU
DI VIRGINIA MURRU
Il percorso verso la Brexit è già di per sé travagliato e irto di ostacoli, i colpi di scena non sono certo mancati. Nello stesso Regno Unito, sul finire del 2016, si è messa in discussione la legittimità costituzionale nella procedura da seguire per l’uscita dall’Ue, se n’è occupata poi la Corte Suprema, la quale ha dato ragione ai sostenitori del ‘Remain’: necessaria l’autorizzazione del parlamento, per l’approvazione dei vari step durante i negoziati con l’Unione.
Le sorprese, tuttavia, non sono finite. Quest’anno, nell’”easter egg”, c’era qualcosa di più rilevante: lo scandalo emerso in seguito alle rivelazioni di Christopher Wylie, 28 anni, cofondatore di Cambridge Analytica, società legata da contratto di collaborazione a Facebook.
L’informatore, ora ex dipendente della società londinese, ha fornito gli estremi per un’inchiesta giornalistica, che ha contribuito a portare a conoscenza degli utenti europei e americani, la violazione della privacy su circa 50 milioni di profili Facebook.
Intanto, Wylie, ha reso testimonianza davanti al parlamento inglese, tramite la Commissione Affari interni della Camera dei Comuni. L’informatore ha riferito delle strategie illecite e truffaldine adottate dal gruppo ”pro Brexit’’, volte a portare avanti il progetto di abbandono dell’Unione Europea, durante la campagna referendaria di due anni fa.
Le sue affermazioni sono state poi confermate anche da un altro testimone.
Wylie ha denunciato pubblicamente quello che è accaduto, perciò il whistleblower è stato definito “gola profonda e genio dislessico”, di un caso diventato clamoroso a livello internazionale, che non si è esaurito né è destinato a dissolversi come un semplice polverone mediatico.
Vi sono ripercussioni, in ciò che il giovane scienziato ha rivelato, che riguardano l’orizzonte politico, nell’ampio spettro d’azione che ha interessato eventi fondamentali nell’assetto interno e internazionale, quali l’esito del referendum sulla Brexit e l’elezione del presidente degli Usa, Donald Trump.
Cambridge Analytica ha seguito entrambe le campagne elettorali, con precisa attività di propaganda, sia in favore della Brexit che di Trump.
Le consultazioni elettorali sarebbero state in qualche modo ‘dopate’ da condizionamenti favoriti dall’uso illecito dei dati ‘trafugati’ agli ignari utenti facebook. Dati manipolati allo scopo d’indirizzare le intenzioni di voto in una direzione ben precisa: nel caso del referendum avvenuto nel giugno del 2016 in Gran Bretagna, verso la Brexit, mentre negli Usa, l’influenza sulla libera scelta di voto, doveva favorire proprio l’attuale presidente in carica. Extrema ratio di chi intendeva imburattinare la volontà popolare, e la libera espressione del voto, orientandone gli intenti nella direzione voluta.
“Missione compiuta” per Cambridge Analytica, ma a volte, per dirla con un luogo comune, il diavolo dimentica poi di fare i coperchi per le oscure manovre architettate dietro le quinte. In fin dei conti, questi sopraffini interventi di manipolazione degli elettori, vanno a scapito della libertà individuale, diritto che dovrebbe essere sacro e inviolabile, ma a quanto pare neppure i diritti fondamentali di una costituzione sono a “prova di scasso”.
L’acquisizione dei dati riguardanti circa 50 milioni di utenti Facebook da parte di Cambridge Analytica UK (società di consulenza con sede a Londra, si occupa di elaborazione e analisi di dati nel corso di una campagna elettorale), avveniva, secondo Wylie, tramite una società collegata (Aggregatelq), che permetteva l’accesso ai profili facebook .
Ma in che modo gli elettori, tramite il social, venivano influenzati nelle scelte elettorali?
Si analizzavano i dati che li riguardavano, le preferenze, e si influenzavano attraverso messaggi mirati, questa la strategia psicologica adottata per ‘dirottare’ il voto. Una sorta di ‘broglio-imbroglio’.
Ma non è tutto. Pare siano state violate le leggi di finanziamento stesso della campagna elettorale sulla Brexit, tramite trasferimento di donazioni tra associazioni ‘pro Leave’, e dunque favorevoli alla fuga dall’Ue. Secondo le indagini in corso, è stato superato il budget massimo consentito dalla legge britannica ai finanziamenti della propaganda elettorale. Una truffa ordita dai ‘ Vote Leave’.
Wylie è esplicito su questo punto: l’esito del referendum, senza questi espedienti poco ortodossi, sarebbe stato diverso.
Tutto un sottobosco di intenti ed azioni volte a influenzare l’esito del voto. Esistono le prove, ora l’onere di illuminare a giorno queste trame ordite all’insaputa dell’elettorato, sarà della Giustizia britannica. Il Ceo Mark Zuckemberg, intanto, invitato ad una audizione dal parlamento britannico, si è disimpegnato e ha autorizzato alcuni suoi collaboratori a rendersi disponibili.
Il giovanissimo amministratore delegato di Facebook, pungolato anche dal Senato americano, e invitato a rispondere delle responsabilità del social network davanti alla Commissione Commercio, ha deciso di presentarsi. In questa sede dovrà rispondere della violazione delle norme sulla privacy, sui dati riguardanti i profili di milioni di utenti. Anche in questo caso, si aveva accesso alle preferenze politiche, e con strategie di propaganda e messaggi mirati, nel corso della campagna elettorale, si cercava d’indirizzare il voto nella direzione voluta.
Wylie, ex dipendente di Cambridge Analytica, intervistato, al riguardo, sostiene:
“Come si fa a dire che comunque, anche senza questi risultati condizionati, l’esito sarebbe stato quello che è poi emerso, sia in Gran Bretagna che negli Usa? Se dopo una prestazione sportiva, in seguito ai controlli anti-doping, si riscontra che un atleta ha fatto uso di droghe, gli si prende la medaglia, e non si sta a pensare se il risultato, nonostante tutto sarebbe stato il medesimo. Così dovrebbe essere quando accadono eventi di carattere elettorale pilotati o illecitamente influenzati: si annullano.”
E aggiunge: “non è uno scherzo, la Brexit ha prodotto fondamentali cambiamenti di carattere costituzionale nel Regno Unito.”
Gina Muller, imprenditrice inglese, che aveva già messo in discussione, sul finire del 2016, la legittimità della procedura relativa alla Brexit, (convinta ‘Pro Ue’, aveva perorato la causa di chi voleva che fosse il parlamento inglese a pronunciarsi tramite il voto, sull’iter da seguire per l’uscita dall’Ue), esulta, e invoca un nuovo referendum, con maggiore vigilanza sui finanziamenti.
Facile a dirsi, non saranno dello stesso avviso né i conservatori britannici né quelli americani. A proposito di conservatori, uno dei due fondatori di Cambridge Analytica, è Robert Mercer, finanziere, magnate e ombra discreta di Trump (più che mai durante la sua campagna elettorale), sostenitore di tante iniziative politiche conservatrici.
Cambridge Analytica, su cui Mercer ha investito milioni di dollari, ha ovviamente diverse ‘succursali’ negli Stati Uniti, e ha seguito la campagna elettorale di Donald Trump, non è difficile concludere che le rivelazioni di Wylie siano più che verosimili a questo punto.
Anche l’Ue, tramite il Commissario alla Giustizia, ha chiesto, entro due settimane, chiarimenti a Facebook sull’uso improprio dei dati personali di milioni di cittadini europei. Ma non finisce qui.
Wylie, esperto di analisi dei dati, non per nulla è stato apostrofato con l’epiteto ‘gola profonda’. Egli ha fatto cenno ad un altro Stato nel mirino di Cambridge Analytica: l’Italia..
Ma è solo un cenno, non svela altro, anche se è difficile credere che le sue conoscenze al riguardo non vadano oltre.
“La società ha lavorato per alcuni partiti politici – sostiene – ma non so quali siano. So solo che c’era un italiano che lavorava con Cambridge Analytica, era il collegamento con l’Italia, ma non conosco il nome.”
Intanto la procura di Roma ha dato il via alle indagini, in seguito ad un esposto presentato da Codacons, Associazione dei consumatori che intende portare avanti un’azione di tutela nei confronti dei circa 30 milioni di italiani iscritti al social Facebook. L’esposto è stato trasmesso a ben 104 Procure in Italia, oltre che al Garante della Privacy, al fine di verificare se siano stati commessi illeciti proprio sul piano della privacy in territorio italiano.
Negli Usa non sono meno zelanti in proposito, già avviata una class action, con relativa azione legale, contro Facebook, i cui estremi sono stati presentati presso la Corte Distrettuale di S. José, in California.
DI VIRGINIA MURRU
Secondo l’indagine condotta dagli analisti di Bankitalia sui bilanci delle famiglie, l’economia italiana in generale è migliorata, sia pure in un ambito di “work in progress”, e infatti le rilevazioni sul reddito medio delle famiglie, nel 2016, danno un riscontro di +3,5% (rispetto alla precedente rilevazione del 2014).
Può essere considerato un buon risultato se si pensa che dal 2006 i dati al riguardo sono stati in calo costante.
Nel contesto di una fase congiunturale di ripresa e consolidamento, seguita a quella recessiva rilevata negli anni più duri della crisi, è un dato incoraggiante, anche se ancora distante dell’11% dai livelli di reddito nel periodo precedente la crisi economica (iniziata nel 2008).
Dall’analisi di Bankitalia, sul reddito medio delle famiglie, risulta comunque che la crescita non ha riguardato tutti. Il quadro è tutt’altro che omogeneo in questo versante: emerge disuguaglianza (prossima ai livelli di fine anni ’90), ossia emerge dai bilanci delle famiglie, che la fascia di individui con reddito equivalente inferiore al 60% di quello mediano, ha raggiunto il picco storico del 23%, nel 2006 era del 19,6% (questa è la soglia che permette l’individuazione del ‘rischio povertà’, in riferimento al 2016, quando il ‘corrispettivo’ in termini di entrate era di 830 euro mensili). In sintesi un italiano su quattro percepisce meno di 830 euro al mese.
Se l’analisi si estende agli immigrati questa condizione precaria va a raggiungere il 55% (era nella precedente indagine al 34%), il dato (calcolata con i metodi che individuano il rischio povertà) è piuttosto critico anche al nord, le cui fasce interessate sono al 15% (erano poco sopra l’8%). Risultano più a rischio dunque gli stranieri, i giovani, chi vive al sud, gli individui poco istruiti, e con loro anche i nuclei familiari dei quali fanno parte. In condizione di svantaggio i nuclei con capofamiglia giovani.
Negli ultimi 10 anni, il grado di disuguaglianza, misurato con il coefficiente di Gini (che misura la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza di una popolazione), è salito dell’1,5%. A conforto di queste rilevazioni c’è il riscontro che riguarda la quota di famiglie indebitate, il cui indice si è ridotto del 21%. Il valore mediano del rapporto tra l’ammontare dei debiti delle famiglie e il reddito, è calato al 63%, notevole, se si considera che nel 2012 si era registrato un picco pari all’80%.
Gli squilibri prendono in considerazione anche il livello di ricchezza, e secondo i dati sono in calo sia quella media che la mediana. Il focus sul rischio povertà nel 2016 era allarmante: ha riguardato una famiglia su quattro.
Secondo il comunicato di Bankitalia, concernente l’indagine degli analisti, la ricchezza netta media e quella mediana, sono calate rispettivamente del 5% e 9%, a prezzi costanti. Come è stato rilevato al riguardo anche in passato, il calo ha proiettato, quasi per intero, il crollo dei prezzi delle case.
Bankitalia conduce le indagini sui bilanci delle famiglie italiane (IBF), su base campionaria, metodo applicato e in uso a partire dagli anni ’60. Il fine “è quello di raccogliere informazioni sui redditi e i risparmi delle famiglie italiane”. E infatti sulle motivazioni dell’indagine, in uno dei primi rapporti pubblicati dalla Banca d’Italia, si legge:
“L’importanza economica che rivestono le famiglie nel nostro sistema, così come nella maggioranza di quelli ad economia di mercato, appare evidente ove si consideri che esse possiedono direttamente o indirettamente la quasi totalità della ricchezza nazionale, percepiscono quasi tutto il reddito nazionale e da esse provengono, attualmente in Italia, circa i tre quarti della domanda globale interna.
Anche dal punto di vista finanziario il peso delle famiglie è notevole, dando esse origine a una parte sostanziale dei flussi finanziari e possedendo una quota notevole della ricchezza mobiliare”.
Gli analisti hanno poi portato avanti una serie di ricerche campionarie sul reddito, il risparmio e il consumo delle famiglie italiane, al fine di stimare queste grandezze e di acquisire le conoscenze necessarie all’elaborazione dei dati.
Col tempo è aumentato l’oggetto della rilevazione, esteso per esempio al livello di ricchezza, e aspetti legati ai comportamenti economici e finanziari delle famiglie (come l’utilizzo dei mezzi di pagamento). La ricerca ha seguito un’evoluzione in questo ambito, e in sintonia con lo svolgimento delle competenze istituzionali (della Banca d’Italia), si sono portate avanti ulteriori raccolte di dati, seguite da produzione e pubblicazione d’informazione statistiche.
DI VIRGINIA MURRU
A Bruxelles si stanno per affrontare alcune tematiche importanti in questa fase di transizione politica per l’Italia, in primis si discuterà di Unione Bancaria, ma non meno rilevante sarà la questione del bilancio comunitario, relativo al 2021/2027.
La partecipazione al vertice europeo del 22/23 marzo, sarà l’ultimo impegno in ambito Ue del premier uscente Paolo Gentiloni, e tuttavia, in questo passaggio di consegne politiche delicato, i paesi membri potrebbero attendere l’insediamento del nuovo governo per affrontare materie così delicate come l’Unione bancaria.
Non sembra auspicabile che si possano prendere risoluzioni senza la partecipazione attiva dei nuovi rappresentanti italiani. Lo ha precisato anche il ministro dell’Economia Padoan, in un’intervista dei giorni scorsi sui lavori in corso a Bruxelles.
Già nel dicembre 2017, il presidente della BCE esortava a procedere sulla via dell’Unione Bancaria, ora le condizioni sussistono, perché, spiega, “emerge una riduzione dei rischi ritenuta sufficiente ad aprire la prima fase dell’intesa comune relativa all’assicurazione sui depositi (Edis)”. Mario Draghi lo ha riferito all’Eurogruppo, affinché si prepari una ‘piattaforma’ adeguata per raggiungere l’importante obiettivo.
Non sono dello stesso parere i rappresentanti tedeschi (in particolare il ministro ad interim delle Finanze), i quali ritengono opportuno raggiungere prima risultati più certi sul fronte della riduzione dei rischi. Il ministro, parlando davanti all’Eurogruppo, fa chiaramente riferimento ai paesi che detengono ancora un’alta percentuale di crediti deteriorati o npl, e che pertanto, qualora questi non siano sufficientemente ridotti e resi innocui per il sistema, potrebbero portare ad una nuova crisi bancaria.
Un ‘paper’ pubblicato dall’Università Bocconi, e intitolato “Le criticità dell’Unione Bancaria Europea”, definisce così le ragioni che hanno indotto alla creazione di un’Unione Bancaria:
“L’idea di creare un’Unione Bancaria nasce dalla necessità di ristabilire quella certa unitarietà del sistema bancario, e, più in generale, finanziario, che è stata messa a repentaglio e seriamente danneggiata dalla recente crisi esplosa nel 2007/8”.
Il presidente Draghi ritiene necessario il completamento dell’Unione bancaria in quanto – sostiene – “c’è l’esigenza d’implementare ciò che è stato già approvato in principio al riguardo. L’espansione economica rafforza la convergenza tra Stati, ma per renderla sostenibile bisogna convergere sulle politiche comuni attraverso le riforme strutturali”.
I 28 paesi membri hanno già istituito un Fondo di risoluzione bancaria con l’obiettivo di sostenere le banche che affrontano emergenze finanziarie; nonché un sistema di vigilanza unica, controllata della Bce. Ora mancherebbe l’assicurazione unica dei depositi creditizi, voluta con l’intento di creare una responsabilità in solido tra i paesi membri dell’Ue.
I paesi più solidi economicamente, però, vorrebbero, prima di aderire alla condivisione in solido delle responsabilità, che quelli più fragili, con forte presenza di rischi nei bilanci bancari, provvedessero ad una adeguata riduzione. L’Italia è fra questi, anche se il ministro Padoan, in tante circostanze, anche di recente, ha ribadito il fatto che il sistema bancario italiano è ora più sicuro perché c’è stata una notevole riduzione degli npl.
E tuttavia a gennaio scorso, durante una riunione dei ministri delle Finanze, si è deciso di creare un processo di controllo che permetta di accertare i progressi realmente conseguiti nel sistema bancario dei paesi più interessati, ovvero lo stato di efficienza raggiunto e quel che ancora manca da compiere per avvicinarsi ai parametri comuni in termini di regole sulla gestione dei crediti deteriorati.
DI VIRGINIA MURRU
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Giornata di calma nei mercati finanziari, non solo nelle piazze europee, ma anche in quelle asiatiche e a Wall Street. Alcuni dati macro dell’economia americana si stanno consolidando, malgrado il clima di tempesta scatenato dall’imposizione dei dazi voluta dal presidente Donald Trump e da una parte del suo establishment.
L’aumento del tasso di occupazione (diffuso il 9 marzo) ha messo da parte l’ultima riserva dei mercati, incentivando gli indici azionari, ma non insidiando quelli obbligazionari, che avrebbero potuto provocare aumenti non previsti dell’inflazione, e pertanto indurre la Fed ad intervenire.
Gli investitori si sono sentiti più al sicuro dopo la diffusione dei dati relativi all’aumento dell’occupazione a gennaio, che balza in avanti più del previsto, e fa ingranare una marcia più decisa a Wall Street, andamento tutt’altro che ignorato dalle Borse europee e da quelle asiatiche.
Crescita dell’occupazione negli Usa dunque, ma leggera flessione nei salari rispetto a gennaio, del resto anche un loro aumento avrebbe potuto influenzare il tasso d’inflazione, e per conseguenza allertato la Fed.
In base ai dati diffusi dal Dipartimento del Lavoro, il tasso di disoccupazione negli States è rimasto stabile a febbraio (rispetto a gennaio), ossia a 4,1%. Gli analisti attendevano una leggera flessione in positivo dell’indicatore.
In Italia il differenziale di rendimento tra Btp e Bund si è ridotto e ha mantenuto una certa costanza, oggi lo spread è a 137 punti base. Piazza Affari è stata favorevolmente condizionata dalla forward guidance della Bce, la quale, nell’ultima riunione del 9 marzo, ha rassicurato i mercati: nessuna mossa a sorpresa del board. L’euro è stabile, in apertura oggi era sotto 1,23 dollari.
Milano in data odierna ha aperto la seduta in positivo e a metà mattinata viaggia intorno a +0,55%, ma quasi tutte le borse europee proseguono in positivo, a parte il Fitse100 di Londra che presenta una flessione di –0,08%. A Piazza Affari, da rilevare, il balzo in avanti di Poste Italiane in apertura di contrattazioni; si aggiungono le buone performance di Leonardo, a +1,67%; Italgas, a +1,56%.
Gli analisti di Moody’s hanno alzato anche il rating su Eni, e immediato è stato il riflesso sugli investitori, dopo neanche mezz’ora dalle contrattazioni, il titolo va a +0,6%. In seguito all’upgrade di Moody’s Investors Service, il rating (a lungo termine di Eni), passa da Baa1 ad A3, e outlook negativo, ma risulta fino ad ora il più alto rating espresso da Moody’s sulle società italiane quotate.
Hanno favorevolmente condizionato l’Agenzia le aspettative di crescita nella produzione, il miglioramento degli indicatori di debito e l’efficienza gestionale dell’azienda multinazionale italiana. E’ peraltro di questi giorni la notizia che Eni fa il suo ingresso nel mercato degli Emirati Arabi, con una quota offshore; l’accordo per il 10% di Zohr, ad Abu Dhabi è stato siglato dall’Ad Claudio Descalzi e il premier Paolo Gentiloni, con il principe degli Emirati Mohamed bin Zayed Al Nahyan.
Concordata una quota di ingresso del 5% per il giacimento di Lower Zakurm e una del 10% nei giacimenti a olio, condensati e gas, nell’offshore degli Emirati Arabi, indubbiamente uno dei paesi con il più alto indice di ricchezza in termini di idrocarburi.
Buone le performance della Borsa di Tokyo, dove, nelle prime ore del mattino, l’indice Nikkei è balzato a +1,65%, anche gli investitori giapponesi sono stati bene impressionati dai dati sull’occupazione negli Usa.
Nonostante gli scandali interni nel Paese si stiano rivelando ben poco edificanti per ragioni di corruzione e falsificazione di documenti, fatti che hanno travolto il ministro delle Finanze Taro Aso, per il quale si chiedono a gran voce le dimissioni. I mercati non sono rimasti indifferenti, e sulla scia di queste notizie i listini hanno subito poi dei rallentamenti. Lo scandalo, in conseguenza del quale pare ci sia stato anche il suicidio di uno dei personaggi coinvolti, ha creato notevole scalpore in Giappone.
Oggi si riuniranno i ministri delle Finanze dell’Eurogruppo, in agenda le analisi dei conti pubblici della Grecia, che ha ultimato il programma di adeguamento economico richiesto da Bruxelles. Dopo una crisi durata circa 7 anni e il risanamento dei conti pubblici, la Grecia torna ad emettere bond annuali, da domani in asta ci saranno 625 milioni di euro di titoli pubblici.
Il Paese dovrebbe essere oltre la sponda del rischio, anche Moody’s con una revisione, ha alzato il rating, portandolo da Caa2 a B3, con outlook positivo; i bond vanno in rialzo. E così i titoli di Stato di questo paese così travagliato sul versante economico, praticamente in dissesto, ora performano meglio degli altri titoli di Stato europei. La Grecia si appresta a camminare con le proprie gambe.
Le borse cinesi, infine, hanno chiuso in positivo anche in seguito alla svolta proposta dal presidente Xi, il quale si è candidato per un’investitura sul mandato a vita. In aumento le piazze di Shanghai e Shenzhen.
E in conseguenza di quest’aura politica tutta rivolta all’ottimismo, si rafforza anche lo yuan di 118 punti base sul dollaro.
In salita i prezzi del petrolio in Asia, anche qui siamo nell’area d’influenza dei dati sull’occupazione Usa, in aumento sia il Wti che il Brent.
DI VIRGINIA MURRU
Dopo l’ultima riunione del board sembra che non ci siano sostanziali cambiamenti nella politica monetaria, rispetto alle decisioni del Direttivo di gennaio, eppure la forward guidance, ossia le indicazioni e gli ‘input’ ai mercati, è cambiata. Il presidente Draghi, negli ultimi mesi, per esempio, quando si riferisce ai tassi d’interesse, precisa che essi “resteranno invariati”, ma l’espressione “o più bassi”, che ricorreva nel corso delle conferenze stampa, è stata ormai da mesi omessa.
Un segnale della volontà di uscire dal piano di stimoli monetari, del resto già concretizzatosi a gennaio con la riduzione di acquisti di assets, che ora sono esattamente la metà rispetto a dicembre (30 miliardi di euro al mese).
Gli interventi del Consiglio direttivo dell’Eurotower seguono una linea di prudenza, per ovvie ragioni, nonostante la notevole e costante crescita riscontrata nei paesi dell’Eurozona, restano ancora elementi che necessitano di un attento monitoraggio: il tasso d’inflazione è ancora distante dal target, ossia dal 2%.
Il presidente Draghi ha confermato, ieri, la decisione del board di Francoforte di continuare “gli acquisti di assets con il medesimo ritmo dei mesi scorsi, ossia 30 mld di euro al mese fino al prossimo settembre, fino a che non si manifesti un chiaro segno di adeguamento dell’inflazione rispetto al target.”
Confermati anche i tassi d’interesse, mentre la novità riguarda la stima sul Pil dei paesi della zona euro, che passa da 2,3% a 2,4%. Per il 2019, le stime restano all’1,9% e nel 2020 all’1,7%. La crescita, secondo il presidente, potrebbe essere incentivata da fattori locali, ma non è una garanzia, in quanto non si può trascurare il fattore globale, dal quale è possibile che derivino influenze negative.
Mario Draghi anche questa volta non ha mancato di sottolineare l’efficacia e il ruolo di supporto svolto dal Qe, aggiungendo che il sistema ha ancora necessità di mantenere bassi i tassi durante il programma di acquisto di titoli “e anche dopo”, ha aggiunto. Ma ha allo stesso tempo messo l’accento sull’improbabilità di un aumento del volume degli acquisti, qualora la crescita, in termini economici dell’area, dovesse venire meno.
Non è mancata nemmeno l’esortazione all’implementazione delle riforme strutturali, rivolta ai Governi dei 19 paesi facenti parte dell’area euro.
Uno dei giornalisti presenti alla conferenza stampa, ha rivolto a Draghi una domanda sulla situazione post elettorale italiana, e la risposta è stata che il board non ha affrontato questo tema. Tuttavia, per ciò che concerne la sostenibilità fiscale dei paesi ad alto debito, ha rimarcato Draghi, ultimamente i mercati non sembra che abbiano fatto pesare le conseguenze degli esiti elettorali, tanto da compromettere la fiducia. Secondo il presidente, però, a lungo termine, l’instabilità, potrebbe fare venire meno la fiducia.
Le dichiarazioni di Draghi ieri hanno avuto un riflesso positivo nei mercati finanziari, a Piazza Affari il Fitse Mib, indice dei principali titoli, ha corso a ritmi sostenuti guadagnando l’1,17%, a 22.700 punti (dopo un’ora circa dal discorso del presidente della Bce).
Nell’analisi di ieri non potevano mancare riferimenti alla politica protezionistica intrapresa dagli Usa. Ci sono ragioni di prudenza tutt’altro che irrilevanti nelle dichiarazioni del rappresentante della BCE, tutta l’Ue del resto è in qualche modo sotto pressione a causa dell’atteggiamento risoluto di Donald Trump, che intende procedere all’aumento dei dazi su acciaio e alluminio. E non importa se ha il mondo contro, compreso il suo consigliere più fidato, Gary Cohn, che peraltro ha dato le dimissioni. Si stanno creando veramente le premesse per una guerra commerciale globale, le cui conseguenze potrebbero estendersi anche al versante geopolitico.
E Draghi non poteva evitare di soffermarsi sulla questione che sta diventando ormai rovente sul piano internazionale, con qualche considerazione: “Si può maturare qualsiasi convinzione circa il commercio, ma non si possono portare avanti azioni a proprio vantaggio unilateralmente, poiché diventa pericoloso. Quando s’impongono tariffe incongrue ai propri alleati, alla fine c’è da chiedersi, chi sono i miei nemici?”
Già era noto, del resto, che l’Ue non avesse intenzione di subire senza intraprendere contromisure adeguate all’insidia, e infatti è già pronta una ‘ritorsione’ commerciale di 2,8 miliardi di euro.
Oggi la conferma che Trump ha firmato il decreto per rendere ufficiale quel fuoco di fila di dazi che non piacciono proprio a nessuno, e tanto meno ai mercati.
E’ un’offensiva protezionistico-commerciale che destabilizza gli equilibri globali, già di per sé non semplici. L’entità dei dazi è fortemente penalizzante, si tratta del 25% sulle importazioni di acciaio e del 10% su quelle di alluminio.
Alla platea internazionale non occorrono giustificazioni protezionistiche, gli Usa non possono decidere unilateralmente, senza il minimo rispetto delle convenzioni e degli accordi. Pertanto, sostenere che l’establishment degli States agisce per “proteggere la sicurezza nazionale e i lavoratori americani”, non sussiste, non si può dimenticare che ci si confronta in un contesto di globalizzazione, gli effetti di una misura come questa non si fermano nelle frontiere di uno Stato, causano gravi ripercussioni in altri. Sono stati definiti “i dazi della discordia”, e questa è davvero la sostanza del provvedimento.
I mercati, intanto, non hanno proprio gradito, da Wall Street alle piazze europee a quelle asiatiche.
DI VIRGINIA MURRU
Trovato un accordo all’alba di oggi tra Confindustria e Sindacati su un nuovo modello contrattuale e relazioni industriali. Le parti sociali ci lavoravano da oltre un anno. Si legge in un tweet di Cgil Nazionale:
“Trovato in nottata l’accordo tra Cgil, Cisl e Uil e Confindustria in merito ai contenuti e agli indirizzi delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva. Per l’ok definitivo, la parola passa adesso agli organismi delle rispettive organizzazioni”.
Un accordo importante per i rapporti tra imprese e sindacati, l’intesa sarà firmata venerdì 9 marzo dal Presidente della Confindustria, Vincenzo Boccia, e dai Segretari generali delle tre confederazioni sindacali: Annamaria Furlan (Cisl), Susanna Camusso (Cgil) e Carmelo Barbagallo (Uil), previa approvazione degli organismi delle tre organizzazioni.
I firmatari dell’accordo spiegano che il documento conclusivo “rilancia il valore delle relazioni industriali”. Il testo prende avvio dalla conferma dei due livelli di contrattazione, il primo è nazionale, il secondo aziendale-territoriale. Vengono precisati, inoltre, i criteri di calcolo degli aumenti salariali, il Tec e il Tem, ossia, rispettivamente, Trattamento economico complessivo e Trattamento economico minimo.
Tra gli accordi scaturiti da un positivo dialogo tra le parti sociali, la definizione, per la prima volta, “della misurazione della rappresentatività anche per le imprese”.
Si legge in un comunicato stampa congiunto (diffuso stamattina), da Confindustria e sindacati:
“Si è concluso, questa notte, il confronto tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria in merito ai contenuti e agli indirizzi delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva.
Il documento conclusivo rilancia il valore delle relazioni industriali. Il testo è stato condiviso dai tre Segretari generali di Cgil, Cisl, Uil e dal Presidente di Confindustria e sarà sottoposto, nei prossimi giorni, alla valutazione degli organismi delle tre Organizzazioni sindacali.
L’accordo sarà firmato al termine di questa verifica nel pomeriggio del 9 marzo”.
Soddisfatta la Confindustria e i segretari generali delle tre organizzazioni sindacali presenti, secondo la Cisl l’accordo è in sintesi un piano di sviluppo per il sistema-paese.
Si tratta di un nuovo modello di relazioni industriali basate su criteri di stabilità e partecipazione, che si prefigge il fine d’incrementare la produttività, con più salari e una migliore specializzazione del lavoro (formazione).
Emerge da questo dialogo tra le parti sociali un maggiore senso di responsabilità verso il Paese, nonché l’intento di supportare e aiutare l’economia a svincolarsi definitivamente dalla morsa della crisi per continuare a crescere.
Dichiara la segretaria della Cisl, Annamaria Furlan: “La soddisfazione per i risultati raggiunti deriva dal fatto che si danno risposte più chiare ai bisogni delle persone, ma risponde altresì alle esigenze di competitività e qualità del lavoro, dei quali il Paese avverte un grande bisogno.”
Secondo Furlan, gli effetti di questo accordo si riscontreranno nel rafforzamento della contrattazione, aspetto molto importante, che mira a rendere più congrui i salari dei lavoratori e a mettere in definitiva al centro del dibattito pubblico finalmente il lavoro.
Dietro le quinde di questo accordo c’è un anno e mezzo di incontri, di dialogo e confronto tra sindacati e Confindustria, ma in fin dei conti ne è valsa la pena, se la qualità del lavoro e i salari miglioreranno, con punti d’intesa davvero innovativi. Il fine, del resto, secondo gli intendimenti dei sindacati, era quello di “rilanciare la centralita’ della dignita’ del lavoro nel nostro Paese.
Conclude la Segretaria della Cisl, Annamaria Furlan:
“Questa notte abbiamo siglato la sintesi, dopo diche’ ognuno di noi portera’ l’accordo al vaglio dei propri organismi. Ci siamo presi qualche giorno per la firma ufficiale”.