DI VIRGINIA MURRU
Never give up!
DI VIRGINIA MURRU
DI VIRGINIA MURRU
(A Manuela, piccolo Angelo diversamente abile, che ieri ha spiccato il volo all’età di 18 anni)
Certi dolori ti gelano la parola in bocca, c’è qualcosa che va oltre queste Vite speciali, un cielo pulito al quale i comuni mortali non hanno accesso. Manuela era un fiore di loto, un’esistenza che non puoi raccontare, senza rischiare di finire in retorica. Ma sento forte l’impulso di mettere in fila le parole che imperversano nelle mie riflessioni.
Lei era una Vita rara, una giovane donna diversamente abile, che ha attraversato in punta di piedi le nostre strade, senza fare rumore, e in silenzio, per ragioni che non ci competono, se n’è andata, ha spiccato il volo lasciandoci senza parole.
Eppure non si è mai posta domande sui limiti di un destino che contrastava i suoi passaggi nel mondo, Manuela andava oltre questi impietosi divieti, ogni respiro era un’occasione per vivere, per rispondere all’appello di ogni chiamata, per dire che c’era e basta; il resto lo ignorava, lo lasciava negli sguardi increduli della gente, nelle riserve di chi la osservava.
Perché lei sapeva che ogni esistenza può avere spazi immuni dal dolore, basta cercarli, aveva ‘cingoli’ speciali per passare dove il transito era tempestato di ostacoli, come sentieri pieni di chiodi. Manuela, istintivamente, naturalmente, li evitava, e pensava che la vita è comunque e sempre degna d’essere vissuta.
Riempiva le sue giornate di sogni e sussulti, sognava in maiuscolo, a voce alta, voleva semplicemente un’esistenza normale, con qualcuno accanto che le stringesse forte le mani, ignorando l’impotenza dei suoi passi, quel suo procedere in direzioni alternative. Comunque c’era davanti a chi le stava intorno, c’era il suo disarmante sorriso, e la luce di un Angelo negli occhi innocenti, che credevano solo alle promesse del mondo.
Dio, in qualche modo, l’aveva preservata dai pensieri pesanti che il male sa provocare, lei aveva ricevuto in dono una sorta d’immunità, andava dove la bellezza del sentire la portava, era audace nella speranza, e d’acciaio nella perseveranza di quel suo ambire alla presenza, ad ogni costo. Manuela non voleva essere assenza.
La notizia della tua scomparsa, piccolo fiore di loto, mi ha colta impreparata, il silenzio mi volteggia intorno, penso che ci sia un Angelo in meno su questa Terra, un grande spazio incustodito, che nessuno potrà riempire. Le Vite speciali hanno atmosfere che nessuno può più abitare.
Resterà la memoria del tuo vissuto, quelle pietre miliari che il tempo non potrebbe mai spostare, la tua esistenza era davvero splendente, una sequenza di giorni chiari. Eri come un’Anima lieve, senza peso specifico, perché l’Amore che hai dato a tutti non si può misurare.
DI VIRGINIA MURRU
La tormentata vicenda Embraco sta rendendo rovente il clima elettorale in Italia, già segnato da contrapposizioni e tensioni politiche, normali comunque in periodi come questi.
Prima che Embraco, l’azienda brasiliana del gruppo Whirlpool- che produce compressori per frigoriferi – chiuda i cancelli a Riva di Chieri, dovrà rendere chiare le ragioni che hanno portato il management a decidere la delocalizzazione e il trasferimento della produzione in Slovacchia.
Dietro questa scelta non ci sono motivi di ‘simpatia’, gli interessi guidano sempre rivolgimenti di questo tipo. Il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda è volato ieri a Bruxelles e ha incontrato la Commissaria alla Concorrenza, Vestager, chiedendo con forza l’intervento delle autorità dell’Unione per sospetti aiuti di Stato (in particolare Fondi strutturali europei) da parte della Slovacchia nella vicenda Embraco.
“La Commissaria a Bruxelles – dichiara il ministro – ha acquisito molto bene gli elementi che hanno portato il governo italiano ad esprimere disappunto verso probabili interventi di Stato nell’Europa dell’Est, al fine di attrarre investimenti in questi paesi, violando, se questo fosse confermato, le norme dell’Ue sulla concorrenza. Mi è stato assicurato che la Commissione al riguardo sarà intransigente”.
E ha aggiunto:
“la Slovacchia, con 5 milioni di abitanti ha il gioco facile, con i Fondi europei poi lo è ancora di più”.
La solidarietà verso il ministro italiano è totale, da parte degli altri Paesi membri e dalle Autorità dell’Unione europea. Non si possono del resto stabilire norme in deroga ai Trattati in modo unilaterale e pensare di farla franca, se si firmano accordi è necessario rispettarli.
Intanto è stato aperto lo scouting, ossia un processo di accertamenti per verificare se effettivamente le ragioni che stanno portando la multinazionale a ‘migrare’ su orizzonti più allettanti, per quel che concerne i costi di produzione, derivano da aiuti di Stato non consentiti dalla normativa Ue. Si tratterebbe in questo caso di scorrettezze inammissibili, concorrenza sleale verso altri paesi dell’Unione.
La multinazionale, intanto, ha ribadito la volontà di andare avanti con i licenziamenti, non intende nemmeno fare ricorso agli ammortizzatori sociali per effettuare interventi di reindustrializzazione. Tra il governo, i dipendenti di Embraco e i vertici aziendali, ormai si è instaurato un braccio di ferro dal quale emerge intransigenza da tutte le parti in causa. Le decisioni della Commissione a Bruxelles sulla vicenda, saranno decisiva per le sorti dello stabilimento di Riva di Chieri.
Secondo il Presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, l’atteggiamento della Slovacchia ‘è inammissibile’.
DI VIRGINIA MURRU
I numeri della crescita dovrebbero suscitare almeno un po’ di ottimismo, anche se l’economia reale si porta ancora dietro le cicatrici della crisi. Ce lo ricorda ogni tanto il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, che l’Italia è il secondo paese industriale in Europa, dovremmo prenderne atto, alla luce delle rilevazioni statistiche, e vedere ogni tanto il bicchiere mezzo pieno.
Da qualche anno a questa parte i resoconti dell’Istituto Nazionale di Statistica sono incoraggianti, emergono da questa giungla di numeri anche gli aspetti positivi della nostra economia. Il dato in rilievo delle ultime rilevazioni riguarda l’export: rispetto al 2016, il 2017 chiude con +7,4% in valore e +3,1% in volume , mentre le importazioni crescono del 9% in valore e del 2,6 (in percentuale) in volume.
In spiccioli significa, per quel che concerne le esportazioni, che i prodotti italiani risultano competitivi nei mercati internazionali, e il “made in Italy” è sempre una garanzia. L’aumento delle importazioni presuppone invece una crescita della domanda interna, dunque della capacità di acquisto delle famiglie, e nel versante produttivo delle imprese.
L’aumento delle esportazioni riguarda sia i paesi dell’Ue (+8,2%), sia i paesi extra Ue (+6,7%). L’avanzo commerciale, sempre secondo i dati Istat, sale a 47,5 miliardi. Al netto dell’energia +81,0 miliardi. Rilevante l’export verso la Cina: +22,2% e Russia +19,3%. Tra i paesi Ue le esportazioni aumentano verso la Spagna, +10,2%, e in misura inferiore verso la Svizzera (+8,7%), la Germania (+6,0%) e la Francia (4,9%).
Tra i prodotti che in particolare hanno contribuito alla crescita dell’export troviamo quelli farmaceutici, chimico-medicinali e botanici, autoveicoli, prodotti chimici e in metallo, alimentari (per l’agroalimentare si tratta di primato storico), bevande e tabacco.
E cresce la produzione industriale, che a dicembre scorso, su base annua (crescita tendenziale) presenta un incremento pari al 4,9%, e si tratta di quasi un anno di crescita costante. Su base mensile, (crescita congiunturale – sempre dicembre come riferimento), aumenta rispetto al mese precedente dell’1,6%, superando in questo ambito le migliori economie europee. Per trovare valori simili si dovrebbe andare a ritroso di almeno 8 anni (al 2010).
Un resoconto dell’economia certamente incoraggiante, anche secondo Mauro Micillo, Responsabile Divisione Corporate e Investment Banking di Intesa Sanpaolo, nonché Amministratore Delegato di Banca IMI, che sostiene:
“ la crescita non è più da ritenere ‘solo’ congiunturale ma anche strutturale”. Un distinguo importante per analisti ed esperti.
Il presidente della Bce, Mario Draghi, ha sempre precisato del resto che la politica monetaria espansiva può favorire la ‘ripresa ciclica’, non quella strutturale, e ha sempre insistito sulla necessità di un solido piano di riforme in questo ambito da parte delle Autorità politiche.
Tornando all’analisi degli ultimi dati Istat, si può notare che sono i beni strumentali e i beni di consumo durevoli a fare meglio, macchinari e comparto delle attrezzature, che crescono del 15,6%. A parte l’elettronica, l’aumento della produzione industriale si rileva un po’ in tutti i settori.
Da evidenziare che l’aumento della produzione nel settore di macchinari è il riflesso più chiaro del risultato derivante dagli investimenti, riconducibili al Piano Calenda su Industry 4.0. In rilievo, in questo ambito, l’impennata nella produzione dei robot, dove importante è stata la domanda interna.
Tutto questo mentre dalle Assisi Generali di Verona, Confindustria lancia un piano di 250 miliardi, risorse reali che potrebbero diventare disponibili col concorso dell’Europa, del settore pubblico e privato. Seguendo questo progetto per il Paese è possibile una crescita del Pil pari al 12% in 5 anni. Il nuovo governo che verrà fuori dalle prossime elezioni politiche dovrà essere dunque, secondo Confindustria, propositivo, in grado di osare e di andare oltre i limiti, solo così si può sbloccare realmente tutta la potenzialità della nostra economia.
Alla fine del meeting è stato chiesto ad alcuni imprenditori convenuti a Verona:
Cosa chiedete al nuovo governo dopo le elezioni? Il primo interpellato ha risposto: “crescita, economia, sviluppo, rispetto dei patti, attenzione verso il sud, che rappresenta ancora, nel terzo millennio, la parte debole del Paese”.
Un altro imprenditore ha proposto “consolidamento degli investimenti per Industria 4.0, importantissimi al fine di creare movimenti positivi nell’ambito della produzione industriale, robotica in particolare, ma anche sistemi digitali e tutto ciò che ruota intorno alle nuove tecnologie.
Diversi imprenditori hanno chiesto attenzione verso il Meridione, attraverso l’agevolazione di iniziative produttive, gli sgravi fiscali sono incentivi incoraggianti, ma secondo il parere di chi ‘vive direttamente sul campo’ sono necessari interventi infrastrutturali veramente consistenti, apertura di nuovi cantieri, coinvolgimenti dei giovani con opportunità di occupazione. Insomma risposte efficaci, non le solite promesse elettorali.
Vincenzo Boccia, presidente della Confindustria, ha riassunto in tre parole la consistenza dei doveri richiesti al prossimo governo: “Lavoro, controllo del debito, crescita”. Questi sono i punti fermi per uno start veramente efficace dell’economia italiana. “ A patto che – ha puntualizzato Boccia – che riforme fondamentali, anche se tanto discusse, come il Jobs Act, non siano spazzate via”.
DI VIRGINIA MURRU
L’Ufficio parlamentare di bilancio fa lampeggiare l’allarme sul rispetto delle regole (in ambito Ue) che potrebbe essere esatto da Bruxelles, com’è avvenuto del resto lo scorso anno, per la finanza pubblica italiana, a rischio di “significativa deviazione”.
L’Upb nel Focus “Situazione e prospettive della finanza pubblica italiana”, allerta il Mef con un messaggio chiaro: la deviazione rispetto alle regole dell’Unione europea potrebbe nuovamente indurre la Commissione a richiedere misure correttive”.
Il ministero di Economia e Finanza non sembra eccessivamente preoccupato dalla possibile incombente richiesta di interventi ‘forzati’ sui conti pubblici I recenti progressi confermati dalle Agenzie di rating, Istat e importanti Organizzazioni internazionali come l’Ocse, fanno ritenere che Bruxelles abbia preso atto degli sforzi compiuti dal Governo italiano, tanto da meritare fiducia.
Nel 2018, se dopo le elezioni si proseguisse sulla via delle riforme, la crescita dell’economia potrebbe andare al di là dei target e delle aspettative, con il Pil in marcia verso un probabile +2%. Traguardo realizzabile, perché, secondo il ministro dell’Eonomia Pier Carlo Padoan, “il sentiero stretto” che si è percorso in termini di rigore, per via del limite delle risorse disponibili e della difficoltà a contenere il debito pubblico, è meno stretto di un anno fa, dato che tanti ostacoli sono stati bypassati, e il deficit è stato costantemente ridotto.”
Potrebbe bastare ai supervisori di Bruxelles? Certo potrebbe bastare l’impegno dimostrato, ma qualora si tenesse conto del fatto che il debito pubblico, in termini di scostamenti, è sempre critico, arriverebbe la solita strigliata, che in ambito internazionale non è una lusinga.
C’è da riflettere sulle previsioni di autunno della Commissione europea, la quale ha sottolineato che nell’anno in corso “la correzione del deficit strutturale non andrebbe oltre un decimo di punto percentuale”, non sufficiente a riportarci sui binari della media europea in termini di deviazione.
L’Ufficio parlamentare di bilancio, nel suo Focus, sostiene altresì che “sarà arduo nei prossimi anni cancellare, anche in parte, le clausole di salvaguardia e basarsi su coperture alternative, poiché è necessario tenere presente la riduzione progressiva dei margini di contenimento di tante voci del bilancio – in seguito alle manovre correttive degli ultimi anni – e degli spazi sempre più ridotti di flessibilità ancora disponibili nelle regole di bilancio.”
E si legge ancora: “il miglioramento dei conti pubblici è legato alle clausole dalle quali ci si aspettano introiti per un importo pari a 12,5 mld nel prossimo anno, e poco più di 19 mld nel 2020.
La disattivazione totale della clausola nel corrente anno, per 15,7 miliardi, è stata finanziata in deficit, consentito dai margini di flessibilità delle regole di bilancio. Vantaggi che non saranno più possibili dato che non ci sono margini idonei alla concessione di ulteriore flessibilità”.
Le ragioni per l’allarme ci sono. Ma si pone l’accento anche sulla spesa pensionistica, che va ben oltre il livello percentuale del Pil, se rapportato ai migliori paesi membri dell’Ue. E tuttavia, per via delle riforme attuate fino ad ora, nel lungo periodo dovrebbe essere più sostenibile. “Anche se – precisa l’Ufficio parlamentare di bilancio (guidata da Giuseppe Pisauro) – difficilmente da questo comparto deriveranno “significativi recuperi di risorse”. La sostenibilità che potrebbe essere messa a rischio da revisioni senza la relativa copertura finanziaria
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Il sistema previdenziale ha un’incidenza notevole sui conti pubblici, si regge su punti fermi sensibilissimi ad eventuali interventi che non tenessero conto, per esempio, della legge Fornero (monito dell’Upb). I richiami della Commissione europea al riguardo sono stati del resto tanti negli ultimi anni.
Secondo l’Upb, il livello troppo elevato del debito pubblico, continua ad essere l’anello più pesante e problematico della catena in ambito bilancio. La sua incidenza, in rapporto al Pil, è del 132% (nel 2016); messa a confronto con la media dell’Eurozona, che è dell’81,4%, certamente mette in rilievo una differenza notevole. Il debito pubblico è quel macigno che schiaccia e limita, condiziona la consistenza delle riforme strutturali, ma è un’eredità che viene da lontano, e dopo gli anni più ardui della crisi, contenerne la portata non è semplice.
La riduzione costante del deficit e la crescita dell’economia, hanno permesso tuttavia di fermare anche la crescita del debito pubblico, che nel 2015, dopo 7 anni di esorbitante aumento, è stato finalmente bloccato, nonostante le proporzioni siano ancora piuttosto ‘ingombranti’.
Secondo fonti del Mef si può essere più ottimisti, le recenti positive performance della produzione industriale, insieme ai progressi riscontrati in importanti dati macro, fanno ritenere che gli obiettivi di bilancio saranno raggiunti senza eccessive collusioni con le clausole dell’Ue e la relativa sorveglianza sulla finanza pubblica.
DI VIRGINIA MURRU
Nei giorni scorsi il fermento si avvertiva forte intorno al Cda di Ntv-Italo, l’offerta del Fondo Usa GIP‘ (Global Infrastructure Partners) era allettante, ma bisognava alzare il tiro e ‘giocare’ al rialzo, così è finita che Italo-Ntv l’ha spuntata con 1.940 miliardi di euro, che in termini di contropartita equivalgono al 100% del capitale sociale. Gli azionisti di Italo hanno approvato all’unanimità l’offerta, dopo sei ore di Consiglio di Amministrazione.
Il Fondo Gip provvederà anche ai 440 milioni di euro di debito della società italiana. L’alta velocità passa quindi agli americani, che in questo campo non sono dei novellini, dato che gestiscono circa 40 miliardi di dollari, ovvero il 3% del Pil del nostro Paese.
All’accordo pattuito sono stati aggiunti 30 milioni per i dividendi degli attuali azionisti, peraltro deciso con delibera dell’Assemblea, ai quali si sommeranno ancora 10 milioni a titolo di spese per l’interruzione del processo di quotazione, visto che è stata ritirata la domanda per l’ingresso in Borsa.
Il tutto ammonta quindi a circa 2 miliardi e mezzo di euro.
Gli attuali azionisti possono reinvestire fino al 25% dei proventi derivanti dalla vendita, alle medesime condizioni di acquisto di Gip. Nella mattinata di oggi c’è stata la riunione del Cda.
La sottoscrizione del contratto di compravendita dipende dall’approvazione dell’Antitrust, ma una clausola prevede che si dia luogo all’esecuzione entro l’11 febbraio.
Dopo il ritiro della domanda di autorizzazione e ammissione alla quotazioni delle azioni di Italo, inoltrata alla Consob, ci si avvia alla conclusione delle trattative e al transito definitivo della società al Fondo americano. Certo sarebbe stato meglio concludere tutto ‘in famiglia’, come hanno fatto Anas e Ferrovie dello Stato Italiane, ma in epoca di globalizzazione non deve proprio lasciare perplessità.
La società non sarà più italiana, anche se ai passeggeri non importerà gran che del passaggio di mano. Ai dipendenti certamente di più visto che sono in lotta per il rinnovo del contratto.
Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, rassicura:
“Si tratta di un ottimo investimento per il Paese, non ci si può sottrarre all’integrazione tra imprese che ‘viaggiano’ ad alta tecnologia”. Anche per il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, l’operazione conclusa con il Fondo americano è positiva, “significa che la tecnologia italiana anche nell’ambito dei trasporti sa suscitare interesse all’estero.”
DI VIRGINIA MURRU
La prima nota mensile Istat del 2018 inizia all’insegna della cautela per l’economia italiana:
“In un quadro di forte espansione del commercio mondiale, prosegue l’andamento positivo delle esportazioni Italiane. La produzione del settore manifatturiero registra invece qualche segnale di rallentamento.”
L’Istituto Nazionale di Statistica sottolinea il persistere dell’aumento del potere d’acquisto delle famiglie, ma allo stesso tempo anche la propensione al risparmio, già messa in rilievo negli ultimi comunicati del 2017.
Conclude la nota mensile: “La lieve riduzione dell’indicatore anticipatore, che si mantiene comunque su livelli elevati, delinea uno scenario di minore intensità della crescita economica.”
Si prende atto pertanto del fatto che la crescita rallenta il ritmo, mentre il tasso d’inflazione è stabile. Non si riscontrano flessioni negative, ma è venuto a mancare il regolare ‘sprint’ che ha accompagnato gli ultimi anni. Mentre l’”outlook” dell’Istat si mantiene su livelli di cautela, per quel che concerne i livelli di crescita dell’economia italiana, l’Unione Europea rivede invece al rialzo le stime sul Pil (+1,5%).
Previsioni più ottimistiche rispetto a un anno fa, anche se da Bruxelles non mancano mai di sottolineare che è necessario proseguire sulla strada delle riforme strutturali, poiché proprio da questi interventi è scaturita la crescita riscontrata negli ultimi anni.
Da un’analisi congiunturale delle ‘macro’ aree, emerge in primis il rallentamento del settore manifatturiero, che già alla fine del 2017 aveva presentato qualche segno di arresa, sia pure lieve.
A novembre, infatti, l’indice destagionalizzato della produzione industriale non ha evidenziato variazioni di rilievo. Se si considera la media degli ultimi trimestri 2017, l’ultimo ha rivelato valori in flessione rispetto a quello precedente, -0,2%.
Restano positivi fino a dicembre i dati relativi all’export con i paesi dell’area extra europea, vi sono stati ritmi sostenuti e rilevanti: +8,2% . Per quel che concerne le importazioni il dato è anche migliore +10,8%. Con un saldo complessivo di oltre 39 miliardi di euro. In ripresa in questo scenario anche il settore edilizio, buoni movimenti nell’ambito dei fabbricati residenziali. In diminuzione i prezzi delle abitazioni.
Nell’ultimo trimestre 2017 aumenta, sia pure lievemente, la spesa per consumi delle famiglie, e si conferma la propensione al risparmio, insieme al reddito disponibile, che si presenta con un tasso migliore rispetto al precedente trimestre: +0,7%. Il mercato del lavoro prosegue con la riduzione del tasso di disoccupazione (a dicembre 10,8%), da sottolineare che questi progressi avvengono nell’ambito di una moderazione salariale, lo scorso anno le retribuzioni contrattuali (orarie) sono aumentate dello 0,6% rispetto all’anno precedente.
In questo orizzonte di moderata ripresa, da sottolineare la lieve flessione riguardante la fiducia di consumatori e imprese.
Si distingue invece l’analisi dell’Ocse, che ieri a Parigi ha espresso giudizi lusinghieri:
“Tra i dati delle sette grandi economie, la crescita del reddito reale per individuo è rallentato in modo consistente, in tutti i paesi, tranne che in Italia.”
L’Organismo per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, ha diffuso gli ultimi rilevamenti statistici sulla crescita e il benessere nei paesi facenti parte dell’Organizzazione (che raggruppa i paesi più sviluppati del pianeta ad economia di mercato).
L’Ocse poi conclude: “Il reddito reale per famiglia in Italia (per abitante), è considerevolmente aumentato, in termini percentuali dello 0,8% nel terzo trimestre del 2017, e va a collocarsi più avanti della crescita del Pil reale (sempre per abitante), che è stabile, con +0,4%.
In ambito Ue, sia la Commissione Europea che la BCE, hanno confermato, sulla base dei dati raccolti, la “ripresa ampia e robusta”, che addirittura andrebbe al di là del suo potenziale economico (la previsione per il 2018 in termini di crescita è del 2,3%). Si resta pertanto in un clima di crescita generale, confermato anche dalla tendenza positiva riscontrato nel Pil globale, con stime in rialzo per l’anno in corso, verso un trend prossimo a +4%. Riflesso dell’attività economica globale che prosegue sulla via del consolidamento.
Draghi comunque, a fronte di un clima d’inflazione ancora fragile, ha dichiarato che la politica sui tassi si manterrà su una linea prudenziale stabile, per ampi margini di tempo.
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DI VIRGINIA MURRU
Andava tutto a gonfie vele in ‘quel’ di Wall Street, ma qualcosa nel sistema globale è andato di traverso, e così la norma si ripete: i mercati finanziari implodono facilmente, sono simili a Colossei con tutte le porte aperte, e nell’aria rimbalzano, vicino e lontano, gli esiti di scambi e contrattazioni, le buone performance e i crolli.
La Borsa dunque trema a Wall street, che ieri arriva a perdere oltre il 6% (intorno a 1.600 punti, e chiude poi la seduta con un calo di 1.175 punti); per trovare il segno di un ‘drop’ così collassante bisogna andare indietro di 7 anni. Ma in una sola giornata le perdite sono da record: bruciati in brevissimo tempo i guadagni di oltre un mese. E l’incubo è di nuovo dietro la porta dei mercati finanziari.
Perché è implicito: se Wall Street ha il mal di pancia, qualcosa probabilmente non va nelle piazze europee, e il malessere è più contagioso di una malattia esantematica. E infatti in Europa la sintomatologia si era già rivelata, gli operatori non hanno perso tempo a riflettere sull’eziologia, la diagnosi era evidente.
Poi il ‘contagio’ è arrivato anche in Asia, visto che oggi vanno a picco le Borse di Hong Kong e Tokyo.
Piazza Affari, insieme a tante altre piazze europee (tedesche e svizzere comprese), fa le spese della speculazione al ribasso dei Fondi Hedge, oggi all’avvio c’è stato un crollo, peraltro previsto. Comunque si è verificata una corsa all’acquisto sul Fitse Mib, la forte ventata di vendite sta creando serie difficoltà al paniere di riferimento della Borsa milanese.
L’intervento ieri di Mario Draghi all’Europarlamento è stato rassicurante, perché ha in definitiva promesso stabilità nella politica dei tassi, eppure sembra che i mercati non si sentano abbastanza protetti dalle autorità finanziarie, e schizzano un po’ ovunque.
Secondo il parere di tanti analisti, la resilienza e il benessere generale dei mercati negli ultimi anni di lotta e ripresa dalla grave crisi del 2008, potrebbe essere al termine del ciclo. E’ possibile che la fase rialzista, durata diversi anni, sia in procinto di cedere. Spaventa l’incalzare dell’inflazione e la crescita dei rendimenti dei tassi obbligazionari.
La fine di questa fase la racconta a Bloomberg il Chief Investment Officer di American Century Investiments:
“E’ in atto la conclusione di una fase rialzista, che era in corso da ormai 8 anni, il sell off che si è scatenato potrebbe non essere un evento che si esaurisce nello spazio di pochi giorni.”
Ma a causare il cortocircuito nel mercato americano è stato paradossalmente il timore di un rialzo dei salari e dei prezzi, e di conseguenza un’impennata del tasso d’inflazione. E a seguire la più ovvia profilassi della Fed: la stretta monetaria, già peraltro nell’aria con il nuovo inquilino, Jerome Powell. Il crollo del Dow Jones e Nasdaq non è stato uno scherzo, ma si pensava anche di peggio ieri sera.
Ora mister ‘America first’, dovrà riflettere prima di esibire al mondo intero le credenziali di Wall Street, quale prova del nove della sua efficienza, in termini di interventi di politica economica.
Intanto, la poltrona di Jerome Powell, appena insediatosi alla guida della Federal Reserve, già lampeggia in rosso. Non è un buon inizio, decisamente. Si legge al riguardo nel quotidiano inglese ‘The Guardian’:
“But on the day that new Federal Reserve chair, Jerome Powell, took office, replacing Janet Yellen, that quiet period seemed to be over. (Ma nel giorno in cui Jerome Powell assume l’incarico di nuovo presidente alla Fed, sostituendo Janet Yellen, i tempi della quiete sembra si siano dissolti.”)
Il crollo della Borsa americana è arrivato in seguito ad un altro giorno pesante nei mercati globali, gli investitori hanno reagito alle forti perdite, e traspare la preoccupazione che la Banca Centrale aumenti i tassi d’interesse, in risposta alla pressione inflazionistica che avanza, e che paradossalmente è stata tanto sospirata.
Gli orizzonti dell’economia americana aprono nuove viste, non sono propriamente quelli che si sono presentati a Janet Yellen, il nuovo presidente dovrà fare i conti con gli interventi del Governo, Trump tiene alla riduzione della pressione fiscale, ed è prossimo il varo della riforma che alleggerirà i cittadini di 1.500 miliardi di dollari.
La riforma ha i suoi punti fermi sui fondamentali dell’economia americana, la stabilità dei dati macro che hanno presentato indici in crescita, come quello dell’occupazione, l’accelerazione della produzione industriale, che insieme alle performance di Wall Street fino ad una settimana fa, hanno permesso un’ottima sinergia di risultati che non facevano certo presagire una simile tempesta.
Mai vaccinati al fatto che per i mercati la volatilità è imprevedibile, e che nel volgere di un giorno, mette a soqquadro una serie di elementi disciplinati come soldatini.
Nella Borsa americana lo S&P perde oltre il 4%, anche qui bisogna andare indietro di 7 anni per trovare sprofondamenti di questa portata. Il Nasdaq perde un po’ meno: qui siamo a 3,75%. Per il DJ e S&P si ripiomba nell’aria plumbea della crisi del 2008, ora non ci sono i mutui subprime a fare da detonatore, ma la mina è sempre vagante, toglie la sicurezza conquistata negli ultimi anni sul piano globale con tanta fatica, e ogni sorta di strategia da parte delle Banche Centrali.
Al momento, negli States, non sono sufficienti le garanzie e le promesse solenni del nuovo Governatore, che ha dichiarato d’essere prudente e procederà ad un aumento graduale dei tassi qualora ne ricorresse la circostanza. Escludendo pertanto una politica monetaria che implichi azzardi o strategie che possano mettere al rischio gli equilibri che la Yellen ha tenuto ben saldi.
Ma intanto si dà quasi per certo un rialzo dei tassi a marzo prossimo, in occasione del primo rendiconto di Powell alla guida della Fed. Ma potrebbero essercene 4 di rialzi ‘graduali’, se i dati macro continueranno ad esprimere la tendenza alla crescita. Da qui partono anche i timori e le diffidenze dei mercati azionari, il cui ossigeno è la stabilità.
E tuttavia, nella radice del problema, secondo gli analisti, c’è anche il “flash crash” derivante dai sistemi super tecnologici dei mercati, ovvero i trading automatici. Del resto qualcosa di simile è accaduto all’euro il giorno di Natale, si è parlato di automatismi del trading, di flash crash. Dietro il crollo ci sarebbe un ‘eccesso’ di tecniche digitali, che mettono a rischio l’intero sistema in certe circostanze.
E sembra sia proprio la causa vera del crollo avvenuto ieri. Tali guide automatiche si avvalgono non di rado della volatilità quale parametro per la valutazione del rischio. Quando l’indice è basso il trading automatico corre all’acquisto di titoli, quando è alto avviene il contrario, ossia si vende. Il meccanismo però è contorto, poiché più si vende più aumenta la volatilità, come il cane che si morde la coda.
Chi sa fiutare i mercati e ne conosce profondamente gli umori, può permettersi, ‘scommettendo’ contro la volatilità, affari d’oro.
Intanto le macchine ragionano da macchine, secondo gli input, e siccome si tratta di ‘prodotti’ derivanti dall’ingegno della mente umana, possono compiere disastri. La dimostrazione, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che l’automatismo nella tecnologia deve stare sotto il controllo e la stretta vigilanza della ‘ragione’ umana.
DI VIRGINIA MURRU
E’ stato il nucleo di polizia economico-finanziaria di Vicenza a disporre ed eseguire il provvedimento di sequestro preventivo del profitto illecito, equivalente all’importo di oltre 106 milioni di euro, a carico della Banca Popolare di Vicenza, che si trova attualmente in stato di liquidazione coatta amministrativa.
L’operazione è avvenuta stamattina, nell’ambito dell’indagine portata avanti dalla Guardia di Finanza, ed è riconducibile, nello specifico, al “reato di ostacolo all’esercizio delle funzioni di vigilanza della Consob” al quale si sarebbe dato corso dopo l’operazione di aumento di capitale deciso dalla Popolare di Vicenza nel 2014.
Le fiamme gialle, agli ordini del comandante provinciale, Col. Crescenzo Sciaraffa, hanno agito in mattinata su autorizzazione della Procura della Repubblica, effettuando quindi il sequestro preventivo, quale confisca diretta per un valore che supera i cento milioni di euro, nel contesto degli accertamenti sulle responsabilità dei vertici della Banca Popolare di Vicenza S.p.A., inchiesta che allo stato attuale è in fase di udienza preliminare.
Le risorse finanziarie disponibili poste sotto sequestro si trovavano su un conto aperto nella filiale di Milano di una banca nazionale, intestato alla BpVi; si tratta di proventi ricollegabili alla pregressa liquidazione di asset facenti parte del patrimonio dell’istituto di credito.
L’ordine di sequestro disposto dal gip del Tribunale di Vicenza, è quello originario che fa riferimento agli articoli 19 e 53 del DL 231 del 2001, e riguarda, come si è accennato, il profitto del reato che ha ostacolato le funzioni di vigilanza svolte dalla Consob (posto in essere in seguito alle operazioni di aumento di capitale dell’istituto nel 2014).
Il provvedimento finora non era andato avanti per ragioni di conflitto di competenza; il primo infatti era stato ordinato dal gip di Vicenza nel maggio dello scorso anno, sempre su richiesta della Procura. In seguito, tuttavia, la Procura stessa legittimò la competenza dell’azione giudiziaria a Milano. Per questo l’operazione delle fiamme gialle è slittata. Il conflitto è poi passato su altro ordine di giudizio alla Cassazione, la quale, in un primo tempo, ad ottobre scorso, sancì che il sequestro non dovesse considerarsi ‘eccessivo’ così come aveva obiettato la Procura.
In ogni caso il provvedimento era stato bloccato, fino al nuovo verdetto della Cassazione, emanato a dicembre 2017, che ha definitivamente sancito la competenza dell’azione giudiziaria a Vicenza, non a Milano.
Non era ipotizzabile che, nell’ambito dell’inchiesta, la BpVi la facesse franca, si è trattato di indebito arricchimento, dovuto all’ostacolo che il management della banca ha esercitato sulle funzioni di vigilanza della Consob, e infatti il colpo puntuale è arrivato. Gli amministratori, dopo il rinvio a giudizio disposto dalla Procura, ora dovranno difendersi davanti al giudice delle indagini preliminari.
DI VIRGINIA MURRU
Il colosso sudcoreano, secondo la pubblicazione dei resoconti finanziari del quarto trimestre 2017, continua a presentare performance da record, i profitti volano al 64,3% su base annua, ossia a 15,2 trilioni di won, che ‘convertiti’ in dollari ammontano a 14,15 miliardi. I risultati sono in linea con le previsioni degli analisti, del resto un “forecast” positivo per il gigante asiatico non era poi così azzardato.
Intanto, secondo una notizia riportata su ‘Finanza on line’, c’è da considerare anche il balzo da tigre nelle quotazioni Samsung Electronics, che spiccano un salto di oltre il 5% a Seul, in seguito all’annuncio della Samsung di uno split azionario 50:1.
Lo split è un frazionamento azionario che non crea alterazioni nella capitalizzazioni in borsa di una società, e pertanto del suo valore nel mercato. Ciò che varia invece, in presenza di uno stock split, è il numero delle azioni disponibili sul mercato e il loro valore unitario.
La Samsung ha spiegato in un comunicato, che la scelta deriva da una ragione ben precisa: ossia l’ostacolo rappresentato per i potenziali investitori, dal prezzo elevato del titolo.
Il 23 marzo prossimo il frazionamento delle azioni sarà sottoposto all’Assemblea dei soci, il valore nominale passerà da 5mila a 100 won, secondo il rapporto indicato. E’ implicito quindi l’aumento del numero di azioni ordinarie, che passeranno da 128 milioni a oltre 6,50 miliardi, e questo, come precisa il comunicato della Samsung, avrà il fine di diffondere con più semplicità il titolo tra gli investitori retail, favorito anche dalla destinazione dei dividendi, che mira a utilizzare il 50% del free cash flow.
Samsung Electronics ha aumentato i suoi profitti netti a 42.180 miliardi di won, a ben +85,6%. Sui semiconduttori i profitti operativi vanno a oltre 35 miliardi nel quarto trimestre. Per quel che concerne i semiconduttori le altissime performance raggiunte dipendono anche dall’alta domanda di chips per server, dispositivi mobili e pc. Invece risultano meno cospicui gli utili derivanti dalla “mobile division”, difficoltà individuate nella promozione della linea ‘smartphone Galaxy’.
Sembra non ci siano riflessi negativi sulle traversie giudiziarie che hanno riguardato Lee Jae-Jong, che fa parte della famiglia dei fondatori del colosso Samsung, e ricopre la carica di Vice presidente (ma di fatto ne è il leader). Un anno fa era stato coinvolto in uno scandalo di corruzione, che ha colpito anche la presidente della Repubblica sudcoreana, Park Geun hye, determinandone l’impeachment. Per tanti l’arresto di Lee Jae-Jong è stata un’occasione per cambiare la corporate governance dei grandi gruppi, permettendo alla legge di applicare il principio che “la Giustizia deve essere uguale per tutti”, anche quando nel mirino finiscono importanti personaggi.
Lee Jae-Jong è stato accusato di avere versato ‘mazzette’ all’amica sciamana dell’ex presidente, Choi Soon-sil, la quale si sarebbe poi prestata a intervenire per indurla a portare avanti una compiacente politica economica che avrebbe favorito la Samsung.
La Corte costituzionale sudcoreana l’aveva infatti deposta il 10 marzo del 2017, in un’atmosfera rovente di scontri politici e agitazioni nella stessa Seul. L’accusa è di corruzione, per avere favorito una certa clientela, sottraendo in modo illecito risorse in termini di milioni di dollari, alle aziende nazionali. Park Geun-hye, che è stata poi arrestata lo scorso anno e tradotta in carcere, è il quarto presidente indagato.
L’ex presidente era rappresentante di una grande dinastia, figlia di Park Chung-hee, che aveva a sua volta ricoperto la carica di presidente per circa 15 anni tra gli anni ’60 e la fine degli anni ’70. Fu poi assassinato dai servizi segreti.
E’ giusto anche ricordare che, sebbene il padre dell’ex presidente sudcoreana, fosse un corrotto dittatore, era stato anche il protagonista del cosiddetto “miracolo” Han, perché aprì nella Corea del Sud le porte al progresso e la trasformò in un Paese avanzato e moderno.
Oggi, alcune multinazionali, come la Samsung, sono il fiore all’occhiello della tecnologia a livello mondiale.
DI VIRGINIA MURRU
DI VIRGINIA MURRU
La questione dei dazi non dovrebbe stupire, Donald Trump ne aveva fatto quasi un proclama durante la sua campagna elettorale, sta dunque cercando di realizzare uno dei suoi punti fermi: il protezionismo. Sul piano internazionale è ovviamente un tentativo quasi autoritario d’imporre limiti all’import, perché nei suoi intendimenti vengono sempre prima gli Usa, ossia l’intercalare fisso del suo programma di politica economica e commerciale: “America first”.
La decisione di fissare dazi all’importazione di pannelli solari e lavatrici, ha scatenato una tempesta di proteste e polemiche, e non solo all’estero, ma anche negli Usa.
Il Governo americano si accinge dunque a varare e ad applicare dazi nella misura del 20% ai primi 1,2 milioni di lavatrici importate nell’anno; le tariffe raggiungeranno il 50% per quelle importate oltre il limite indicato. A partire dal terzo anno i dazi diminuiranno, rispettivamente al 16% e 40%.
I dazi sui pannelli solari avranno tariffe del 30% per quelli oltre i 2,5 gigawatt nel primo anno, la tariffa scenderà al 15% nel quarto anno. Quelli a gigawatt inferiori saranno esentati. In poche parole sono le scintille di una guerra commerciale con la Cina, che era già nell’aria da tempo, fin dagli anni dell’Amministrazione Obama.
Nel 2011, infatti, si intrapresero misure protezionistiche contro i pannelli solari, e nel 2015 contro l’acciao (la Cina è il primo produttore al mondo).
Se si tiene conto dell’origine vera di queste strategie “anti-dumping”, Trump non ha l’esclusiva in materia. Il problema è che in questo braccio di ferro vi sono ricatti che potrebbero fare tremare gli Usa. Ai cinesi basta ricordare agli yankee la dipendenza dalle loro banche.
Sono bastati dei rumors su Bloomberg, la notizia di un possibile sell-off di Treasuries in Cina, che intenderebbe ridurre l’esposizione verso il mercato del debito americano (debito sovrano), e si sa, i mercati sono sensibilissimi: nel giro di 48 ore i rendimenti decennali dei Treasuries sono saliti da 2,48% a 2,65%, raggiungendo i massimi da quasi un anno a questa parte. La notizia è stata poi tacciata come ‘fake news’ dalle autorità cinesi e i valori dei rendimenti si sono normalizzati.
Questo per dire che i due grandi colossi economici mondiali, Cina e Usa, non hanno necessità di usare ordigni nucleari per farsi del male a vicenda, possiedono armi commerciali in grado di intimorire fortemente l’avversario.
La Cina detiene comunque ingenti riserve valutarie, e può permettersi qualche finissimo ricatto. Il valore è intorno ai 3.200 miliardi di dollari, dei quali 1.189 in Treasuries, ed è pertanto il primo creditore degli Stati Uniti. Ha aumentato le sue riserve da quando Trump ha preso il potere (38 miliardi in più).
Sono stati diffusi anche i dati sui rapporti commerciali tra Usa e Cina, e nessuno ormai si sorprende della supremazia cinese anche in questo ambito, l’export verso gli States è aumentato del 15% nel 2017. Di pari passo il surplus commerciale (sempre della Cina) nei confronti degli Usa, è andato a circa 280 miliardi, quasi 20 miliardi in più rispetto al 2015.
Intanto, il gigante degli elettrodomestici americani Whirlpool ringrazia, come se l’Amministrazione americana gli avesse piazzato dei molossi davanti ai cancelli, visto che da anni l’industria si lamentava della concorrenza sleale operata dalla Cina, con importazioni a costi nettamente inferiori. Per dimostrare quanto la manovra del Governo sia stata opportuna, Whirlpool ha promesso l’assunzione di 200 lavoratori.
E’ chiaro che la Cina, essendo il primo produttore al mondo di pannelli solari, e avendo enormi interessi nell’export verso gli Usa (nel 2017 ha esportato 21 milioni di lavatrici..), non rientra nelle simpatie del settore manifatturiero americano. E i cinesi sanno anche tramare bene per i propri interessi, dato che in più circostanze il Ministero per il Commercio ha dichiarato che il prezzo più alto dei pannelli solari americani finirà per distogliere la gente dall’investire in energie pulite, e tutto questo non farà che favorire l’inquinamento nel pianeta, il quale, francamente, non sembra essere il primo pensiero del presidente Trump. Anche se gli ambientalisti americani non gli danno tregua.
La Corea del Sud deve difendere a sua volta, gli interessi delle sue due multinazionali: Samsung ed LG e in questi giorni si studiano le strategie per obbligare Trump a tornare indietro, in primis si studia un procedimento da presentare al Wto.
Il presidente Trump ha deciso di ricorrere a queste misure protezionistiche in seguito alle raccomdandazioni della Commissione Internazionale per il Commercio degli States, la quale ha dichiarato che le importazioni dei due prodotti, pannelli solari e lavatrici, danneggiano la produzione di quelli nazionali. La scelta di applicare i dazi è tuttavia in contrasto con le disposizioni emanate dal Wto, che gli Usa dovrebbero rispettare.
Lo afferma senza tentennamenti il capo dell’ufficio indagini commerciali del ministero del Commercio cinese, Wang Hejun, e gli fa eco il ministro del Commercio della Corea del Sud, Kim-Hyun-chong. Per entrambe le autorità politiche si tratta di eccessi e abusi ai danni dei paesi esportatori. Proprio il ministro coreano, che ha lavorato al Wto in qualità di avvocato – Divisione “Appellate Body Secretariat and Legal Affairs” – ha affermato di essere ottimista circa la possibilità di far valere il ricorso contro il protezionismo.
Ma neppure le autorità americane del settore stanno a guardare, le critiche verso le misure intraprese sono aspre, e lo esprime in modo chiaro l’Associazione dell’Industria per l’Energia Solare degli States:
“si tratta di strategie che finiranno per danneggiare gli Stati Uniti, ci sono in ballo 23 mila posti di lavoro, che saranno cancellati se verranno applicate i dazi, insieme a miliardi di dollari in termini di investimenti.”
Il paese ‘del sol levante’ è tutt’altro che arrendevole, e c’è da giurare che le ritorsioni non tarderanno a farsi sentire, e non saranno da meno i coreani del Sud, già inviperiti per l’insidia che sta per affrontare LG e Samsung. Come restare indifferenti? Il mercato americano ha enormi potenzialità per le multinazionali.
E così se i due colossi sud coreani saranno danneggiati, oltre a quelli cinesi dei pannelli solari e lavatrici, c’è da aspettarsi che, per esempio, Apple e Boeing, potrebbero finire nella lista nera. Già, perché neppure il mercato cinese è uno scherzo, soprattutto da una trentina d’anni a questa parte, e gli americani lo sanno bene. Si sta profilando in definitiva un orizzonte di conflitti, visto che ad affrontarsi sono le più grandi potenze economiche e commerciali del mondo.
DI VIRGINIA MURRU
L’evasione fiscale, nonostante tutte le misure in atto per prevenirla, è in aumento di circa 5 miliardi, secondo una ricerca dell’Università ‘Ca Foscari’ di Venezia. Le cause deriverebbero dagli effetti del fenomeno definito ‘under reporting’ nelle dichiarazioni dei redditi, che in spiccioli è una ‘sotto stima’ dei propri redditi, volutamente ridotti rispetto a quelli effettivi con il fine truffaldino di aggirare, eludere la scure dello Stato, ovvero il fisco. . I dettagli della ricerca sono stati pubblicati nel sito del Senato.
Il gettito mancato, secondo questa ricerca, è tra i 124 e 132 miliardi di euro. Una perdita notevole, dato che si tratta di 38 miliardi l’anno. Nell’ultimo Def i dati relativi alle entrate mancate per l’Erario, riguardanti i redditi da lavoro autonomo, dipendente e da locazione, erano circa 33 miliardi, dunque 5 miliardi in più, secondo gli studi portati avanti dall’Università di Venezia
Il dipartimento di Economina, infatti, ha integrato i due principali ‘metodi’ di stima in merito all’evasione: il ‘discrepancy method’ e il ‘consumption based method’. I risultati non stupiscono più di tanto, ma comunque impressionano, dato che un quarto degli intervistati mente senza pudore, e la percentuale sale quasi al 50% quando si tratta di under reporting legato alla dichiarazione dei proventi derivanti dagli affitti.
Mentire è un riparo che non garantisce molto, ma tant’è: si mente pur sapendo che le bugie solitamente hanno le gambe corte, mentre il Fisco, con i suoi ‘droni’ e gli strumenti sopraffini di cui è dotato, ha lo sguardo sempre più lungo e acuto.
I contribuenti italiani mentono anche nelle rilevazioni demoscopiche: si stima che uno su quattro non dichiari la verità, e così le risorse non riscosse per l’erario aumentano, anziché essere più contenute. A tramare ai danni del fisco sono le partite Iva e i contribuenti con ingenti proprietà immobiliari, ma anche i piccoli non disdegnano i rifugi del mentire allorché si tratta di versare imposte ritenute inique.
Lo Stato infatti esige, dal comune affitto di una casa vacanza (per esempio), il 23% degli introiti. Anche quando si tratta di una sola casa vacanza, che è magari frutto dei risparmi di una vita, e non di rado dietro l’investimento è stato acceso un mutuo. In questo ambito occorrerebbe una migliore perequazione, che colpisca i redditi più alti, non quelli minimi con la medesima aliquota.
Si evadono, secondo la ricerca di Ca’ Foscari, sistematicamente informazioni concernenti il reddito, si dichiara meno di ciò che si dovrebbe, secondo la normativa in vigore, e si spera di farla franca. I più truffaldini sarebbero coloro che dichiarano i redditi derivanti da contribuenti soggetti ad autotassazione (quelli che riguardano le classi di reddito più elevate, ossia dai 40 ai 60 mila euro in su), lavoro autonomo e impresa, in questo ambito le lacune nella dichiarazione dei redditi effettivi e spendibili, è del 23%. Sale invece al 44% quando si tratta di cespiti inerenti redditi da locazione e rendite da capitale.
Non è sempre semplice per le autorità del fisco colpire con sanzioni e accertare le evasioni dei soggetti contribuenti che dichiarano un reddito inferiore ai 30 mila euro, mentre ne nascondono dai 10 ai 15. Così come coloro che dichiarano 75 mila euro e in realtà ne nascondono dai 25 ai 30 mila.
Per quel che riguarda la distribuzione geografica dei mentitori incalliti, non vi sono aree particolarmente inclini a non dichiarare l’entità effettiva del reddito, anche se, tendenzialmente, il Meridione ha una ‘propensione’ un po’ più marcata.
Ma vediamo di capire quale relazione c’è tra under reporting ed evasione vera e propria. Semplice: in definitiva sono gli stessi soggetti che nelle interviste hanno la tendenza a non dichiarare il vero, e pertanto sottostimano il loro reddito; tale ‘attitudine’ si conferma nell’inclinazione a occultare i propri proventi ai rappresentanti del fisco. Gli effetti sono evidenti, come già si è constatato: la perdita di entrate per l’Erario, ovvero per lo Stato, quindi la perdita di risorse che avrebbero potuto essere impiegate proficuamente in ambito economico.
In questa bolgia di mentitori (in questo caso verso il fisco ), ai quali Dante nel XXX Canto dell’Inferno riserva un trattamento piuttosto rigoroso, si distingue una categoria: si tratta dei pensionati, secondo gli studi e le ricerche, sembrerebbero i più virtuosi e diligenti. Anche perché, diciamola tutta, il loro reddito, solitamente, viene tassato alla fonte, e aggirare l’ostacolo è praticamente impossibile.
Le cifre concernenti l’evasione sono, per la natura stessa del fenomeno, comunque approssimative, dato che non è semplice quantificare la portata reale dell’evasione, nonostante una base di calcolo derivante dalle indagini campionarie.
DI VIRGINIA MURRU
La diffidenza verso le ‘criptovalute’ dilaga, la Cina ne sta vietando il trading centralizzato, ma il muro alzato sugli scambi arriva anche dalla Corea del Sud, e in Europa, da Germania e Francia. Il bitcoin è sotto i 12 mila dollari, secondo l’Agenzia Reuters, c’è un affondo pari al 18% (martedì 16 gennaio, valore minimo del 2018, dopo un anno al galoppo che sembrava inarrestabile).
E’ stato quindi il bando sentenziato sugli scambi che ha innescato panico e timore “di un più ampio giro di vite regolatorio”. Il 16 gennaio scorso è già stato definito il ‘martedì nero del bitcoin’.
L’impetuosa corsa alle vendite turbina nel mercato di tutte le criptovalute, delle quali, Ethereum è in calo del 23%, e Ripple del 33%. Il sito sudcoreano “Yonhap”, riporta le dichiarazioni rilasciate ad una radio locale dal ministro delle Finanze Kim Dong-yeon, il quale sostiene in sintesi che verranno adottate una serie di misure per arginare la corsa irrazionale e sfrenata agli investimenti in criptovalute.
Ma anche la Cina ha contribuito ad assestare colpi pesanti al bitcoin. Sempre secondo la nota di Reuters, ai vertici della Banca Centrale (su direttiva del vice Governatore Pan Gongsheng), avrebbero deciso di vietare il trading centralizzato delle criptovalute. Ossia quello che passa attraverso le piattaforme “Coinbase o Kraken” canali privilegiati per lo scambio. Anche se per gli irriducibili gli scambi avvengono su canali alternativi.
Intanto, la Corea del Sud, intende bandire gli scambi di valuta virtuale, almeno per ora quelli che non sono stati ancora finalizzati, ma è in programma una disciplina di carattere giuridico per la regolamentazione del mercato. Tutte notizie che corrono sul web e che non contribuiscono ad un rialzo della fiducia, e infatti il bitcoin sta rilevando un crollo di notevoli proporzioni, dato che sulla piattaforma Bitstamp (Lussemburgo), è andato giù fino a 11.200 dollari. Di questo passo la sopravvivenza diventa critica.
Ma la criptovaluta, in termini razionali, che cos’è in realtà?
E’ certamente un’espressione dell’era digitale, in primis.
Dunque una moneta “paritaria”, decentralizzata (e digitale), queste le caratteristiche più singolari, il cui “volume” d’implementazione è basato sulla crittografia, quando si tratta di rendere valide le transazioni e per la generazione.
Ma una vera e propria definizione sfugge e tutte le leggi della finanza in questo ambito, dato che, in ogni caso, è difficile legittimarla al pari di una moneta con corso legale. Trasponendo in un’asse di confronto le due “unità di conto” – la moneta reale e quella virtuale – si può arrivare a qualche stentata conclusione, per ovvie ragioni.
La moneta reale è certamente il mezzo di scambio per eccellenza, e “riserva di valore”, poiché è intrinseca la capacità di mantenere nel tempo il valore e quindi d’essere utilizzata nel futuro senza rischi di deterioramento. La moneta reale porta in sé un “potere liberatorio” in quanto mezzo di pagamento, dato che, nel momento in cui l’acquirente versa il corrispettivo del bene acquistato mediante il controvalore (in moneta appunto), viene meno ogni onere che grava su di lui, dato che si estingue così il debito.
La moneta reale è un’unità di conto, per via delle caratteristiche che storicamente le sono state attribuite, ossia rappresenta un metro comune per misurarne il valore, cosa che si verifica regolarmente con le transazioni commerciali. Ed è la prerogativa storicamente più datata nel tempo, basta pensare agli scambi delle Civiltà più evolute nel Mediterraneo di ormai 5 mila anni or sono, che incidevano su tavolette di argilla il valore relativo allo scambio dei beni, il più elementare negozio giuridico nel quale i protagonisti erano l’acquirente e il venditore.
E’ implicito che, a garanzia del legittimo uso della moneta reale, vi siano organismi di carattere economico-giuridico-finanziario (di espressione politica) che investano la moneta stessa di potere liberatorio nella conclusione di una transazione.
Alla criptovaluta (bitcoin o altre con funzioni simili), non vengono riconosciute le stesse prerogative della moneta reale. Secondo gli esperti, il bitcoin finisce per essere volatile in quanto (secondo un’analisi de Il Sole 24 ore), l’offerta finale del numero di bitcoin è definita, ossia il valore varia a seconda degli umori della domanda. La conclusione alla quale si perviene è che in un simile contesto, la criptovaluta non si può definire “unità di conto”, poiché si comporta come un metro la cui capacità di misura si dilata o si restringe nel tempo. Pertanto non è un mezzo idoneo virtuoso che può essere usato nella contabilizzazione.
Nel panorama poco edificante delle criptovalute, negli ultimi giorni, troviamo anche paesi europei che mettono le mani avanti e prendono misure adeguate a difendere i risparmiatori dai rischi di perdite ingenti, come sta accadendo in Francia e in Germania.
E’ stato infatti Macron a mettere in discussione il bitcoin, decidendo di portare all’attenzione del G20 questo tema attuale e ormai scottante, sempre con l’obiettivo di tutelare i risparmiatori. Ma non solo. Sempre in Francia è di prossima istituzione un “Osservatorio Nazionale sulle Criptovalute”, considerate ormai una potente insidia per la società.
Le Maire, ministro dell’Economia, ha recentemente dichiarato che è in via di definizione la nomina di una Commissione, guidata da Jean Pierre Landau (ex Governatore della Banca di Francia), che avrà la funzione di argine sui rischi derivanti dalle speculazioni nell’ambito delle criptovalute in generale e del bitcoin in particolare. Landau è sempre stato un nemico dichiarato del bitcoin, e non ne ha mai fatto mistero, pare li abbia definiti ‘i tulipani del XXI secolo’, rimando alla speculazione del 2014.
L’avversione sta diventando un tam tam generale, e anche dal versante tedesco della Bundesbank le riserve sono tante. Secondo i vertici della Banca Centrale, sarà inutile lottare all’interno dei propri confini nazionali se non si realizzerà una disciplina di coordinamento giuridico internazionale in grado di ostacolare le speculazioni e tutelare i risparmiatori.
Si annunciano insomma tempi duri per le criptovalute; le sue regole quasi imponderabili sui mercati virtuali, dovranno passare ora attraverso i cingoli delle ferme opposizioni politiche, quasi un morso del cobra per chi fino ad ora ha lucrato in questo ambito. Certamente imprevisto, non in modo così severo, dopo un anno di boom esplosivo, in un mercato in cui vere e proprie regole non ne esistono, forse anche questa è stata la ragione del successo, basato sull’azzardo e il brivido del rischio.
Quando in questi panorami virtuali s’insinua la disciplina della Legge, si è obbligati a procedere su strade ferrate, non su quelle fissate nei transiti irrazionali, dove c’è spazio per illeciti e trasgressioni.
DI VIRGINIA MURRU
Si è concluso l’incontro interlocutorio al Mise tra i ministri Carlo Calenda, Graziano Delrio e i Commissari straordinari Alitalia, Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Paleari . Al momento non ci sono novità di rilievo, c’è stata solo un’analisi e uno scambio d’impressioni sulla procedura di amministrazione e il processo di vendita della Compagnia.
Si è in definitiva concordato sull’esigenza di ulteriori approfondimenti prima dell’avvio di una negoziazione in esclusiva. Si dovranno valutare con attenzione le tre manifestazioni d’interesse più importanti per il rilevamento dell’ex compagnia di bandiera, e dunque le proposte di Lufthansa, Easy Jet e il Fondo Cerberus.
I tre Commissari hanno puntualizzato che nel primo trimestre Alitalia presenterà una situazione di ricavi in crescita rispetto allo stesso periodo del 2017, e che il prestito ottenuto dallo Stato (900 milioni), non è stato utilizzato. I ministri hanno poi fornito indicazioni ai Commissari per giungere alla conclusione rapida della trattativa allorché si presentasse un’offerta solida e congrua.
Lufthansa, per ora, nonostante le aspettative fossero quelle di un orizzonte più certo, con intese vincolanti, resta in sala d’attesa. Del resto, in più occasioni, il ministro Delrio ha precisato che Alitalia non può essere svenduta con la logica ‘del miglior realizzo’, seguendo ciecamente le condizioni di chi vorrebbe rilevarla. E la Cgil ha a sua volta messo in evidenza la contrarietà verso un possibile piano di esuberi , una delle clausole di Lufthansa per l’acquisto.
Il ministro dei Trasporti Delrio ha anche più volto messo in chiaro l’intento di rendere più veloci le procedure per gli accordi “affinché non si sprechino i soldi degli italiani, e il prestito ponte concesso dal Governo Gentiloni, 900 milioni in tutto, ancora intonso, si eviti di intaccarlo.”
Si deve poi ricordare che nelle travagliate vicende che hanno riguardato Alitalia, è intervenuta anche la Regione Lazio, con 3 milioni e mezzo di euro, a sostegno dei dipendenti della compagnia, che coinvolgono peraltro fortemente la regione, dato che tra aziende operanti sul territorio e 12 mila dipendenti, c’è un evidente interesse alla tutela.
I Commissari, prima della delicata decisione finale, hanno seguito un iter a ritroso, analizzando ancora una volta, le 32 manifestazioni d’interesse che erano pervenute alla sede dell’ex compagnia di bandiera a giugno del 2017. I relativi soggetti interessati sono stati riascoltati, l’intesa, a questo punto, potrebbe essere raggiunta in modo anche imprevedibile, con possibili modifiche ai precedenti accordi e nuovi scenari.
Delle tre proposte più vicine al traguardo ‘acquisto’, Easy Jet e Lufthansa hanno presentato offerte vincolanti, mentre il Fondo Cerberus ha presentato solo una manifestazione di interesse, non offerte formali.
Intanto ci sono in gioco anche Delta e Air France, quest’ultima ha avuto accesso alla data room, segno di interesse prima di elaborare un’offerta. La partita in campo è pertanto ancora aperta, gli interlocutori sono aumentati, e il clima di ‘concorrenza’ non potrà che giovare alle trattative in corso; a favore di Alitalia, ci si augura.
Difficilmente si prenderà una decisione prima delle prossime elezioni politiche, ormai prossime, per ragioni di opportunità è possibile che il tutto slitti alle soglie dell’estate, anche perché, qualora si procedesse ad un taglio sul piano dell’occupazione, i sindacati si rivolterebbero.
Se si optasse per Lufthansa, si deve essere consapevoli che gli esuberi sfiorerebbero le 2 mila unità, oltre ad un processo di riduzione della flotta, e conseguenti cancellazioni di tratte a medio e lungo raggio che determinano solo costi. E’ una strategia della Compagnia tedesca, la quale si è dimostrata inflessibile su questi punti, fondamentali per il risanamento dell’azienda.
E’ altrettanto evidente che ogni soggetto proponente, tende a ‘portare l’acqua al proprio mulino’, e non certo a compiacere gli interessi della controparte. In gioco ci sono gli hub, le più grandi compagnie che si sono avvicinate alla data room di Alitalia, mirano a incrementare il traffico attraverso nuovi flussi, è in definitiva la logica del puro profitto, che va oltre ogni scrupolo di ripercussione sul piano occupazionale.
Ma forse più di ogni altro rischio c’è da valutare la perdita di autonomia, questi colossi del traffico aereo, considerano Alitalia semplicemente un mezzo per rendere più solidi e stabili i loro bilanci. Sul piano decisionale, l’ex compagnia di bandiera potrebbe perdere veramente autonomia, e anche quel prestigio internazionale che, malgrado tutte le battaglie perse in retrovia, l’ha contraddistinta.
Considerazioni sulle quali non si dovrebbe sorvolare a prescindere, nonostante la criticità del momento.
DI VIRGINIA MURRU
“La Fiat Chrysler Automobiles raddoppierà gli utili nel volgere di cinque anni, grazie anche all’impulso del marchio Jeep”. Lo ha dichiarato Sergio Marchionne, Ad del gruppo, in un’intervista a Bloomberg.
Nell’articolo si sottolinea che Marchionne è “one of the longest-serving bosses in the auto industry” (uno dei ‘capi’ che più a lungo ha ricoperto il ruolo nell’industria automobilistica), e infatti è al vertice da ben 15 anni.
Sarà anche Trump e il suo establishment, attraverso la riforma fiscale, a favorire l’incremento degli utili di Fca per circa un miliardo di dollari l’anno. E’ ovvio che poi il gruppo abbia deciso di aumentare la produzione negli Usa. Il Ceo Marchionne, ( sempre nell’intervista a Bloomberg) ha quindi confermato le voci sul possibile cambio di guardia alla guida di Fca: nel 2019 dovrebbe lasciare il gruppo.
Secondo le sue dichiarazioni, la causa sarebbe la stanchezza e il desiderio di dedicarsi ad altre attività, ‘perché gestire un’importante industria automobilistica ti consuma’. Dopo Fca potrebbe occuparsi di Exor, holding di controllo della famiglia Agnelli.
Esiste già una lista di candidati per sostituirlo, le loro competenze sono al vaglio dei vertici del gruppo.
“His growth strategy is focused on a global expansion of Jeep” (la sua strategia di crescita è diretta all’espansione sul piano globale del marchio Jeep), si legge nell’articolo pubblicato questo pomeriggio dall’Agenzia di Stampa internazionale. Tra gli obiettivi di Marchionne c’è però anche quello di riportare la Ferrari a vincere il Campionato del mondo.
Quest’anno, intanto, il gruppo porterà a compimento il Piano industriale presentato a Detroit quattro anni fa (aprile 2014). Gli obiettivi ‘indebitamento zero e 5 miliardi di euro in cassa’, sono stati raggiunti, ci sono però ancora incertezze a livello produttivo.
La Fca non è stata immune dalla crisi economica globale esplosa nel 2008, e pertanto sono stati rinviati alcuni target in termini di sviluppo, in particolare quelli concernenti il marchio Alfa Romeo. Rinviato il lancio di tre modelli dell’Alfa.
In ogni caso, e in più occasioni, Marchionne ha puntualizzato che la situazione internazionale è ancora complessa, e prima di lasciare il gruppo definirà le linee guida per gli anni successivi al 2019.
Secondo Bloomberg ‘Chief Financial Officer Richard Palmer is seen by investors as the leading candidate for the job’. Il prossimo candidato, potrebbe dunque essere Riccardo Palmer, manager responsabile della gestione generale delle attività finanziarie (Direttore finanziario).
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DI VIRGINIA MURRU
Il prezzo del petrolio non sfiorava vertici così alti dal 2015, un’autentica corsa al rialzo, impennata favorita anche dalla recente esplosione di un oleodotto in Libia. Già gli ultimi giorni del 2017 la Cnn scriveva che il prezzo del greggio superava i 60 dollari al barile. Ora i contratti sul greggio Wti (con scadenza febbraio, sul mercato ‘after hour’ di New York), ha raggiunto quota 63,43 dollari al barile. Salite anche le quotazioni dei titoli petroliferi.
Mentre il Brent va ancora più su: siamo a 69,26 dollari al barile, mai così in alto da 3 anni a questa parte. L’incremento della domanda, secondo gli esperti, ha incentivato le quotazioni, dietro ci sono anche le stime derivanti dal ‘Rapporto mensile dell’Energy Information Administration’, Agenzia degli States, che prevede un aumento della domanda per quest’anno, intorno al 2,4%, e nel 2019 del 2%.
Lontano il 2016, quando invece i prezzi seguivano una ‘corsa al ribasso’, l’oro nero sfiorò infatti un minimo di 26 dollari al barile, il rialzo riprese solo quando all’Opec si accordarono per ridurre la produzione, con tagli che si sarebbero dovuti portare avanti fino al 2018. Accordi rinnovati di recente anche col benestare della Russia.
L’esplosione in Libia, secondo la National Oil Corporation, costerà una perdita tra i 70 e i 90 barili di greggio in termini di export al giorno. All’origine dell’esplosione, come ormai è noto, ci sarebbe un commando di terroristi Isis, i quali avrebbero minato gli impianti con esplosivi.
DI VIRGINIA MURRU
Ancora buone notizie sul fronte dell’occupazione, l’Istituto Italiano di Statistica ha divulgato i dati riguardanti novembre 2017, dai quali emerge che la stima degli occupati è in crescita, con + 0,3% rispetto al mese precedente, in termini di numeri si tratta di 65 mila occupati in più.
Il tasso di occupazione va quindi al 58,4%, ossia +0,2 punti percentuali. Un dato che comunque incoraggia, segno di un sistema che si muove in modo positivo, se è in grado di generare occupazione, quand’anche si trattasse di contratti a termine.
Nel periodo di riferimento, secondo gli ultimi i dati Istat si riscontra una crescita che riguarda le due componenti di genere, e tutte le classi di età, tranne quelle comprese tra i 35-49 anni. In salita il numero dei dipendenti, sia dei permanenti che di quelli assunti a tempo determinato. Risultano in calo gli indipendenti.
Mentre i dati sull’occupazione sono una buona ‘spia’ per il Governo, lo sono meno per la leader della Cgil, Susanna Camusso, la quale, in un’intervista all’Ansa, dà una lettura più disincantata. A suo avviso i dati relativi al tasso di occupazione devono essere interpretati con maggiore realismo, così infatti dichiara in merito:
“Non c’è proprio da esultare, si tratta dell’ennesimo boom di contratti a termine, c’è ancora immobilismo nel versante dell’occupazione, soprattutto di quella giovanile. Noi continueremo a proporre per i giovani una riforma che ne preveda la tutela con una pensione di garanzia, una risposta efficace alla prospettiva previdenziale, che vada oltre la riforma Fornero. Finora il sistema non ha tenuto conto delle nostre proposte, ma noi insisteremo in questa direzione.”
Nessun facile entusiasmo da parte dei sindacati, anche se i numeri dell’Istat fanno sperare in un’inversione di tendenza, anzi qualcosa di più, dato che in termini percentuali, il tasso di disoccupazione risulta essere quello più basso dal 2012. Nei giovani tra i 15 e i 24 anni (sempre a novembre 2017), il tasso scende al 32,7%, in calo non di poco: 1,3 punti rispetto al mese precedente.
E su base annua, il rapporto di questi dati è ancora più positivo: il calo dei disoccupati è pari a 7,2 punti percentuali. A livello generale, il tasso va all’11% a novembre scorso, lo 0,1 punti in meno rispetto ad ottobre. Ma l’asse si sposta in positivo anche sul terreno degli occupati, che crescono di 65 mila unità, e pertanto, sempre nel periodo di riferimento, siamo a 23,18 milioni, per trovare un tasso simile si deve andare a ritroso nell’archivio storico dei dati fino al 1977.
Nel trimestre settembre-novembre, si evidenzia una crescita in termini di occupati, rispetto al trimestre precedente, di +0,4%, tradotto in numeri si tratta di 83 mila occupati in più, per entrambi i generi, e la crescita si concentra in particolare tra gli ‘over’ 50, in misura più lieve interessa anche i 15-24enni, considerando comunque il calo degli occupati nella fascia tra i 25 e i 49 anni.
Come ha fatto rilevare la leader della Cgil, l’incremento degli occupati deriva dai contratti a termine, dato che si riscontra un calo tra quelli permanenti, mentre restano stabili gli indipendenti.
Diminuiscono a novembre i lavoratori alla ricerca di occupazione, un calo in rilievo per quattro mesi consecutivi, sarebbero 18 mila in meno. Il tasso di occupazione secondo gli ‘effetti’ demografici, resta ancora sotto i livelli rilevati nel 2008: -0,5 punti percentuali. Per le donne il tasso di occupazione è in crescita, e va al 49,2%, il dato più positivo di sempre.
Su base annua, secondo i dati Istat, risulta in crescita il numero degli occupati, ossia di +1,5%, che corrisponde a 345 mila per entrambi le componenti di genere.
Tra i 15-64 anni il tasso di occupazione sale al 58,4% (novembre 2017), con un incremento di 0,2 punti percentuali su ottobre, e 0,9 punti su base annua rispetto allo stesso periodo del 2016.
Sottolinea l’Istat: “Al netto dell’effetto della componente demografica tuttavia, su base annua cresce l’incidenza degli occupati sulla popolazione in tutte le classi di età.”
Il premier Gentiloni commenta con cautela i dati diffusi dall’Istat, ma non nasconde in un tweet nemmeno la soddisfazione:
«A novembre il numero di occupati ha raggiunto il livello più alto da 40 anni. E scende anche la disoccupazione giovanile. Si può e si deve fare ancora
meglio. Servono più che mai impegno e serietà, non certo una girandola di illusioni».
Più entusiasmo e orgoglio nel commento dell’ex premier Matteo Renzi:
“Da questi dati emerge un risultato storico, da quando abbiamo preso le redini del Governo, nel 2014, l’Italia ha registrato un milione di posti di lavoro in più.”
Secondo Vincenzo Boccia, leader degli industriali, i dati confermano semplicemente quello che Confindustria ha da tempo messo in rilievo, ossia che si tratta di risultati conseguenti alle buone misure di politica economica. Le riforme hanno dato un nuovo slancio al paese, secondo Boccia, Jobs Act in primis.
Opinione che certamente non condividerebbe con Susanna Camusso e una buona parte dei lavoratori del Paese.
DI VIRGINIA MURRU
E’ First Cisl a fare il punto sulle reali criticità delle banche. Il sindacato, nel portare avanti un’analisi sui bilanci delle principali 5 banche nei primi 9 mesi del 2017, mette in rilievo il fatto che sugli 8 mld di utili realizzati dai cinque grandi istituti bancari italiani, hanno contribuito in modo notevole i 14 miliardi di commissioni nette direttamente connesse al fattore lavoro.
Sostiene a questo proposito il Segretario Generale di First Cisl, Giulio Romano:
“Il peso vero che grava sul sistema bancario non è il costo del lavoro, ma le grandi svalutazioni esatte dai regolatori europei, e i riflessi non sono di poco conto, dato che si continuano a ‘svendere’ Npl con esigui recuperi, mentre il loro valore potrebbe rientrare in maniera più rilevante attraverso una gestione oculata e paziente, producendo così un reddito ben più consistente.”
Le svalutazioni, secondo le analisi del sindacato, hanno raggiunto un valore di 10 miliardi di euro nei primi nove mesi del 2017, mentre il loro recupero qualora fosse stato risolto “in house dai dipendenti, avrebbe generato reddito”. E infatti, precisa ancora First Cisl, “agli 8 mld di utili realizzati dalle 5 maggiori banche italiane (nei primi 9 mesi dello scorso anno), hanno dato un grande contributo gli oltre 14 miliardi di commissioni nette.
Dichiara il responsabile dell’Ufficio Studi del sindacato, Riccardo Colombani : “l’utile al quale si fa riferimento beneficia inoltre dei 527 milioni registrati in termini di calo dei costi del personale, per via di un taglio di quasi 8 mila addetti negli istituti analizzati, non tenendo conto però delle riduzioni di personale nelle banche acquisite da Intesa Sanpaolo e Ubi.”
Questi interventi hanno un valore, sommati alle commissioni nette, di quasi 16 miliardi complessivi nel versante dei risultati lordi della gestione. Il costo del lavoro, nello specifico (e per i 5 grandi gruppi bancari analizzati), ha inciso per 12,6 miliardi.
Sempre secondo gli studi compiuti da First Cisl, a schiacciare la redditività sono gli oltre 10 miliardi di rettifiche sui crediti, e in questo versante non è cambiato quasi nulla rispetto ai riscontri dello stesso periodo del 2016.
La parte più incisiva è rappresentata pertanto dagli accantonamenti su crediti che divorano una somma più alta dell’utile netto, equivalente al 70% delle commissioni, mentre sugli interessi netti raccolti dalle banche, siamo al 59% di 17 miliardi.
Se gli Npl non fossero sistematicamente venduti con la logica più o meno ‘del realizzo’ – e gestiti in house da personale competente, e gli accantonamenti si effettuassero tenendo in considerazione i recuperi realizzati – gli utili, secondo gli studi di Riccardo Colombani, riprenderebbero a generare reddito, quindi sviluppo ed occupazione.
DI VIRGINIA MURRU
Tutte in positivo le stime preliminari diffuse dall’Istat, relative al terzo trimestre 2017. L’inflazione, a dicembre scorso, ha messo in evidenza un aumento dello 0,4% su base mensile, mentre su quella annuale (rispetto al 2016), è dello 0,9%; non siamo ancora alla soglia del target (2%), ma non c’è neppure la preoccupante immobilità degli anni scorsi: era in agguato la deflazione.
Buone anche le performance dei prezzi al consumo, i quali registrano un incremento pari all’1,2%, seguito alla flessione del 2016. Se si tiene conto dell’inflazione di fondo, ossia al netto di beni energetici e alimentari freschi, si è a +0,7%; non è tanto, ma l’Istat mette in rilievo il cambio di tendenza, che riporta i dati sul livello dei prezzi al 2013. E’ già un buon risultato.
I prezzi dei carburanti, benzina e diesel e altri prodotti, avevano subito ribassi notevoli nel 2016 (-6%), mentre lo scorso anno si è registrato un trend positivo, ossia +6,2%. Più o meno le stesse considerazioni per gli energetici regolamentati, quelli che ci ritroviamo nelle fatture delle utenze: erano a -5,0% nel 2016, e sono andati poi a fine 2017 a +2,9%.
L’Istat, nel suo comunicato, precisa che i Conti relativi alle Amministrazioni Pubbliche (AP), famiglie e Società, sono elaborati in milioni di euro, a prezzi correnti, e rientrano tra i Conti trimestrali dei vari settori istituzionali.
I dati sulle AP sono espressi in forma non destagionalizzata, mentre quelli concernenti le Famiglie e le Società sono destagionalizzati.
In rapporto al Pil, l’indebitamento netto delle AP (sempre terzo trimestre 2017, come riferimento), è stato del 2,1%, dato lievemente in miglioramento rispetto allo stesso periodo del 2016 (era stato allora pari al 2,4%). Per quel che riguarda il saldo primario delle AP, ovvero l’indebitamento al netto degli interessi passivi, il dato è positivo: l’incidenza sul Pil è dell’1,2%. Era dell’1,4% nello stesso trimestre del 2016.
Secondo il comunicato Istat anche il saldo corrente delle AP è stato positivo: pari all’1,3% l’incidenza sul Pil. Nel 2016 era dello 0,6%.
In riduzione i dati concernenti la pressione fiscale, che risulta del 40,3%, in calo di 0,4 punti percentuali in rapporto ad un anno prima. Si riscontra un trend positivo anche sul reddito disponibile delle ‘famiglie consumatrici’, che aumenta dello 0,7% rispetto al trimestre precedente (2017), i consumi invece sono aumentati dello 0,2%. Ne consegue che migliora anche la propensione al risparmio delle famiglie, e infatti risulta in aumento di 0,5 punti percentuali, arrivando all’8,2%.
Si legge infine nel comunicato Istat:
“A fronte di una diminuzione dello 0,1% del deflatore implicito dei consumi, il potere d’acquisto delle famiglie è cresciuto rispetto al trimestre precedente dello 0,8%.
La quota di profitto delle società non finanziarie è risultata pari al 41,3%, diminuendo di 0,4 punti percentuali rispetto al trimestre precedente. Il tasso di investimento, pari al 20,7%, è aumentato di 0,5 punti percentuali rispetto al trimestre precedente.”
Il commento sui dati Istat del premier Paolo Gentiloni su Twitter:
“Dati incoraggianti sui conti pubblici, comincia a scendere la pressione fiscale, cresce finalmente il potere d’acquisto delle famiglie italiane. Risultati da migliorare, non da sprecare.”
DI VIRGINIA MURRU
La Piazza finanziaria di Milano ha chiuso il 2017 in grande stile, al seguito dei più importanti mercati mondiali. Il comparto azionario ha registrato un andamento al rialzo nel corso dell’anno, e le performance sono davvero incoraggianti.
L’orgoglio è giustificato se si pensa che Milano è stata la Piazza migliore in ambito Ue, in Europa la piazza di Zurigo ha fatto leggermente meglio (14,1%). Anche le principali Borse del vecchio continente hanno registrato bilanci in positivo.
Certamente il 2017 si conclude a Milano con prospettive ben diverse rispetto al 2016, quando il risultato fu decisamente negativo: -9,68%.
Tra i bancari l’azione più scambiata a Piazza Affari è stata quella di Unicredit, il cui aumento di capitale si è avviato nel 2017 sui 13 miliardi di euro. Tra i titoli più negativi troviamo la Saipem, in sconfortante ribasso, con -28%.
Ottime anche le performance della divisa europea nel 2017, l’euro si rafforza sul dollaro, migliore risultato dal 2003. Mentre lo spread ha oscillato, ma con gap lievi, che non hanno determinato urti di rilievo.
Si è trattato, per le 339 aziende quotate a Piazza Affari, di circa 650 mld di capitalizzazione (nel 2016 sono stati 525 miliardi), la crescita è del 14,55%, bilancio assolutamente positivo per il Fitse Mib, che per il Paese rappresenta una buona fetta del Pil, ossia il 37,8% (nel 2016 era il 31,8%). Fca, Il titolo del Lingotto, è risultato il migliore del listino, in buona compagnia con Ferrari, Fineco, Moncler e altre.
Sul piano internazionale, la ‘stella cometa’ dei mercati a chiusura del 2017, è stata certamente Wall Street, con risultati record: il Nasdaq a +28% e il Dow Jones a +25%, e comunque il più brillante rally si è registrato nei mercati di Hong Kong, con +36%. Rilevante anche il bilancio della Piazza di Tokio, +19%.
Risultati che in parte rispecchiano le tendenze positive dell’economia globale nel 2017, la quale ha decisamente ripreso a viaggiare con forti impulsi, le ultime stime dell’Economic Outlook semestrale dell’ Ocse hanno previsto un Pil mondiale in aumento: +3,6%, che dovrebbe essere confermato anche nel 2018, in lieve crescita: +3,7%. Vi sono delle riserve nel medio e lungo periodo, perché il rischio di scosse e shock sul piano globale, sono sempre dietro l’angolo, anche a causa delle incertezze provenienti degli eventi geopolitici.
Le ultime previsioni sulla zona euro per l’Ocse sono state ottimistiche, in crescita infatti da +2,1% a 2,4% (2017), mentre sono prudenzialmente contenute per il 2018, +2,1%. Tra i Paesi europei, la Gran Bretagna sta pagando un notevole tributo alla Brexit, con un rallentamento progressivo che passerà da +1,5% (2017), a +1,1% nel 2019. La Cina, ‘economia emergente’ protagonista nello scenario economico globale, proseguirà la sua corsa con una crescita del Pil di +6,8% nel 2017, destinato a subire lievi frenate nel corrente anno, +6,6%.
A Piazza Affari c’è stato un buon movimento di scambi (una media giornaliera pari a circa 2,5 mld di euro, e in totale, nel corso dell’anno, circa 70 milioni di contratti), sono state lanciate nel corso del 2017, un discreto numero di Opa, 18 in tutto, 15 quelle che si sono concluse per un valore di circa 800 milioni di euro.
Al positivo assetto delle Piazze europee hanno contribuito anche gli eventi politici, gli appuntamenti elettorali che hanno confermato alla guida di Stati chiave in ambito Ue, establishment moderati, scongiurando i tanto temuti assalti dei vari nazionalismi. L’elezione di Macron, più di tutti gli altri esiti, ha fatto decisamente esultare i mercati finanziari, sensibilissimi alle virate che portano incertezze negli scenari politici.
DI VIRGINIA MURRU
In dirittura d’arrivo, da gennaio, una serie d’aumenti nelle bollette riguardanti la fornitura di luce e gas, ma non solo: il repertorio è più ampio e coinvolgerà servizi fondamentali, come trasporti, banche, pedaggi autostradali, assicurazioni.
La manovra 2018, dopo il lungo e faticoso iter parlamentare, è diventata legge, tanti gli emendamenti apportati durante il suo percorso, gli interventi sono frutto di sforzi notevoli per le limitate finanze dello Stato. Si chiedeva tanto a questa Legge di Bilancio, forse troppo considerato il ‘budget’, del resto il ministro Pier Carlo Padoan ha ripetuto spesso che le risorse non erano infinite.
Molti obiettivi si sono raggiunti, ma resta l’amarezza di quel limite che ingabbia, dietro le finanze dello Stato c’è un debito pubblico simile ad un drago insaziabile, che inghiotte risorse senza sosta, e nessuno ha ancora trovato l’arma giusta per bloccarlo.
I grandi sforzi compiuti dalla manovra appena convertita in legge, sono solo la prima fase di un ciclo, che riprende il corso nel nuovo anno con tutte le strategie e misure atte a portare energia all’erario, perché tutto il piano di spese deve essere adeguatamente coperto, anche in previsione del prossimo ‘esercizio’ dell’azienda Italia.
E il cittadino resta sempre sotto mira, il reddito delle famiglie, soprattutto quello che consente di arrivare in affanno a fine mese, torna in trincea, in Italia metà anno si lavora per le tasse (negli Usa solo fino ad aprile). In ogni caso sono i contribuenti a trasformarsi in Atlante e a reggere l’immane peso che la spesa pubblica comporta. Così, ogni anno si ripete, e la speranza di una condizione di vita migliore, affiora appena dal cappello di quel grande illusionista che è poi lo Stato.
Il 2018 sarà il capoverso di un rituale che riprende il suo avvio, anche in termini fiscali; in agguato sempre qualche rincaro, soprattutto sul versante delle utenze, indispensabili al normale svolgimento della vita quotidiana. Il nuovo anno, ormai alle porte, non si presenta come il sacco di una generosa befana, pieno di sconti e condoni, o riduzioni d’imposta, anzi.
Secondo l’Adusbef, sarebbe pronto un potente morso al reddito del cittadino, già ipotecato da troppi impegni fiscali e insidiato da oneri di ogni genere. Sarà quasi di mille euro la spesa in più prevista per ogni famiglia (esattamente 952 euro), a causa degli aumenti in vista sulle utenze, e non solo di luce e gas, anche i servizi delle banche faranno parte del pacchetto di rincari, le polizze, i trasporti.
Aumenta il costo dell’energia, la tendenza dei prezzi va verso l’alto, sembra che solo il tasso d’inflazione sia insensibile.
Nonostante i prezzi delle materie prime siano ancora accettabili, questi giorni quello del greggio ha raggiunto vertici ai quali non eravamo più abituati: oltre 60 euro a barile (oggi il Brent è a 66,72).
L’Adusbef spiega che le fatture sui consumi di energia elettrica aumenteranno per 22 milioni di famiglie già dal prossimo gennaio. Per quel che concerne le bollette della luce, si sa che è già prossima la riforma delle tariffe, le quali penalizzeranno proprio le famiglie che consumano meno, e che appunto riguardano 22 milioni di abitazioni, più o meno il 70%; non si tratta di buona perequazione, anche se non siamo propriamente nell’ambito dei tributi.
Ma nel lungo orizzonte dei rincari ci sono anche le tariffe del gas, i servizi offerti dalle banche, le assicurazioni e i pedaggi stradali. E si va ancora oltre con i trasporti, le utenze dell’acqua e la tassa sui rifiuti (per la quale si aspettava un rimborso, causa errori di calcolo..).
Una vera e propria stazione d’inferno per il cittadino, che non può compensare con salari più congrui, e tanto meno appoggiarsi con sicurezza all’importo percepito con la pensione. Si fa riferimento alle classi sociali meno abbienti, alle fasce intermedie, i cui nuclei familiari rappresentano gran parte della popolazione.
Del resto, il cittadino italiano, e non è una novità, è quello più tartassato in Europa; i rincari annunciati peseranno anche sulle imprese, soprattutto quelle piccole. Tra colpi e contraccolpi, tirando le somme, a pagare di più saranno gli ‘ultimi’, per i quali nessuno garantisce un reale reddito d’inclusione.
La stangata in arrivo, insomma, costerà poco meno di mille euro. Un’autentica sferzata, una raffica non di poco conto. Sarà pertanto il costo della vita in generale ad aumentare in modo pesante, e a ridurre notevolmente la capacità di acquisto delle famiglie; non sarà solo lo Stato, in modo diretto, ad affondare le mani nelle tasche del cittadino, ma tutto il sistema che vi ruota intorno.
DI VIRGINIA MURRU
Per la divisa europea, la perdita repentina del 3% nel volgere di poche ore, non è stato propriamente un regalo di Natale.
Il mondo della finanza è quanto di più aleatorio possa esistere, nel volgere di 24 ore può accadere di tutto, e spesso gli outlook, le stime delle Agenzie di rating, lo sguardo lungo degli analisti, non sono sufficienti a mettere a tacere il rischio, e prevenire così eventi che possono diventare drammatici.
Lo sanno bene gli operatori dei mercati finanziari, o chiunque conosca da vicino le subdole leggi della finanza.
Una delle belve in agguato può essere la speculazione, ma concorrono anche altri fattori, che non risparmiano le ‘vittime’ neppure il giorno di Natale, appunto. Proprio così: nelle atmosfere soft della festa più attesa dell’anno, che coincide – tanto per coniugare sacro e profano – con la tanto sospirata tredicesima, si possono verificare eventi che nessuno mette in conto, specie quando riguardano una valuta stabile, tra le più forti sul piano globale.
Si allude all’euro, la divisa europea che continua a tenere testa al dollaro, e che all’esordio dell’autunno ha perfino preoccupato per quei balzi in avanti, l’esuberanza e la tendenza a segnare distanze sempre più marcate proprio nei confronti biglietto verde.
Si è pensato a qualche strategia per frenare la smania di schizzare troppo in alto, avrebbe finito col danneggiare l’export. Già, perché nel mondo della finanza vi sono ‘ruoli’ incompatibili, che possono marciare controsenso, in apparente contraddizione con il reale stato dei fatti.
L’euro, comunque, proprio il giorno di Natale, ovvero un giorno fa, ha passato un brutto momento, dato che ha perso in poche ore il 3% del valore, scendendo a 1,15 in rapporto al dollaro. Il 24 dicembre (sempre nei confronti del dollaro), era a 1,18. Un vero e proprio caos per il sistema dei prezzi e la stabilità necessaria a garantirlo.
Un crollo, come si diceva, non previsto, neppure ‘diagnosticato’ anzitempo, dato che la divisa europea, come si sa, è in buona salute. Secondo analisti ed esperti, la perdita è riconducibile ad una sorta di ‘effetto boomerang’ delle vendite computerizzate, e ai loro automatismi, non pertanto a movimenti speculatori.
Tale effetto sarebbe stato stigmatizzato dalla ridotta portata degli scambi in un giorno come il Natale, dove di norma si tira il freno a mano più o meno ovunque, e per ovvie ragioni. L’entità della perdita subita dall’euro sarebbe però del 2% in realtà, secondo i dati diffusi dall’Agenzia Bloomberg, che sono stati poi pubblicati dal Financial Times il 26 dicembre.
Il calo negli scambi non deriverebbe dai fondamentali, ma da vendite automatiche da computer, che si avvalgono di algoritmi.
A conferma di queste analisi, c’è un ‘segnale’ che rivela le ragioni dei movimenti dietro le quinte, chiamato anche in gergo ‘flash crash’; alla caduta è seguito infatti un rapido recupero. Si è trattato dunque delle conseguenze del basso traffico di scambi nei mercati (che a Natale erano chiusi) e dei programmi informatici di trading, che con i loro automatismi possono avere innescato questi ‘crash’, come fossero cortocircuiti dovuti all’attività del trading quando non è guidato dai normali processi posti in essere dagli investitori, e dagli esperti che lavorano normalmente nelle sale operative.
Svelato dunque l’arcano: i responsabili sarebbero gli algoritmi dei robo-advisor, programmi informatici impostati in modo automatico, per garantire un certo flusso di operazioni finanziarie, anche il giorno di Natale. Qui l’euro è stata una sorta di vittima, perché in modo autonomo e automatico sono evidentemente partiti, tramite i ‘comandi’ dei robo-advisor, gli ordini, i quali, in mancanza del normale traffico dei mercati, hanno creato tali risultati. Comunque sia, non si è trattato di un bel regalo di Natale..
E tuttavia, sempre secondo i resoconti degli analisti, la vulnerabilità esisteva già nel ‘sentiment’ degli operatori, un sentire che non era a favore della divisa europea, c’era quindi una certa esposizione al rischio. Sul piano geopolitico non hanno giovato al buon ‘sentiment’ degli investitori, le elezioni in Catalogna, che hanno seminato nuovamente incertezza. I mercati, come si sa, sono spugne che assorbono ogni urto, e lo traducono in codici non criptati, ma certamente in dati che riflettono la super sensibilità verso i più vaghi sospetti di cambiamento, che possano anche da lontano insidiare lo status quo.
Di certo si sa che si arriva al flash-crash quando una valuta è già nel mirino, i mercati registrano i ‘rumors’, ogni eventuale umore che non sia in sintonia con la stabilità. Simili eventi non sono certo agli esordi, l’importante è che il sistema provveda in modo veloce a ristabilire l’equilibrio preesistente, e a neutralizzare il panico, visto che l’effetto più immediato nei mercati è proprio di carattere emotivo.
Ogni tanto queste evenienze, che sono poi il riflesso degli automatismi software, ci riportano al ruolo indispensabile della mente umana, la quale, per quanto sia stata superata in termini di efficienza dai prodotti del suo stesso ingegno, resta indispensabile nella guida e nell’orientamento dei medesimi.
DI VIRGINIA MURRU
Non ci saranno cambiamenti nella norma che disciplina i contratti a termine, 36 mesi di lavoro continuativo costituiscono il limite, al di là del quale scattano le condizioni per passare ad un contratto a tempo indeterminato.
L’emendamento presentato pochi giorni fa dal Pd, in Commissione Bilancio, alla Camera, era una proposta che piaceva ai sindacati: si chiedeva di portare il limite a 24 mesi di lavoro continuativo, ma poi la proposta è stata ritirata. La durata massima resta pertanto di 36 mesi, nell’ambito di questo periodo, i datori di lavoro potranno prorogarne i termini per 5 volte, con il consenso del lavoratore.
La Cgil considera grave il ritiro dell’emendamento. Così si è espressa la Segretaria Confederale, Tania Sacchetti:
“La nota congiunta di oggi conferma gli effetti disastrosi del Jobs Act. Quanto si sta decidendo in queste ore sui temi del lavoro è grave e conferma l’incapacità dell’Esecutivo a mantenere gli impegni”.
Non sono benevole le critiche della Cgil, il ritiro dei due emendamenti alla manovra, riguardanti l’aumento dell’indennità di licenziamento e la riduzione della durata massima dei contratti a tempo determinato, hanno reso più aspre le divergenze tra sindacato e Governo in merito alle politiche del Lavoro. Secondo la dirigente della Cgil Tania Sacchetti, “entrambi gli emendamenti, nonostante la valenza limitata, potevano costituire l’inizio di un iter volto a mettere in discussione la struttura tutt’altro che solida del Jobs Act”.
E’ noto che i sindacati hanno lottato strenuamente contro l’abolizione dell’art. 18 (tanto per fare un esempio). Susanna Camusso, nel corso di una manifestazione indetta dal sindacato (ottobre 2014), commentò: ‘L’articolo 18 non è totem ideologico ma tutela concreta.’
La Sacchetti stigmatizza e dichiara: “La conseguenze disastrose del Jobs Act sono state confermate da una nota congiunta diffusa da Istat, Inail, Inps, Anpal e Ministero del Lavoro. Anche nel terzo trimestre del 2017 si registra un calo dei contratti a tempo indeterminato, e un aumento di quelli a tempo determinato. Abbiamo sempre sostenuto che è fondamentale puntare su investimenti pubblici e lavoro di qualità, per stimolare la crescita inclusiva e arginare l’emergenza della disoccupazione giovanile.”
Gli emendamenti, tra raffiche di polemiche, non sono stati tuttavia approvati; su indicazione del governo e del relatore alla manovra, Francesco Boccia, Cesare Damiano ha ritirato l’emendamento che stabiliva in 8 mensilità minime (erano 4), da versare al lavoratore, qualora si verificassero casi di licenziamento senza giusta causa. Ma poi, lo stesso Damiano, evidentemente poco convinto, ha commentato al riguardo:
“Si sta commettendo un errore che non è giusto sottovalutare, sarà alla fine la prossima legislatura a farsi carico del problema, dato che nel nostro paese il datore di lavoro che licenzia se la cava con oneri minimi, e questo non si può accettare.”
Si può ancora precisare che, per quel che concerne i contratti a tempo determinato, il decreto Poletti (del marzo 2014), è stato finora poco efficace, dato che non ha realmente affrontato il problema del precariato ‘estremo’, ossia quello che interessa i lavoratori impegnati in contratti di pochi giorni. Secondo i report di Istat, Inail, Inps e Anpal, sono circa 500 mila coloro che nel mondo del lavoro sono impiegati come interinali, per un terzo il rapporto di lavoro ha la durata di un giorno.
Ora il lavoro a chiamata ha preso il posto dei voucher, così tanto ‘incriminati’, e aboliti nei primi mesi dell’anno in corso, semplicemente questo genere di reclutamento ha ripreso forza a causa della tracciabilità dei voucher.
Ci sono cambiamenti anche sul ‘bonus bebé’, ossia l’assegno destinato alle famiglie con un figlio, che sia naturale, adottato o in affido. La Commissione Bilancio ha approvato un emendamento presentato da Alternativa popolare, il quale apporta delle modifiche alle norme già approvate dal Senato, la misura riprende la sua validità per nuovi nati e bambini adottati tra il 1° gennaio e il 31 di dicembre del 2018.
Al compimento del primo anno di vita verrà erogato l’assegno, gli importi relativi sono stati confermati, ossia 960 euro l’anno, con l’Isee che supera i 7 mila euro l’anno, ma non va oltre i 25 mila.
L’erogazione sarà di 1.920 euro l’anno, con un Isee che non sia superiore i 7 mila. E’ passato anche l’emendamento che porta a 4 mila euro la soglia di reddito per i figli lavoratori sotto i 24 anni, i quali resteranno fiscalmente a carico dei genitori. Tra gli 11 emendamenti presentati dal relatore Francesco Boccia (Pd), c’è anche quello che conferma il canone Rai, fissato ancora a 90 euro.
DI VIRGINIA MURRU
Lo prevede uno degli emendamenti del relatore alla manovra, Francesco Boccia (Pd), presidente della Commissione Bilancio, che ha fatto sapere di aver depositato 12 emendamenti, tra i quali un ‘pacchetto digitale’, con un intervento sul FinTech, la modifica alle norme sulla spedizione postale dei pacchi, e nuove regole sulla protezione dei dati digitali.
La web tax in apparenza sembra meno aggressiva verso i suoi bersagli: l’imposta sulle transazioni digitali è stata dimezzata e va al 3%, ma non è stata estesa all’e-commerce. In realtà, secondo uno degli emendamenti presentati dal relatore, portandola al 3% (rispetto al 6% stabilito dal Senato), non ci sarà più il credito d’imposta, ma con una diversa base imponibile si potranno incassare 190 mln, ossia 78 milioni in più, comunque ossigeno per l’erario, dato che era previsto un gettito di 112 milioni.
La nuova versione, dunque, non si applica all’e-commerce e alla cessione di beni, come era già stato espresso in un primo momento dal relatore, ma alla cessione di servizi, con un’aliquota dimezzata (3%).
La web tax troverà applicazione, in veste di ritenuta alla fonte, direttamente sulle transazioni, e riguarderà coloro che effettuano più di tre mila transazioni di servizi nel corso dell’anno. Di fatto non ci saranno più le comunicazioni all’Agenzia delle Entrate, dunque non si potranno tracciare le imprese digitali, e, come si è visto, non ci sarà più il credito d’imposta sulle imprese residenti, utile per evitare doppie tassazioni.
Per quel che concerne il ruolo di sostituti d’imposta svolti dalle banche, si è ugualmente deciso di sospenderne la funzione. L’imposta entrerà in vigore il primo di gennaio del 2019.
Il ‘pacchetto digitale’ prevede interventi di FinTech (ossia Financial Technology, che attraverso le più avanzate tecnologie dell’informazione, fornisce servizi e prodotti finanziari).
Tra gli emendamenti anche diverse agevolazioni per le imprese che si occupano di materia finanziaria, un regime autorizzativo meno pesante, ossia una zona franca nella quale le startup della finanza potranno trattare in sicurezza i loro prodotti per un periodo di 3 anni.
La clientela deve essere limitata, ma intanto potranno esercitare la loro attività con maggiore elasticità e senza le pressioni derivanti dalle regole un po’ contorte, alle quali devono sottostare di norma gli operatori del credito. Si tratta di un primo riconoscimento a livello fiscale del Fintech, vale a dire i nuovi strumenti finanziari, quelli che transitano sulle piattaforme digitali. In Gran Bretagna la chiamano ‘sandbox’.
La regolamentazione del ‘sandbox’ spetterà tuttavia a Bankitalia, Consob e Ministero dell’Economia, con i propri rappresentanti, che potrebbero formare in seguito un Ente permanente. L’istituzione di un nuovo Ente servirebbe a dare indicazioni e orientamenti di carattere innovativo sul versante finanziario.
Tra gli emendamenti, l’obbligo per le Poste Italiane di realizzare un servizio postale di carattere universale, si occuperà infatti dei pacchetti con un peso fino a 5 kg.
E’ vincolante anche per il garante della privacy stabilire le regole di tutela dei dati personali sensibili, in formato digitale. Questo è il pacchetto di emendamenti alla manovra, sul sistema regolatorio digitale, presentato da Francesco Boccia.
La Commissione ha ripreso i lavori e continuerà a mettere al vaglio gli emendamenti che sono stati presentati negli ultimi giorni, in particolare quelli concernenti l’Agricoltura, lo Sport e la famiglia, giudicati già in modo favorevole dal Governo.
DI VIRGINIA MURRU
Lo ‘strategic plan 2016/19’, deciso lo scorso anno da Unicredit, prosegue con il ‘perseguimento degli obiettivi chiave ’, lo ha dichiarato il Ceo Jean Pierre Mustier, confermando anche l’aumento del dividendo.
Il piano di cessione dei crediti deteriorati è una strategia in linea con le direttive europee, e il raggiungimento di questi punti fondamentali è stato inserito nella nota di aggiornamento del Piano industriale, presentato proprio oggi a Londra. Il Ceo di Unicredit afferma con orgoglio che il management ha deciso d’incrementare il dividendo, per l’esercizio 2019, del 30%, sottolineando che il target Cet1 ratio6 andrà a superare il 12,5%. Performance che indicano uno stato patrimoniale di buona salute per l’istituto di credito, e soprattutto buone prospettive nel breve e medio periodo.
Proprio lo scorso dicembre era stato presentato un documento, lo ‘Strategic Plan’, che indica le linee guida nella gestione dell’Istituto:
“Una banca panaeuropea, semplice, con una rete unica in Europa Occidentale, Centrale e Orientale, a disposizione della sua ampia base di clienti.”
In sintesi si delinea una rete di azioni che stanno già tracciando il futuro della banca, la quale trae insegnamento dalle negative eredità del passato, e punta ad eliminare in primis l’ingombrante fardello degli Npl, per acquisire più competitività, anche attraverso una posizione patrimoniale realmente rafforzata, affinché i risultati di questi interventi si riflettano a lungo termine.
Tra gli obiettivi c’è l’attività di de-risking, fondamentale, con un potenziamento dei tassi di copertura, per creare una base più solida rispetto al passato.
Incentivazione della disciplina di gestione del rischio, attraverso erogazioni future più garantite in termini di qualità.
Un programma di misure di efficienza e disciplina dei costi, in grado di ridurre notevolmente il rapporto costi/ricavi, col raggiungimento di un nuovo modello di business. Da sottolineare i ‘risparmi annui ricorrenti netti’ per 1,7 miliardi di euro, a partire dal 2019.
Altro punto importante del Piano: una più efficiente redditività, insieme ad una nuova politica di distribuzione dei dividendi cash, alla quale si sta già dando attuazione.
C’è da dire che questa revisione strategica ha interessato le principali aree dell’istituto, con il solo fine di rinvigorire e ottimizzare la dotazione di capitale del gruppo.
Si tratta di obiettivi pragmatici, target raggiungibili. In primis il miglioramento della qualità dell’attivo, ma non meno importante la trasformazione del modello operativo, che deve focalizzarsi sui clienti, anche attraverso la semplificazione degli standard di prodotti e servizi, affinché siano sensibilmente ridotti i costi delle attività riguardanti i clienti stessi.
Basi di partenza che fanno lezione delle difficoltà del passato, perché solo così è possibile costruire su fondamenta finanziariamente più solide e sicure.
A questo riguardo c’è da sottolineare la megacartolarizzazione da 17,7 miliardi; l’istituto ha firmato accordi per limitare la partecipazione nel portafoglio di Npl, ossia la riduzione della sua posizione nel portafoglio FINO al di sotto del 20%. Tale decisione era stata già annunciata nel comunicato stampa del 17 luglio scorso. Obiettivo comunque reso noto dal Gruppo una prima volta nel corso del ‘Capital Markets Day 2016’.
Il portafoglio Fino in origine era pari a 17,7 mld di euro di crediti in sofferenza lordi (al 30 giugno 2016), e ridotti a circa 16,2 mld di euro esattamente un anno dopo, ossia al 30 giugno scorso.
Unicredit sostiene che il piano di riduzione di Npl è un percorso strategico fondamentale, ‘si tratta di passi cruciali’. Sono state anche chiuse 557 filiali in Europa nel 2017, tagli non semplici, ma processi necessari per la riduzione dei costi. Il piano di riduzione dell’organico è iniziato nel 2015; attraverso ulteriori chiusure di filiali, ha portato a 72% il target previsto. Un piano ambizioso che il management sta portando scrupolosamente a compimento, i risultati sono racchiusi come sempre nei numeri.
DI VIRGINIA MURRU
I tedeschi di Deutsche Bank, nel 2011, hanno giocato sullo stato dell’economia italiana, che lottava strenuamente per riuscire ad avere ragione di una crisi aggressiva, che stava intaccando il sistema profondamente: il paese sembrava davvero prossimo al baratro. Certamente era l’anticamera della recessione. La crisi economica globale, aveva del resto risparmiato solo la Cina e l’India, ma non gli States, proprio qui si era scatenata la tempesta, e l’Europa, per ovvie ragioni, non ne fu immune.
La Deutsche Bank, l’istituto di credito più importante della Germania, ma anche uno dei maggiori a livello internazionale, aveva deciso nel 2011 di trarre vantaggio della situazione, dato che deteneva 8 miliardi di euro in titoli del nostro debito (Btp). Giocando le sue carte poteva con un soffio farci scivolare davvero in basso, e infatti lo fece, ma barando, nascondendo, appunto, i suoi assi nella manica.
Ai suoi manager bastava speculare sui titoli di Stato italiani (il debito sovrano era veramente critico), del resto avevano davanti i più potenti mezzi di ‘forecast’ finanziari per intuire che il Paese controllava a fatica i remi di una congiuntura fortemente segnata dalla crisi globale. Crisi partita dagli States nel 2007, legata ai mutui subprime, al quale poi è seguito il crack di Lehman Brothers. Una delle principali banche d’affari americane, caduta in un crocevia di eventi sfavorevoli che la misero in ginocchio; non era invulnerabile alla stregua di una statua di bronzo, era un gigante con i piedi d’argilla. All’inizio del 2016 ha perso il 48% di valore delle sue azioni.
In un mondo globalizzato nessuno è più al sicuro in ambito finanziario, e nemmeno gli accessi di Deutsche Bank sono stati ‘a prova di scasso’, dato che due anni fa ha rischiato il default, poi salvata dal provvidenziale soccorso di Stato, con le mani lunghe di Angela Merkel e il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble. Non è un mistero né per i tedeschi, naturalmente, né lo è in Europa, anche se il salvataggio è avvenuto in deroga, e in barba ai regolamenti dell’Ue (alle regole del Bank Recovery and Resolution Directive che impedisce un salvataggio di Stato, ossia il bail-out).
Regolamenti che proprio i tedeschi, vigilando come molossi in ambito Eurozona, hanno strenuamente difeso. Hanno puntato i fari, per esempio, su un Istituto di credito italiano, su Monte dei Paschi, che aveva necessità di un intervento pubblico per essere messo in salvo, ma i tedeschi a suo tempo espressero tutto il loro dissenso in ambito Ue, dichiarandosi contrari. Eppure il loro governo non era agli esordi quando ha deciso di salvare Deutsche Bank, ne avevano già fatte di operazioni in deroga alle norme europee sui loro istituti. Del “rischio default” del colosso finanziario, ne ha parlato diffusamente anche il settimanale finanziario tedesco, Handelsblatt.
Una premessa per concludere che questi giganti della finanza, possono diventare dei burattinai, e usare le liane che li legano agli Stati in crisi, tramite appunto i titoli che possiedono del debito sovrano, per realizzare operazioni a loro favore, senza alcuno scrupolo morale, in totale cinismo, anche se lo Stato in questione finisce poi in una scarpata.
E’ quello che stava accadendo all’Italia nel 2011, Deutsche Bank era come un caimano che aveva nelle potenti fauci una parte consistente di titoli di Stato, e di quegli 8 mild, nel primo semestre dell’anno, decise di venderne 7, ma senza fare tanto rumore. Si comportò tuttavia come un ladro che ruba con la luce accesa, anzi, quasi alla luce del sole. Speculò sulle disgrazie di un Paese in affanno, le cui finanze facevano acqua da tutte le parti. La vendita dei titoli ne portò al tracollo il valore, lo spread fece un balzo terribile, tale da causare la caduta del governo Berlusconi.
Prima un’implosione di cause, e poi con la spinta causata dai manager di DB, l’esplosione, al quale seguirono, come avvoltoi, i declassamenti delle Agenzie di Rating: un tornado. Uno dei momenti congiunturali più difficili per il Paese.
Ma fino a che punto sono responsabili i tedeschi della Deutsche? Certamente questo colosso conosce bene tutta la potenza esplosiva di certe armi finanziarie, ne fu il detonatore, e premette il fatale ‘pulsante’, per pura speculazione, per i propri interessi, dato che fin da allora, il maggiore istituto bancario tedesco, accusava falle nei suoi sistemi.
Ora, sulla maxi speculazione della Deutsche indaga la Procura di Milano (da ottobre), per ragioni di competenza territoriale (è stata la difesa della banca tedesca a chiederlo), dopo essere passata per quella di Trani. Non si è trattato di avocazione, lo ha deciso la Corte di Cassazione. L’accusa è di manipolazione del mercato, un’operazione finanziaria di circa 10 mld di euro. I magistrati pugliesi avevano chiesto il rinvio a giudizio di 5 manager, i top alla guida del gruppo Deutsche nel 2011 (ora c’è un nuovo management): l’ex presidente Josef Ackermann, e due ex Ad, Jurgen Fitschen e Anshuman Jail, e dello stesso Istituto, in qualità di persona giuridica.
Dall’indagine e dal controllo di documenti sequestrati da agenti della finanza nella sede milanese, è emerso che, dopo la vendita dei titoli di Stato italiani (7 mliardi in Btp), nel primo semestre 2011, Deutsche aveva ricominciato ad acquistare titoli del nostro debito sovrano (nel mese di luglio), i quali, proprio in seguito ai movimenti di mercato causati dalla speculazione, erano stati svalutati parecchio, e pertanto era più che mai conveniente acquistare.
E infatti acquistò di nuovo titoli per un importo di circa 3 miliardi, ma non lo fece sapere in giro, per non destare sospetti. Solo che non sono occorsi droni particolari per venire a capo degli intenti truffaldini del management dell’istituto tedesco. E non era il solo ‘malloppo’: altri quattro miliardi e mezzo di titoli erano in mano ad una società che la Deutsche aveva acquisito nel 2010.
Dagli atti risulta che solo alla fine di luglio del 2011, la banca tedesca annunciò la vendita dei titoli italiani avvenuta entro giugno, ma tenne ben stretto in pugno il segreto sui nuovi acquisti. Strategie, ovviamente, per fare passare in sordina l’operazione, ma i manager erano ben consapevoli del colpo inferto allo Stato italiano, causando la volata dello spread (ossia i rendimenti tra Btp e bund tedeschi), e facendo cadere il governo, il quale fu consegnato ad un ‘Caronte’ esperto in ambito finanziario, Mario Monti.
Certo, in seguito alla travolgente crisi della Grecia, e la forte esposizione al rischio delle banche tedesche, la mega operazione dei titoli di Stato italiani, rappresentava un affare non di poco conto per Deutsche. E intanto l’Italia stava per seguire le sorti della Grecia.. Il Financial Times, tanto per amplificare sul piano internazionale la notizia sul preoccupante stato dell’economia italiana, fece sapere che gli investitori fuggivano dal Paese, terza economia della zona euro. Secondo i magistrati italiani, la decisione dei manager di Deutsche, di ridurre l’esposizione sui titoli di Stato italiani, per importi così rilevanti, è a dir poco eclatante per quel che concerne i reali intenti.
C’era la volontà di lucrare su un momento veramente drammatico per l’Italia; le conseguenze, infatti si ripercossero sul differenziale di rendimento tra Btp decennali e omologhi Bund, uno schizzo che a fine anno superò i 500 punti base.
In Parlamento si chiese l’intervento di una Commissione d’inchiesta, e c’era ben donde. Nel bilancio della Deutsche Bank, tra i documenti, c’è un prospetto che indica l’esposizione al rischio dei paesi più vulnerabili in quel periodo (Grecia in primis, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna), nella colonna riguardante l’Italia si evidenzia, per il primo semestre 2011, un’esposizione di 996 milioni.
E’ pur vero, che in un periodo di buio pesto per l’economia europea, non era inconsueto per le banche, effettuare operazioni di cessione di titoli di Stato a rischio, mentre si attivavano anche ‘derivati di copertura’ (Credit Default Swap, per esempio).
Il management della Deutsche ha pertanto manipolato i mercati, e lo ha fatto con metodi a dir poco illeciti, poiché nei primi mesi del 2011 li rassicurava sulla sostenibilità del debito sovrano italiano, mentre in realtà, stava già pianificando una drastica riduzione dell’esposizione al rischio, attraverso la vendita dei titoli di debito contenuti nel suo portafoglio.
E portò, come si è visto, a compimenti gli obiettivi con una vendita massiccia di ben 7 miliardi di euro, proprio entro giugno di quell’anno.
Ovviamente non era pensabile che i mercati finanziari restassero indifferenti, l’operazione influenzò pesantemente il valore di mercato dei titoli, e non solo. Fu una slavina che tutto travolse all’interno del suo raggio d’azione: lo spread, il rating delle Agenzie internazionali, che peraltro sono state perseguite a loro volta dalla Procura di Trani per i danni che hanno causato all’economia italiana. Il declassamento del rating italiano, un dannosissimo downgrade, secondo le accuse della Procura (da A a BBB+), fu deciso “illegittimamente e dolosamente” da S&P nel 2011 “al solo fine di danneggiare l’Italia”.
Ma non finì così, tante furono le ripercussioni, tra queste anche il versamento di 2,5 miliardi di euro da parte del Ministero del Tesoro alla banca d’affari americana Morgan Stanley. Il pagamento era dovuto perché stabilito da una clausola in un contratto di finanziamento tra il Ministero dell’Economia e la banca Usa. Tale condizione portò all’estinzione di un derivato e il conseguente pagamento dell’importo da parte del Ministero del Tesoro.
Secondo un’indagine della COnsob, poi trasmessa alla Procura di Trani, che già stava indagando su Standard & Poor’s, Morgan Stanley è azionista dell’Agenzia di rating, il che crea le premesse per i fortissimi dubbi sulle mosse seguite alla tempesta scatenata da Deutsche Bank.
Ci si chiede come mai il Mef abbia ceduto alle pressioni di Morgan Stanley e abbia autorizzato il pagamento senza nulla obiettare in merito. Ci fu Brunetta, all’epoca, che espresse sarcasmo per il comportamento ‘impassibile’ del Ministro dell’Economia.
Ma alla Procura di Trani i dubbi sono aumentati quando si è scoperto che, nel periodo in cui il Tesoro ha versato la somma di due miliardi e mezzo, ai vertici della banca d’affari americana c’era Domenico Siniscalco, che aveva ricoperto la carica di Direttore Generale al Tesoro (in Italia, ovvio), e successivamente era anche diventato ministro dell’Economia. Interrogativi che passeranno alla Procura di Milano, che ora ha in mano gli atti.
DI VIRGINIA MURRU
Era nell’aria, ci si attendeva una reazione ben precisa, ed eccoli i risultati della politica internazionale scellerata, che scansa il buon senso per ragioni che vanno al di là della ponderazione dei propri atti, in un’epoca in cui gli equilibri geopolitici del pianeta, la stessa pace, sono nelle mani di personaggi che hanno manifestato segnali a dir poco pericolosi.
Le tensioni roventi tra Israele e Palestina hanno ripreso la loro escalation di violenze, da fonti palestinesi si apprende che ci sono stati 114 feriti, tanti dei quali con contusioni derivanti dai proiettili rivestiti di gomma lanciati dall’esercito israeliano. Altri palestinesi sono stati soccorsi in seguito ad intossicazione da gas lacrimogeni.
E la mattanza nella linea di Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme est, continua. Il fuoco delle tensioni ardeva certo sotto la cenere, ma era il caso che Trump
istigasse con l’ennesima sfida, se le parole non di rado sono le armi più destabilizzanti e pericolose? Il presidente degli Usa e il suo entourage non potevano ignorare le conseguenze di certe dichiarazioni, e nella striscia di Gaza le sirene hanno di nuovo suonato, mentre la gente si è riversata nei rifugi.
La decisione di trasferire la sede diplomatica americana da Tel Aviv a Gerusalemme, per imporre uno status ben preciso alla città, che non sarà più lo spartiacque fra tre religioni, non poteva suscitare entusiasmo né in Palestina né altrove nel mondo.
Tutto questo mentre il genero di Donald Trump, Jared Kusner era impegnato su un fronte di pace, e stava lavorando proprio per creare le migliori condizioni per riportare i rapporti tra palestinesi e israeliani su un piano di più sensato equilibrio. Non si sa fino a che punto i palestinesi si fidassero, ma si attendevano maggiori sviluppi. Non ci dovevano essere ingerenze, sia pure indirette, in ogni caso, era una partita da risolvere inter partes, secondo gli accordi di Oslo. Una partita infinita, che dura da oltre 60 anni.
Ma Trump è ‘uomo di parola’ e doveva mantenere la promessa fatta in campagna elettorale. E tuttavia, sul trasferimento della sede diplomatica, c’è anche un rimando politico che proviene dal Congresso, il cosiddetto ‘Jerusalem Embassy Act’ che era stato appunto votato nel 1995, ma al quale nessuno dei presidenti che si sono succeduti alla Casa Bianca aveva dato seguito.
Ognuno, vista la delicatezza e i rischi, ha rinunciato regolarmente, di sei mesi in sei mesi con la propria firma. Trump non vuole tradire gli elettori di credo ebraico, a costo di scatenare dissenso ovunque – perfino Theresa May ha espresso il suo disappunto – ma i riflessi peggiori sono stati i disordini, l’amplificazione delle tensioni a Gerusalemme.
Se Trump si ostinerà a portare avanti le sue strategie scellerate, le conseguenze potrebbero essere ben maggiori. Accendere nuovamente le ire dell’Intifada e le reazioni del suo nemico sionista, sempre pronto ad usare la forza per sopprimere le ragioni di un popolo cacciato dalla propria terra, senza alcuna misericordia, serve solo a riaprire i battenti di un incubo nella coscienza dell’umanità.
Gli Usa si sono sempre comportati da gendarmi nel mondo, decidendo il bello e il cattivo tempo, comminando sanzioni agli Stati non in regola con i principi democratici, come Cuba, costretta all’embargo per 50 anni, non sarebbe ora di sanzionare anche loro, per il lungo repertorio di violenze perpetrate a danno di popoli inermi?
DI VIRGINIA MURRU
La fusione tra Anas e FS, ossia di due aziende strategiche per gli investimenti infrastrutturali del Paese, è realizzabile entro l’anno, secondo il presidente dell’Anas, Gianni Vittorio Armani. In via di definizioni con il Ministero dei Trasporti, le prescrizioni formulate dalla Corte dei Conti, che ha dato il via libera alla registrazione del nuovo contratto.
La firma sul contratto di programma potrebbe essere apposta già entro questa settimana, secondo una comunicazione dell’Anas, l’integrazione con Fs è pertanto un obiettivo raggiunto.
A darne conferma anche il Mit, tramite il ministro Graziano Delrio, che così si è espresso in merito:
“l’integrazione di Anas con Fs, come già anticipato, sarà attuata entro quest’anno, saranno rispettati i tempi previsti”.
Già lo scorso aprile era nell’aria la conferma, poiché l’operazione aveva avuto l’ok da parte del Consiglio dei ministri, e la norma che autorizza l’integrazione, è stata inserita nel decreto legge sulla manovrina, in seguito all’autorizzazione della Ragioneria generale dello Stato.
Il decreto contiene altre 2 norme, delle quali, la prima è una precondizione, in quanto permette, con una somma di 700 mln provenienti dai risparmi di gare, di trovare una soluzione, in gran parte, per il contenzioso che grava sull’Anas verso gli appaltatori, e che ha un valore di ben 9 mld.
La seconda norma, voluta dal ministro Delrio, permetterà di velocizzare la procedura per il decollo delle opere già inserite nel contratto di programma Anas-governo, allorché giungerà l’ok del Cipe. Nella soluzione trovata dal Ministero dell’Economia e quello dei Trasporti, c’è il passaggio dell’Anas alle Fs, alle condizioni in cui si trova attualmente, con la garanzia di mantenerne l’autonomia.
L’integrazione non avverrà a titolo gratuito, ci sarà un aumento del capitale per Fs effettuato dallo Stato, per via del conferimento Anas. Il saldo complessivo che detiene lo Stato sulle due aziende, resterà invariato, ossia 40 mld (38 di Fs e 2 di Anas), il patrimonio dello Stato pertanto non varierà in termini di saldo complessivo.
In riferimento al contenzioso che riguarda l’Anas, del quale si è accennato, il presidente ha precisato “che è stata effettuata una valutazione in merito, e i fondi disponibili sono congrui.”
La situazione dell’azienda sembra stabile, nel sito ‘Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica’, si legge che lo scorso agosto ,il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica), ‘ha approvato lo schema di contratto di programma tra il Mit e Anas per il 2016/20. Il Piano pluriennale degli investimenti Anas per il quinquennio prevede circa 23,4 mld di euro, i quali aggiunti a quelli in fase di attivazione e in via di esecuzione, che sono 6,1 mld, raggiunge un valore di quasi 30 mld di euro, 21 dei quali sono già finanziati.
E’ per questo che Armani si dichiara ottimista sulla chiusura dell’esercizio dell’anno in corso, sottolineando che si è data priorità al rilancio degli investimenti, c’è stata una corsa all’aggiudicazione dei bandi, il che va ben oltre i risultati raggiunti nel 2016. Armani auspica che il nuovo contratto di programma possa consentire un autentico rilancio sul piano infrastrutturale, anche perché è il mantra che l’Ue ci propone costantemente in termini di sollecitazioni.
La fusione delle due grandi aziende è una maxi operazione attesa da tempo, finora fallita per cavilli di natura burocratica, ora è diventata una realtà, “si è avverata l’ultima condizione”, come ha dichiarato il Presidente dell’Anas, Gianni Vittorio Armani.
L’ennesima inchiesta da parte del Consorzio Internazionale dei giornalisti investigativi (CIGI), i paradisi fiscali hanno ora accessi ancora più trasparenti. Il 5 novembre scorso, questa rete internazionale di giornalisti – che ha sede a Washington, e conta sull’attività di 165 giornalisti investigativi, operanti in 65 paesi – con la pubblicazione di un articolo, ha reso noto la diffusione di nuovi files che contengono documenti su conti off-shore di persone fisiche e multinazionali.
Il CIGI (o in inglese ICIJ, International Consortium of Investigative Journalists), si occupa in particolar modo di reati transnazionali e di corruzione, e proprio quest’anno ha vinto il Premio Pulitzer (Sezione giornalismo di divulgazione), per avere pubblicato e rivelato, tramite lunghe inchieste, i Panama Papers. Di questo staff di giornalisti – che collaborano in sinergia su tanti temi di carattere internazionale, comuni ai loro paesi di appartenenza, non di rado inerenti traffici illeciti – fa parte anche il settimanale italiano ‘l’Espresso’, che ha condiviso con gli altri il prestigioso riconoscimento. Questa la motivazione del Premio, categoria ‘giornalismo divulgativo, attribuito dalla Columbia University di New York:
“Per aver svelato la struttura nascosta e la scala globale dei paradisi fiscali”.
I giornalisti del ‘Consorzio’ hanno investigato e pubblicato documenti importanti sui Panama Papers, legati allo studio legale Mossak Fonseca, dimostrando nel contempo che esiste una fitta rete di società offshore, usate purtroppo dagli stessi governi e dai potenti di turno (banchieri finanzieri, politici etc.) per eludere tasse celando al fisco profitti illeciti.
L’inchiesta ha coinvolto in tutto circa 300 giornalisti, che hanno messo in moto, attraverso controlli e indagini incrociate, qualcosa come 10 milioni di files e documenti, portando alla luce i traffici di 200 mila società, e centinaia di capi di stato. Naturalmente l’Italia non è stata esente da questa black-list: sono un migliaio le persone coinvolte.
I nuovi files mettono in luce altri paradisi fiscali (tax haven), tra i quali le isole Cayman e Bermuda; si tratta di nuove inchieste, che portano più in profondità lo scandaglio sui conti off-shore. L’inchiesta condotta nel 2016, che ha avuto per oggetto i Panama Papers, riguardava un network imponente di oltre 200 mila società off-shore, con sede a Panama.
Una slavina che tutto ha travolto nel suo percorso d’inchiesta, leader politici e personaggi in vista, noti nell’ambito dello sport o dello spettacolo, certamente individui facoltosi, interessati a portare il loro ingombrante portafogli fuori confine. Lo scorso anno, i giornalisti investigativi, avevano un archivio di oltre 11 milioni di files, riguardanti un arco temporale che va dagli anni ’70 al 2016.
Persone fisiche e imprese (non di rado un intrico di società fantasma), avrebbero sottratto al fisco e dunque all’Erario, imposte per un valore che si conta in milioni di dollari, e ha coinvolto studi legali e banche, i quali hanno assistito i propri clienti senza rispettare la normativa antiriciclaggio, e senza svolgere gli opportuni controlli.
E’ stata poi una reazione a catena: in questa deflagrazione sono finiti anche istituti di credito che operano in circuiti internazionali, risultati responsabili della costituzione di società a Panama e nelle Isole Vergini. Paesi che hanno una normativa ‘compiacente’ e accomodante, dove il denaro (soprattutto se proviene da fonte illecita), segue una rete contorta, non facile da individuare.
Ma i tax haven hanno strade accessibili anche per i finanziamenti al terrorismo, per il traffico di armi, per tutte quelle attività sommerse che non possono servirsi dei circuiti convenzionali. La garanzia del segreto e della massima discrezione è il lasciapassare di queste risorse, e investire diventa veramente un business. E’ in definitiva il segreto la maggiore attrattiva, e proprio la protezione sulla tracciabilità delle transazioni consente questi traffici, che vanno dal riciclaggio di denaro sporco, alle immense risorse derivanti dalla vendita di stupefacenti.
I governi possono agevolare l’elusione fiscale, favorendo per esempio le multinazionali con norme precise, dopo accordi non propriamente alla luce del sole. Il governo italiano è uno di questi.
L’Unione europea ha di recente contestato la riforma fiscale varata da Renzi nel 2015, che consentiva troppi sconti sulle tasse che avrebbero dovuto versare le multinazionali. Il premier Paolo Gentiloni ha quindi provveduto ad abolire, o a modificare, nel mese di aprile di quest’anno, le norme riguardanti il ‘patent box’ (ossia tassazione agevolata sui redditi derivanti da opere d’ingegno), le quali, appunto, stabilivano importanti riduzioni d’imposta per le società titolari di brevetti, marchi e licenze. In ambito Ue è stata la Germania, insieme ad alcuni altri paesi membri, a contestare all’Italia tale procedura fiscale in favore delle big del web, anche se, il ‘dossier’ al riguardo, è rimasto piuttosto riservato.
E’ stato comunque il settimanale l’Espresso a pubblicare i verbali riservati che vedono l’Italia sotto accusa. Sono proprio le cosiddette ‘Carte di Bruxelles’ a mettere in rilievo i vantaggi fiscali concessi alle big company, i cui traffici commerciali si svolgono tramite il web.
E’ un’inchiesta giornalistica che ha rivelato le valutazioni dello staff tecnico dell’Ue, circa il rispetto, in termini di compliance, delle regole europee; quindi sull’applicazione delle norme fiscali da parte degli Stati membri. Regole che sanciscono la trasparenza e la lotta all’elusione già indicate peraltro dall’Ocse.
E’ vero che l’Ocse ha fornito disposizioni ai singoli stati per favorire, con opportuni incentivi fiscali, brevetti e studi volti a migliorare l’innovazione (che rientrano poi nel ‘patent box’), ma ha nondimeno precisato che tali agevolazioni fiscali devono corrispondere a spese effettive sostenute per ragioni di ricerca e sviluppo.
L’Italia, che in ambito Ue, aveva i suoi ‘detrattori’ alle spalle, Germania in testa, è stata in definitiva accusata di avere contravvenuto a queste norme, le quali, come si è accennato, riguardano la riforma fiscale del 2015. Si tratta poi di benefici che davvero l’Italia non si poteva permettere, visto che prevedono un consistente sconto del 50% delle tasse per una durata di 5 anni. Non solo: il beneficio era possibile prorogarlo per altri 5 anni.
L’attuale Governo ha certo provveduto a modificare o a cancellare le norme al riguardo, ma in un certo senso è stato come ‘chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati’. L’Italia non è mai stata chiara nel fornire i nomi delle aziende che hanno beneficiato di queste agevolazioni, e i tecnici tedeschi, i più riottosi verso l’Italia – questa volta veramente a ragione – hanno sottolineato il fatto che, nonostante il governo Gentiloni abbia cercato di rimediare cancellando le norme sotto accusa, le multinazionali che hanno beneficiato finora delle agevolazioni, dopo avere siglato accordi con il Governo, potranno continuare a goderne fino al 2021..
Inutile perdersi in retorica e piangere ‘sul latte versato’, tanto per dirla con un luogo comune, di certo è stato un grande errore del governo Renzi. Se poi l’Ue ogni tanto ci dà una strigliata, non bisogna sempre atteggiarsi a vittime, perché di errori ce ne sono stati.
Su questo punto c’è da dire, secondo l’inchiesta condotta da l’Espresso, che possiamo consolarci col fatto che non siamo gli unici disobbedienti: discordanza con le norme fiscali sancite dall’Unione europea, ne sono state trovate anche nel ‘patent box’ della Spagna e della Francia.
DI VIRGINIA MURRU
Si è cercato di tendere le braccia in tutte le direzioni, accogliendo più emendamenti possibili ed effettuando correttivi anche al di là forse dei limiti, ma la finanziaria 2018 non è un cappello per illusionisti, né un pozzo senza fondo, oltre non si può andare. Il piano di spesa deve essere contenuto in un ‘portafoglio’ alla portata dell’azienda Italia, impegnata più che mai a fare quadrare i conti secondo le regole imposte dai trattati dell’Unione europea.
Troppi gli emendamenti presentati, non ci poteva essere attenzione per arrivare a tutto; avranno spazio (oltre ai ritocchi riguardanti le materie più dibattute, ad esempio le pensioni, e l’esenzione da ‘quota 67’ delle 15 categorie di lavori gravosi) anche i fondi per rivedere il superticket e il rifinanziamento dei cosiddetti ‘bonus bebé’, un incentivo ‘salva librerie’, che non siano parte di una catena facente capo allo stesso editore. E ancora sostegno per giovani e donne, e perfino un fondo (di 2 milioni) per i festeggiamenti del carnevale.
Ok alla web tax, anche se entrerà in vigore dopo un anno (approvata il 26 novembre), ossia il 1° gennaio 2019. Partirà quindi una flat tax pari al 6%, che sarà applicata a tutte le transazioni on line (ad eccezione di agricoltori e aziende agricole). L’emendamento relativo alla web tax è stato presentato da Massimo Mucchetti, il quale sottolinea che ‘una volta a regime le entrate che ne deriveranno saranno prossime al miliardo di euro, sicuramente ossigeno per l’Erario’.
Secondo la relazione tecnica di Massimo Mucchetti, senatore Pd e presidente della Commissione Industria, una prima stima del gettito però sarà di 114 milioni di euro. L’iniziativa sulla web tax è solo italiana, al momento, ma in ambito europeo se ne discute già da mesi con altri paesi, Germania in primis. Tutti concordano sulla necessità di mettere un argine ai lauti profitti delle multinazionali, le quali, fino ad ora, hanno solo cercato di eludere il fisco dei paesi nei quali avvengono effettivamente le transazioni.
L’iniziativa è solo italiana, si diceva, perché se si aspetta la locomotiva dei paesi Ue interessati a regolamentare i traffici commerciali della rete, si finisce come ‘Godot’, per dirla come il senatore Mucchetti.
E infatti a settembre, nel corso del summit dei Ministri delle Finanze europei a Tallinn, si è parlato dei giganti del web e del loro agire illecito nei confronti del fisco, tanti buoni propositi, convergenza di vedute, sdegno, oltre che da parte del rappresentante italiano, anche di quello francese, tedesco e spagnolo. Ma poi di nuovo silenzio, attese estenuanti per un intervento che dovrebbe avere priorità d’agenda in ambito europeo.
La tassa sul fatturato delle multinazionali che operano nell’ambito della digital economy, non ha trovato concreta applicazione, né un accordo definitivo. Dietro le incertezze i timori delle ‘ritorsioni’ degli stessi giganti che operano con i loro traffici commerciali sul web, i quali potrebbero decidere di fare le valigie e ‘migrare’ in altri lidi più accoglienti.
Importante per la Finanziaria anche il fondo istituito in favore dei caregiver, che sostiene un’ampia platea di familiari impegnati non di rado notte e giorno ad assistere familiari affetti da gravi patologie, e dunque non autosufficienti.
Il senatore Pd Giorgio Tonini, presidente della Commissione Bilancio, è preoccupato, il dibattito non segue una procedura spedita, slitta di qualche giorno il voto finale, è un iter simile ad una corda piena di nodi, probabilmente entro il 29 novembre si dovrebbe avere una visione più chiara degli interventi. Il problema è anche una maggioranza risicata, a svolgere un ruolo di discrimine sono due senatori di Ala (Alleanza Liberalpopolare-autonomie), i loro voti sono stati determinanti per la Commissione Bilancio del Senato.
Si è discusso forse troppo sul sovraprezzo imposto dalle regioni per le prestazioni specialistiche di carattere sanitario, anche perché ognuna ha parametri di applicazione diversi e non è facile districarsi in questa giungla. Il Governo ha arginato gli ostacoli con un fondo di 60 milioni, ma non tutto è stato definito, questo punto si è rivelato uno dei più difficili da superare in termini di accordi.
Un occhio alla spia rossa delle risorse disponibili, e uno alle raccomandazioni della Commissione europea, che ha sospeso il giudizio sui conti italiani fino alla prossima primavera, in attesa di prospettive più certe.
In seguito alla lunga serie di intoppi, di stop and go, la finanziaria arriverà in Aula a Montecitorio quasi sicuramente mercoledì.
DI VIRGINIA MURRU
Solo con un’ordinanza si poteva mettere fine al ‘bagarinaggio’, ossia alla vendita di biglietti a prezzo maggiorato (esattamente il doppio di quelli venduti dai canali ufficiali del Mibact) da parte di una società privata, la Visit Today, che agiva dunque fuori dai circuiti della Galleria dell’Accademia. Il divieto di usare l’immagine del David è rivolto non solo al territorio italiano, ma anche a quello europeo. Niente immagine sui biglietti, su volantini o materiale pubblicitario.
E’ stata l’Avvocatura dello Stato a presentare regolare istanza al tribunale di Firenze, il quale l’ha accolta emanando poi l’ordinanza che vieta lo sfruttamento dell’immagine del David in qualsiasi modo, soprattutto per fini di carattere commerciale. Il rigore di questo veto avrà sicuramente impressionato tutti coloro che, proprio per fini commerciali, utilizzano l’immagine del mito scolpito superbamente da Michelangelo, e si pensa dunque a chi vive della vendita di souvenir.
Per la direttrice dell’Accademia di Firenze, Cecilie Hollberg, è una decisione importante da parte della magistratura, finalmente si porrà fine al traffico illecito di biglietti fin troppo maggiorati, e si auspica che altri musei ne seguano l’esempio. Si tratta, secondo la Hollberg, di una misura importante. Della stessa opinione il sindaco di Firenze, Dario Nardella.
DI VIRGINIA MURRU
Il pungolo è quello dello scorso anno, sembra anzi un tamburo battente, che per la verità suona un po’ troppo fuori dal coro, considerati gli ottimi giudizi espressi dalle Organizzazioni internazionali che monitorano l’economia globale.
Strigliate continue ad un Governo che ha compiuto ogni sforzo possibile per arrivare a un dignitoso risultato di fine legislatura, senza dimenticare che ha preso le redini quando il Paese, nel 2014, aveva imboccato il sentiero della recessione.
Tutto questo mentre è appena arrivato l’ennesimo risultato positivo da parte dell’istat, con il Pil in crescita all’1,5% (stima rivista da +1%), ossia al top dal 2010 a questa parte. A spingerlo in avanti è la domanda interna, ma a questo dato seguono altre positive performance dei dati macro, come il calo del tasso di disoccupazione, e l’aumento dell’occupazione, sempre provenienti da calcoli statistici.
Basterebbe del resto riflettere al dissesto dei conti pubblici che ha ereditato il Governo, e agli strettissimi margini di manovra che purtroppo hanno permesso, per osservare i fatti su prospettive migliori.
Le raccomandazioni della Commissione europea, tramite il vicepresidente Valdis Dombrovskis e il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici, danno una lettura della realtà che non lascia spazio, se non con un trascurabile inciso (‘riconosciamo l’impegno del Governo..’), che fa sentire il Paese sempre sul limite del baratro.
E sempre a rischio procedura d’infrazione, comunque a rischio di ‘non rispetto del Patto di Stabilità e Crescita’ sancito dal Trattato di Mastricht.
Ancora in agguato resta dunque la procedura per il debito pubblico ben oltre il limite, ai sensi dell’art. 126/3 dei Trattati.
Anche se la Commissione si riserva un altro rapporto a febbraio sugli scompensi macroeconomici rilevati, e dunque c’è sempre da vigilare, siamo in buona compagnia, dato che insieme a noi c’è Francia, Irlanda, Germania, Svezia, Bulgaria, Portogallo, Olanda, Cipro, Croazia e Slovenia.
Ma i paesi effettivamente ‘disobbedienti’ in materia di compliance sono 5: Italia, Belgio, Austria, Portogallo e Slovenia. In particolare il Belgio naviga più o meno nelle stesse acque dell’Italia quanto a debito pubblico.
Sulla bozza della legge di Bilancio inviata di recente dal Governo alla Commissione, si sottolinea in chiaro che “The Plan is at risk of non-compliance with the provisions of the Stability and Grouth Pact” (Il Piano è a rischio inadempienza con le disposizioni del Patto di Stabilità e Crescita).
Tutto questo è francamente umiliante, se facciamo parte del G7, qualche ragione pure l’avrà l’economia italiana. Nel mirino il debito pubblico, sempre sul banco degli imputati, e qui purtroppo non si possono fare grandi passi avanti, se quando lo si è preso in mano era già quasi ‘intrattabile’, un mezzo mostro.
Nella lettera inviata dalla Commissione, si legge tra l’altro:
“La persistenza del debito pubblico è motivo di preoccupazione, la Commissione si riserva di effettuare altri controlli sui parametri e il rispetto delle regole nei primi mesi del 2018. E ancora:
“Sappiamo che l’Italia ha compiuto tanti sforzi per favorire la crescita, ma nel 2018 è fondamentale che la manovra presentata sia attuata con rigore in tutte le sue disposizioni, affinché diventi possibile raggiungere in termini strutturali lo 0,3% del Pil. Per questo è importante non ‘annacquare’ le ultime riforme in ambito welfare, non è consentita nessuna retromarcia sulle pensioni, dalle quali dipende la sostenibilità nel lungo periodo”.
Moniti che non suonano come ‘sedativi’ per la recente vertenza tra Governo e sindacati, nella quale è emersa la contrapposizione della Cgil, che non intende accettare la trattativa e ha già dichiarato che la mobilitazione sarà inevitabile. Un Governo che deve mediare tra due fuochi: da un lato i sindacati, dall’altro la Commissione europea, che non lascia scampo.
La Commissione infine si raccomanda in ambito Eurozona sul completamento dell’unione bancaria, invita a favorire quanto più possibile l’inclusione sociale, l’uso di strategie volte a migliorare la produttività e la crescita potenziale, rendendo in tal modo più solida anche l’Eurozona.
DI VIRGINIA MURRU
La Cgil aspetta con cautela l’incontro di domani, 21 novembre, ma la Segretaria, Susanna Camusso, avverte che, in considerazione dei risultati insoddisfacenti, scaturiti dai confronti avvenuti nelle ultime settimane, esiste uno stato di fibrillazione che potrebbe condurre alla mobilitazione, qualora non si accettassero le proposte del sindacato sulle pensioni.
Dichiara al riguardo Susanna Camusso:
“non siamo di fronte ad un quadro che risponde alle nostre richieste e agli impegni che erano stati assunti, e confermiamo pertanto la necessità che si risponda a questa indisponibilità ad affrontare l’ingiustizia esistente nel sistema, e soprattutto l’assenza di prospettiva per i giovani”.
E per le donne, un tema più volte messo in campo nel corso degli ultimi incontri, che il sindacato mette in primo piano per giungere ad un accordo più equilibrato.
Il Governo sostiene di avere compiuto ogni sforzo possibile, considerato ‘il sentiero stretto’ della finanza pubblica (più volte ribadito dal ministro dell’Economia, Padoan), per giungere ad un’intesa con la Cgil. Si tratta di estendere l’esenzione dall’aumento dell’età lavorativa, oltre che alle 15 categorie di lavori ritenuti usuranti, anche alle pensioni di anzianità, nonché a quelle di vecchiaia. A queste proposte il Governo aggiunge la disponibilità a rendere attivo un Fondo per stabilizzare l’Ape Social.
Tuttavia, secondo la Camusso, si può andare oltre, la posta in gioco riguarda i giovani e le donne, ‘categorie’ sociali sensibili, che hanno necessità di una maggiore tutela; non ritiene che su questi temi si possa transigere e di conseguenza l’ultima istanza resta la mobilitazione generale, come prova di forza per spingere il Governo a riaprire la trattativa.
Secondo le dichiarazioni del premier non sembra ci sia spazio per ulteriori compromessi, l’incontro di domani, ha già precisato Gentiloni, non porterà sul tavolo altre concessioni, ci si aspetta semmai una riflessione da parte della Cgil, eloquente.
Ma sul welfare, il sindacato non ha alcuna intenzione di arrivare ad un compromesso.
Eloquente il tweet appena pubblicato:
CGIL Nazionale @cgilnazionale
#Pensioni Età, giovani, donne: i conti non tornano. L’intervista del segr.gen. Cgil Susanna Camusso a RadioArticolo1
La Segretaria, Susanna Camusso, tornerà domani davanti ai rappresentanti del Governo, per un chiarimento sulle proposte che gli stessi hanno avanzato, e sui mezzi che s’intendono impiegare. Il sindacato si accinge a valutare la portata di questi mezzi, ed eventualmente decidere se siano sufficientemente consistenti, a garanzia degli impegni presi.
In realtà è già chiaro che il Governo metterebbe a disposizione 300 milioni di euro, che tuttavia garantirebbero, secondo la leader Camusso, una platea di lavoratori pari al 2%, nell’arco di dieci anni, ‘quota’ inferiore agli impegni presi nell’autunno del 2016. A questo si aggiungono lacune di attenzione nei confronti di giovani e donne, manca a questo riguardo, per esempio, una proposta di ‘pensione garanzia’ per i giovani.
“Oggi – sostiene Susanna Camusso – coloro che hanno la fortuna di avere un lavoro che garantisce carriera e buon trattamento economico, possono andare in pensione 3 anni prima, perché nel contributivo si matura un assegno che è maggiore di 2,8 volte il minimo. Cosa che invece non avviene per le categorie meno ‘remunerative’ in termini di salario, soprattutto se il lavoro è discontinuo, pertanto noi esigiamo maggiore equità sul contributivo.”
Sulle aspettative dei giovani nel corso dei colloqui non si è dunque transatto: è necessario, secondo la Camusso, garantire il loro avvenire, anche perché le nostre richieste oggi non aggiungerebbero oneri ai conti dello Stato, se ne riparlerebbe in questo senso tra 15 anni.
In una trasmissione televisiva, ieri, ha dichiarato che il governo dimentica gli impegni presi, dato che durante un incontro al Ministero del Lavoro di qualche mese fa, aveva proposto interventi importanti sui giovani, dei quali poi non si è più parlato.
Meglio sarebbe, secondo la Cgil, rimandare a giugno la decisione di far scattare i cinque mesi di lavoro; sulla base dei nuovi ‘target’ di aspettativa di vita, si avrebbe più tempo per una discussione più obiettiva e una definizione più equa su questi temi delicati.
Non ci si può ‘accontentare’ della volontà che ha dimostrato il Governo, secondo la Confederazione sindacale rappresentata dalla Camusso, perché lo stop dei cinque mesi in favore delle categorie di lavori gravosi, non è in realtà né utile né incisiva per la tutela, in quanto è difficile raggiungere per questi lavoratori i 42 anni e 10 mesi di contributi. Mentre per quel che attiene alle pensioni di vecchiaia, non basta l’intento di esentarle dallo scatto degli ulteriori cinque mesi, se si fissa un limite di contributi di 30 anni, invece di lasciare invariati i 20 anni.
La Cgil considera queste proposte un po’ farlocche, espresse senza tenere conto delle reali ripercussioni e dell’efficacia.
“Così – afferma Camusso in un’intervista al Corriere della Sera – si riduce la platea ai minimi termini.”
Lo sciopero è pertanto sospeso, vincolato agli esiti dell’incontro di domani, martedì 21 novembre. Qualora il Governo non tornasse indietro e si mostrasse intransigente, lo sciopero generale previsto per il 2 dicembre, sarebbe inevitabile.
DI VIRGINIA MURRU
Sono proprio le multinazionali più in vista a fare la parte del leone e a defilarsi, come mani lunghe che rubano con la luce accesa, ma tant’è: finora non se ne sono curate più di tanto, forti delle protezioni e della legislazione dei paesi che hanno una pressione fiscale davvero minima.
Sta di fatto che nel giro di 5 anni, i cosiddetti giganti del web, senza fare tanto rumore, hanno eluso 46 miliardi di euro. ma vanno anche oltre, fino a 69, se al vasto repertorio dei ‘fedifraghi’ si aggiunge Apple, il gigante dell’hardware che presenta il fatturato più consistente (e che non è però una internet company).
Sono le risultanze delle recenti indagini condotte da ‘Ricerche e Studi di Mediobanca’.
Inutile domandarsi in che modo si può essere volpi, se la consuetudine di spostare grandi capitali off-shore non è nata nel terzo millennio, ma viene da lontano, e le autostrade dell’evasione sono quelle che portano ancora verso i paradisi fiscali, dove lo Stato, sul versante delle tasse, mangia a piccoli morsi.
Per questo il denaro qui soffre molto meno che nei luoghi dai quali proviene. E non è un mistero che in Europa, il Lussemburgo, l’Irlanda e l’Olanda, abbiano tetti più sicuri per multinazionali come Facebook, Amazon, Google, Microsoft ed Apple, tanto per citare le più note.
I loro utili vengono portati sistematicamente fuori dai paesi in cui si sono generati, per una semplice questione di pressione fiscale, certamente più forte rispetto ai paesi in cui questi capitali vengono ‘traslati’.
In Cina le multinazionali non fanno eccezione, e non sono meno scaltre di quelle citate, operanti tra Stati Uniti ed Europa: Tencent ed Alibaba, tanto per non scomodare il fisco ed eventuali strali della giustizia, hanno stabilito la sede proprio nelle isole Cayman, notoriamente meno aggressive in materia fiscale.
Le web company hanno versato all’Agenzia delle Entrate veramente inezie rispetto ai ricavi generati nel nostro paese: 12 milioni (si tratta di Amazon, Apple, Tripadvisor, Twitter, Facebook e Airbnb), esponendosi così all’indignazione delle grandi e medie aziende che operano offline, e che in termini di compliance con il fisco sono sicuramente più virtuose. Il Governo in Italia sta prendendo atto finalmente delle grandi perdite per l’Erario, e chiede con forza l’introduzione di una tassa Ue. Troppi utili sottratti alle imposte, dato che, come si è visto, al fisco lasciano solo ‘bruscolini’.
Non è servito a molto fino ad ora ricorrere al patteggiamento, perché poi questi giganti riprendono il vecchio sentiero con la segnaletica più conveniente, che porta nei paesi compiacenti in termini di aliquote fiscali, così i ricavi delle transazioni digitali mettono le ali senza alcuno scrupolo.
La Procura di Milano era riuscita pochi mesi fa a indurre Apple e Google al patteggiamento, chiedendo 600 milioni (in due), come saldo di pendenze arretrate col fisco, ma poi la lezione è evidentemente troppo difficile per essere assimilata, quando gli interessi in gioco sono alti.
Le residenze legali restano laddove si campa meglio, senza eccessiva ‘oppressione’ fiscale. E così continua ad agire Facebook, per esempio.
Inutile che in Italia le autorità competenti abbiano accertato un utile per la vendita di servizi (pubblicità), pari a 225 mln, perché questi ricavi si sono subito messi in viaggio alla volta dell’Irlanda, luogo più ‘salutare’ per gli utili, e l’Agenzia delle Entrate in Italia non ha visto che briciole. Si capisce che sono situazioni ormai inammissibili, come si è visto non si tratta solo di Facebook, anche le altre big fanno saltare i soldi dal cilindro altrove.
Per anni e anni di evasione, Google Italia ha registrato in bilancio tasse che incidono per 42 mln, ma la quota di competenza relativa al 2016 è solo una piccola parte, il resto riguarda anni e anni di inadempienze. Per forza poi i conti non tornano, e a questo punto, obbligare le potenti multinazionali a versare tutte le imposte sui profitti generati in Italia, è il minimo.
L’evasione riscontrata nelle web companies non riguarda solo l’Italia, ma anche altri paesi europei, fortemente danneggiati dal loro operato. Si cercano strategie normative per mettere con le spalle al muro le multinazionali, finora ci sono stati solo ultimatum di cause legali (la Procura di Miano ha aperto un fascicolo su Amazon, accusata di avere evaso 130 mln), ma il problema, nonostante qualche riflessione, non è stato risolto.
L’Ue ha perseguito l’Irlanda (deferita alla Corte di Giustizia), uno dei paesi più ‘accoglienti’ per i profitti, obbligandola a versare 13 miliardi di euro, per avere concesso agevolazioni fiscali non dovute, ma non è certo che questo Paese membro dimostrerà fedeltà alla normativa Ue. Diffidata anche Amazon, ha forti pendenze fiscali con il Lussemburgo.
Intanto, da qualche mese, si avverte aria di grande insofferenza, e così Italia, Germania, Francia e Spagna, che poi corrispondono alle economie più solide dell’Ue, hanno deciso di reagire e di chiedere un regime fiscale comune, con tassazione digitale, per obbligare le multinazionali a non portare altrove i ricavi originati nei paesi di competenza (fiscale), dove il valore si crea. Neanche a dirlo, i paesi di appartenenza delle multinazionali (le più grandi sono degli States), fanno scudo e tentano di difenderle in tutti i modi dai possibili fulmini in arrivo dall’Ue.
La sfida ha tutta l’aria di non essere a portata di mano.
Secondo gli studi portati avanti da Mediobanca, le grandi del web hanno eluso imposte per oltre 11 mld di euro, tra queste c’è Microsoft che ha messo in salvo 3,6 mld, e Apple 5,3 mld, a seguire le altre, che pure hanno ‘risparmiato’ parecchio.
Ossia circa due terzi degli utili (prima d’essere stato tassato), è finito nei paesi dei quali si è detto, perché molto più soft in termini di pressione fiscale, rispetto alla sede delle web companies. La pressione fiscale negli Usa è pari al 35%..
Ormai questi colossi sono sorvegliati dall’Ue, e Google, bontà sua, ha dichiarato che resterà in Europa, a condizione che le imposte siano ‘semplificate’.
Pretendono davvero troppo, dato che, a giudicare dai profitti, non rischiano certo il tracollo. E’ Amazon la numero uno dell’e-commerce – già per 3 anni di seguito – con un ricavo, nel 2016, di 129 miliardi di euro.
Alle grandi dell’e-commerce cinese va anche meglio, ma del resto c’è dietro un grande mercato, solo la Cina ha quasi un terzo degli abitanti del pianeta. I loro guadagni sono enormi.
Della web tax, in Italia, che mira a regolamentare, nell’era della digital economy la tassazione sugli utili delle multinazionali, si è fatto promotore il deputato Pd Francesco Boccia, il quale ha di recente ribadito che si tratta “di una battaglia di equità”.
Aggiungendo che “parlare di web tax non significa tassare il mondo, ma trattare in termini di tassazione il mondo online come quello offline, non consentendo ai grandi gruppi del web di farla franca, cosa che nemmeno i piccoli commercianti possono fare. Pertanto le multinazionali devono pagare le imposte indirette nei Paesi in cui i profitti si originano”.
Il 17 novembre, dopo l’approvazione alla Camera della fiducia sul decreto fiscale collegato alla manovra, (nell’ambito della discussione sulla legge di Bilancio in Senato), dal Pd è arrivato l’emendamento già annunciato, sulla web tax. L’emendamento è frutto dell’attività di un anno nelle Commissioni di Industria e Finanza del Senato.
Il Governo non aveva introdotto la tassa nel testo base, lasciando al Parlamento la libertà d’intervenire. L’emendamento rafforzerà la regolamentazione transitoria (sulla digital tax), inserita nella manovrina di aprile. Secondo il primo firmatario, Massimo Mucchetti, senatore Pd bresciano, nonché presidente Commissione Industria:
“ai soggetti non residenti, che comunque avessero stabile organizzazione nel nostro paese, sarà tassata, al pari di tutte le società, la base imponibile dichiarata e verificata dall’Agenzia delle Entrate. L’emendamento introdotto sulla legge di Bilancio, ha il fine di regolare la tassazione dei profitti o ricavi originati in Italia da queste grandi aziende che operano nel web. Auspichiamo che la nuova norma sia approvata, poiché prevede una tassazione del 6% dei ricavi (o transazioni digitali) per la cessioni di servizi provenienti da soggetti non residenti a soggetti residenti in Italia.”
La preoccupazione, semmai, secondo il promotore della digital tax, Boccia, è che la nuova tassa possa colpire le aziende italiane in regola, poiché essa è rivolta esclusivamente alle multinazionali del web, che fino ad ora hanno evaso somme ingenti sfuggendo al fisco.
Nel corso del meeting di Strasburgo di alcuni giorni fa, infatti, la Commissione ha deciso di chiedere al Governo ulteriori chiarimenti sulla manovra 2018 (bozza di legge di Bilancio) e sulle risultanze dei conti relativi al 2017.
La lettera sarà quasi certamente formalizzata e trasmessa il 22 novembre prossimo, secondo alcune Agenzie di stampa, allorché diventerà ufficiale il parere sulla legge di Bilancio 2018- E tuttavia, secondo la Commissione, è opportuno attendere le verifiche di Eurostat ad aprile, con numeri più chiari, per accertare se ci sia effettivamente stato uno scostamento dai parametri europei nel 2017. Si dovrà attendere dunque fino a maggio prossimo, mese in cui, solitamente, la Commissione, rende note le proprie previsioni.
Il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, ha già risposto alla missiva di fine ottobre (prima della pubblicazione delle previsioni autunnali), circa le perplessità espresse sullo scostamento dei conti italiani rispetto a quelli redatti dai tecnici dell’Ue. Il riferimento è evidentemente alla riduzione programmata del deficit, rivisto secondo gli effetti del ciclo economico, e al ‘netto’ delle una tantum.
Padoan aveva concordato tre decimi di punto di Pil con il Commissario Pierre Moscovici (accordo politico), ma si sarebbe andati tuttavia anche oltre, secondo la Commissione, rispetto a quelli concordati. In termini numerici, la deviazione sarebbe pari a 3,5 mld di euro, e pertanto il Governo dovrà provvedere con una manovra correttiva, così come è già accaduto per la precedente Legge di Bilancio presentata dall’ex premier Matteo Renzi.
Il più riottoso sembra essere Jyrki Katainen, nel suo ruolo di vicepresidente della Commissione, il quale sostiene che l’Italia non stia migliorando in termini di finanza pubblica. E queste sarebbero ‘le illazioni’ che hanno poi suscitato lo sdegno di Padoan.
Ricordiamo che la Commissione europea ha il potere di respingere la Legge di Bilancio dei Paesi che non risultassero virtuosi in termini di compliance, rispetto alla normativa fiscale dell’Unione. All’Italia comunque, si è chiesto un ‘aggiustamento’ strutturale che slitterà al 2018. A ottobre, il Governo ha preso un impegno per un aggiustamento dello 0,3%, un braccio di ferro che dura da più di un anno, e che Padoan ha più volte motivato con la lunga serie di emergenze che l’Italia ha dovuto affrontare, come gli eventi sismici e la gestione dei flussi di migranti.