DI GIANLUCA LOMBARDI
Il Bel Paese, oppure meglio, quello che ne resta del bel paese è una frastagliata e poco moderna questione di disuguaglianze, più o meno assortite.
Abbiamo ricchi approfittatori, ricchi arricchiti dal nulla, ricchissimi portaborse e prestanome e una ridda multiforme di diversamente ricchi che per sbarcare il lunario devono prostrarsi al novello salvatore della Patria: spesso interpretato da burattini impreparati che hanno dalla loro parte banchieri e sobillatori maldestramente e autodefiniti di Sinistra.
La realtà, come potete ben vedere e constatare, è ben più articolata e eterogenea rispetto alle sopraesposte definizioni e mette in risalto una difformità di trattamenti: salariali, sociali, di diritti e doveri dispersi nel limbo delle non decisioni. All’interno di tutte queste eterogeneità abbiamo una disparità che fa il paio con le condizioni reali del nostro paese e delle nostre fragilità legislative.
I soggetti, così definiti deboli, in passato hanno trovato una collocazione interessante e salvatrice all’interno di percorsi partecipati e di inclusione: detti processi hanno tradotto il termine Cooperazione del primo novecento in connotazione definitoria “Sociale”, collocando nella piena crisi di valori un concetto già di per sé con valenza inclusiva e pertanto sociale. L’emancipazione che ne è derivata, sia da un punto di vista lavorativo che di tipo sociale, ha determinato l’affrancarsi di un numero sempre crescente di soggetti svantaggiati e persone con differenti dipendenze fisiche e psichiche da droghe e alcool, oggi in qualche modo raggiunte dalle dipendenze da gioco. Lo Stato ha cercato negli anni’90 di rimediare questo enorme gap legislativo attraverso una legge ancora in discussione, la 381/90 che rischia oggigiorno di spianare la strada verso un vero e proprio massacro sociale di una classe che non avrebbe alcuna sponda né politica tantomeno legislativa. Resta ad oggi una legge scritta che riconosce innegabili priorità nel reinserimento lavorativo e quindi nello stesso lavoro un vero argine allo sfacelo che un Welfare altrimenti gestito avrebbe causato. Restano però troppi rischi e altrettante incertezze nel modello Sociale della Cooperazione, dove il mercato e le leggi truffaldine di uno Stato non più sovrano hanno promulgato e calato da un mondo parallelo fatto di incoscienza e ignoranza della realtà. Oggi le gare la massimo ribasso e le varie Spending Review, che non sono altro se non lo sperone di una nave alla deriva lanciato sul welfare e sul sociale, stanno vanificando anni e anni di lotte di migliaia di lavoratrici e lavoratori messi alla prova delle leggi del mercato. La Cooperazione e il Legislatore hanno il dovere e il diritto di tenere fuori dalle regole di mercato tutte quelle Cooperative che abbiano realmente svolto il loro lavoro di instradamento al lavoro per tanti ragazzi che altrimenti sarebbero stati respinti perché giudicati inadeguati: “Scarti” della società post moderna che illude i propri intermediari facendogli credere che l’apparire è forza e l’essere è inadeguatezza.
In questa modernità rientrata da una rivoluzione industriale massacrante per le classi subalterne, ma ricca di spunti per lotte vittoriose, la Cooperazione Sociale ha potuto navigare e stare a galla attraverso una velocissima seppur difficoltosa crescita, raggiungendo picchi di ineguagliabile autonomia e dialettica politica e lavorativa. Ha messo a disposizione della società un enorme patrimonio di conoscenze e professionalità in grqdo di costruire servizi per le persone mai sperimentati dallo Stato e poi utilizzati dallo stesso come fiori all’occhiello di un nuovo modo di vedere il welfare.
L’intervento dello Stato è richiesto nello stretto necessario di una legge finalmente in grado di rappresentare le differenze che rappresentano le nuove classi sociali nel nostro paese. Abbiamo bisogno di uno Stato che ridisegni in prospettiva quelle che oggi sono le realtà più diffuse e cioè tutte quelle lavoratrici e lavoratori che escono dal processo produttivo per cause legate alla crisi e al liberismo sfrenato, ma che non riescono più a reinserirsi perché ormai troppo in là con gli anni, oppure per scarsa professionalità acquisita. Anche questi sono da considerarsi nuovi soggetti Sociali con i quali iniziare a percorrere una strada insieme per attivare tutte quelle proposte che ancora esistono e fermentano nel buio dell’indifferenza. Allargare la legge esistente a questi soggetti, ma anche ai migranti che chiedono asilo politico, permetterebbe sicuramente alla Cooperazione di attingere a nuova linfa e nuove forme di lavoro e libererebbe lo Stato dal perdurare di condizioni di inoperatività obbligata grazie alle forme fondamentali di aiuto economico come per esempio la Cassa Integrazione.
Gli obiettivi raggiungibili sarebbero in questo senso molto ampi e altrettanto fondamentali nel quadro odierno di crisi endemica di ritorno. Tale crisi, derivante da un ventennio di pratiche neo liberiste e commistioni massoniche a ogni livello, ha determinato una inversione di coscienza. Oggi le classi dominanti hanno ristretto l’egemonia attraverso la liquefazione dei modelli classici di sfruttamento e diminuendo così il numero sostanziale dei plurimilionari, riducendoli a meno di cento nel globo intero. Paradigmatico in questo senso l’inversione di tendenza auspicata dal ‘68 dove la redistribuzione dei redditi e delle terre aveva assunto carattere sociale e determinante per la liberazione delle classi più povere, barattata nella più grande bolla speculativa e economica successa soltanto dopo meno di quaranta anni.
Il movimento cooperativistico e il modello sociale sono di fronte a un bivio e quindi a una scelta fondamentale e fondante: mettere nuovamente al centro del fare il lavoro e i diritti, oppure il mercato e lo sfruttamento. Il bivio sembra alquanto ostico e di difficile interpretazione al primo sguardo. Forme partecipative hanno dimostrato che la cooperazione e il sociale stanno insieme per osmosi e non soltanto per imposizione di terminologie e assonanze. Il tema dello sviluppo del mondo cooperativo ha dimostrato, soprattutto dove ancora non esisteva, leggasi Argentina post default, che nella crisi generalizzata il modello cooperativo ha le carte in regola per vincere le sfide fondamentali dell’integrazione e dello sviluppo tecnologico. Non è una novità suggerire una verità di base e cioè che i lavoratori hanno la conoscenza delle loro macchine e delle loro competenze e mettendole a frutto hanno la capacità di portare avanti la produzione in autonomia. Non è un ragionamento rivoluzionario questo: è semplice buon senso. Semplice dimostrazione che il vecchio padrone delle ferriere senza gli operai avrebbe finito per dover lui battere le lame oppure chiudere la stessa ferriera. Il processo inverso è l’emancipazione dal padrone e dalla necessaria compensazione tra diritti e doveri. Le fabbriche in Argentina, chiuse da padroni indaffarati ad arraffare il massimo profitto e scappare, sono state messe in sicurezza dagli stessi lavoratori disponibili ad impegnarsi e dare il massimo della disponibilità, impegnando a volte anche propri denari formando Cooperative di lavoratori: il primo passo verso una più matura cooperazione sociale.
Attraverso questi piccoli esempi possiamo affermare che anche in Italia, aiutati da una legge già in vigore, potremmo senza troppi sforzi rinnovare quel mutualismo che ha latitato da troppo tempo. Possiamo prefigurare un nuovo modello di welfare a dimostrazione delle nuovo e sempre più pressanti necessità del nuovo modello di sfruttamento. Gli studi sono stati fatti, ma andrebbe ricollocato il titanico sforzo teorico nella pratica di ogni giorno. In embrione alcune forme di pratiche sociali legate alla politica attiva sono state sperimentate, soprattutto durante le recenti catastrofi naturali nel centro Italia. La cooperazione, il neo mutualismo e le tante associazioni sul territorio hanno messo in moto il necessario terreno su cui far fiorire reti di auto aiuto e mutualistiche.
Rendiamo questi sforzi modelli di crescita e fenomeni non isolati. Dobbiamo provarci, possiamo farcela.